Ero andato, qualche giorno fa, a cercare il mio amico Z** nella città di Vacca pezzata. Lo trovai che si specchiava nella vetrina di una libreria. Era tranquillo, sorridente. Come m’ha visto “Quijano, mi fa, tu ci credi alle coincidenze? Io no, eppure mentre t’aspettavo, è passato un tipo alto, spalle larghe, m’ha detto ‘Dai questo all’ispanico, l’amico tuo’. Gli dico di si, ma non lo riconosco. Allora mi metto a leggiucchiare ‘sto foglietto che m’ha lasciato. M’è venuto da ridere.” L’ho guardato Z**, ero perplesso, così lui m’ha passato il biglietto. Dopo, se n’è andato, aveva da fare…
All’inizio, ammetto, pensavo che quel foglio fosse uno scherzo – tanto meglio, si potrebbe dire, no? – poi, in realtà, mi è parso il suo contenuto più una provocazione che un divertissement. Anche se il motivo, quasi inesploso, diciamo solo innescato, è bene evidente, restano delle zone d’ombra.
Le parole, però, ora stanno a zero. Vi lascio alla lettura, con l’auspicio che l’autore si faccia carico di spiegare, accendere anche solo un lumino, se se ne dovesse presentare l’occasione.
Adolf Hitler leggeva. Il più grande mostro del ventesimo secolo leggeva. Il più grande mostro del ventesimo secolo, quando ancora non era un mostro, ma solo uno squattrinato artista dal precario talento, leggeva. Leggeva. Libracci? Forse. La fissa dell’antisemitismo. Sì, certo. Ma leggeva, porca puttana! A causa dell’infinita curiosità che si ha da ragazzi, ricordo che ad una festa di paese, su una di quelle bancarelle presso cui vendevano una volta libri a poche lire, presi quel volume rosso, di pessima qualità, una sorta di giornalaccio adattato al formato di un libro, le pagine opache, o scure, illeggibili a volte: la svastica sulla copertina, e la sensazione che avessi preso tra le mani qualcosa di non consentito, di trasgressivo, libidine per i miei quindici anni approcciarmi al libro proibito, derelitto dalla storia. Mein kampf. Non ne ho un ricordo ben definito. Se cercassi qui in casa tra i vari scaffali, penso lo troverei, ancora più consumato ed illeggibile di allora. A quel tempo era storia, i contenuti del libro non erano cronaca. La grande crisi dopo la prima guerra mondiale, Weimar, l’inflazione galoppante, l’odio, la subornazione, l’astio, la volontà di individuare il nemico. La volontà. Porca miseria, la volontà! Quell’uomo passato nella memoria di tanti popoli come un assassino, un guerrafondaio, un pazzo: la sua ferrea volontà. Mi immagino la figura esile, ridicola con quei baffi da perpetua caricatura di un comico holliwoodiano, girare nella Vienna illuminata della Belle Epoque, vedo il suo risentimento per il contrasto tra la sua condizione di diseredato e lo sfarzo dei Valzer che respirava intorno a sé. Vedo la rabbia, la respiro, la percepisco, immagino lui rompere i pennelli, stracciare le tele, arrendersi alla rassegnazione dell’impotenza del talento nella lotta per l’affermazione. Forma d’essere decaduta, sfortunata, impossibilitata ad alcunché. Leggeva coi pennelli da buttare, leggeva, incanalava, si formava, si incamminava: tornava in Germania. Monaco, il Putch. L’immaginazione dello scrittore cede ora il passo al dato certo, ai racconti degli storici: tutto noto, tutto risaputo. Ma la storia non penetra il cuore dell’uomo. Cosa sappiamo? Cosa leggeva? Stupidaggini. I Savi di Sion, stupidaggini, menzogne, falsi storici. Cosa resta di menzognero nelle odierne stupidaggini? Restano stupide, ma non sono più menzogne, non hanno più niente di propulsivo, di propositivo. Solo realismo, quadretti per adolescenti e vecchi morti giovani. Il nulla rilegato. La menzogna pare aver perso attrattiva per la vita, quasi le repellessero i fluidi di sempre, la bile, il sangue, l’urina lasciata lungo la storia dal generale come dal soldato. Dea scappata. In giacca e cravatta non si piscia più. Né si legge, si legge di piscio, si traspone la pancia, lo stomaco volto ad antro del cervello, routinario organo bulbico. Ci si rassegna piano, a non leggere più merda, a non mangiare più per non aver da dare al mondo altra merda. Mi aggiro per Napoli, capitale decaduta, come Vienna. Maria Carolina una volta qui. Non ci sono i Valzer. Ci son stati, cambia tempo, cambia il ritmo. Differente, ma l’altra sera –quale altra? Una delle tante in fondo, non ha importanza il “qualis” – al San Carlo brillavano le Bentley, i gioielli, i Rolex, che importa la musica? Per le strade, ore prima, o, nel mentre, alle colonne della Galleria, già a riposare, quanti disperati, barboni, nullatenenti. Quante speranza tradite. Quanta volontà scomparsa! Decomposta in atti di sottomessa emulazione. Oh, il Valzer, dalla De Filippi devo andare! Voglio ballarlo in diretta davanti a tutta Italia! Pure lo Zio d’America – l’emigrazione, vecchia cartolina.. – mi deve vedere da lì! Non leggono più. Non hanno più nulla da leggere, nessuno che li inganni. D’altronde chi scrive? Cosa vogliamo che leggano se non c’è scrittura? Non chiamiamola così, non prendiamoci in giro. C’è intrattenimento, certo. Il Valzer ha omologhi, ma più che altro è sostituito dall’ultimo Volo barra Baricco barra Saviano messi in scena da Bolle mille, Blue Ray, etc etc etc, in una sinfonia di nonsense che qui esagero ma non troppo. Un eccesso per me. Merda da cesso, ma appunto, non c’è più merda. Per le strade ci sono disperati, ma non c’è più merda, metafora multicolore, non c’è rabbia, non c’è niente. Perché la disperazione non legge più? Perché s’è rassegnata, all’imitazione, al desiderio? Muoiano pure centomila francesi per un nuovo Napoleone. I sopravvissuti cantino. Venga pure un altro imbianchino tedesco, cantino le camere inondate di peti, ma sia vinto questo tedio!
Alonso, la prossima volta che vai a Vacca pezzata mi dai un passaggio? Devo farci un servizio.
Passerò a cercare pure te, prima di ritornare, fratro. ;)
ottimo il Latte pezzato, meglio del Lattepiù ;-)
direi che entrambi hanno il loro perchè. io so che il Lattepiù è un derivato di quello pezzato. roba da genealogisti, insomma.
e la domanda sorse sola: che latte beveva il giovine Adolfo quando leggeva?