Sulla pista di un vinile oppure un file
che rovescia la cartella e trova i tuoi
riabbracciati in una foto da robot
come due felici parti di metà
di una vita rivissuta nell’aldilà
POP_X
È in un tripudio di scie luminose e colori lampeggianti che si snoda la narrazione intimista e interattiva di Cereali al Neon, romanzo di Sergio Oricci edito da Effequ. Il protagonista Silvano Rei fluttua nell’antimateria di un futuro post-umano, decostruito, in cui l’immaterialità della rete ha invaso ogni campo dell’esistenza. Il tempo della narrazione è l’assoluto presente dell’epoca digitale: “vorrei vivere sempre adesso, in un presente lunghissimo in cui le informazioni si accumulano fino a farmi esplodere di luce, come una stella che muore”. Lo stile del libro in alcuni punti mette in discussione anche il confine tra prosa e poesia.
Cereali al neon ha i connotati di uno schermo con infiniti collegamenti ipertestuali, in cui finanche le esistenze umane sono scomposte in pixel, ed è negli interstizi tra un pixel e l’altro che si percepisce la drammaticità della distanza, della scomposizione “ho ingigantito ogni singolo pixel di lei. Nella stanza, e anche fuori. La riconoscerei da trenta, quaranta, magari anche cinquanta metri. Senza neanche vederla. Solo dal modo in cui l’aria si sposta attorno a lei quando si muove. (…) Quando cammina, l’universo è una notte stellata dipinta da Van Gogh, attraversata da astronavi e raggi laser.”
In un non luogo fuori dal tempo l’incessante agonia del corpo è sospesa solo per lasciare spazio al desiderio di sparizione, di morte, di sonno, di anestesia. Nonostante questo, la decadenza appartiene ancora ai corpi: “quando sono sotto, immerso nei miei liquidi, la vita mi attraversa e non riesco a immaginare tortura peggiore e tenerezza più grande”. Questo rende il libro tragicamente umano; i personaggi sembrano intrappolati nella propria realtà fino al punto in cui – scambiandosi gli occhiali – si scambiano la percezione della realtà esterna. Siamo di fronte a un bivio narrativo: c’è la condanna all’interpretazione personale della realtà, e un tentativo di scambiarsi gli occhiali e quindi la stessa percezione, di azzerare senza sforzo le divergenze personali e culturali. Questa possibilità poteva costituire il punto di svolta del romanzo, una collisione significativa, ma finisce per essere il convitato di pietra, facendosi barriera invalicabile.
L’autore evidenzia come il bisogno ancestrale e eterno dell’umanità sia legato alla ricerca dell’altro: il protagonista di Cereali al neon è un Lévinas del 2150, a cui è tolta anche l’illusione che la tecnologia possa abbattere la quarta parete tra le persone. È un romanzo di solitudine e incomunicabilità, ricerca ontologica e disgregazione spazio-temporale.
Siamo di fronte a un testo di cesura tra l’esistenza umana e quella post-umana, che sembrano ricongiungersi solo nella stanza del tragico. Tuttavia, non c’è futuro che possa trascendere i limiti dell’umano: “non c’è posto per me nei suoi momenti di felicità. C’è nella tristezza, nei momenti in cui il corpo non ha uno spazio suo e ne cerca un altro fuori di sé.”
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Sergio Oricci,
Cereali al neon. Cronaca di una mutazione
effequ, 2018
“…attraversata da astronavi e raggi laser.” Sì, l’autore ha dimenticato i libri di cybernetica e le insalate di matematica. Ma per favore, ci siete giusto voi a spingere un romanzo di questo livello. Sembra scritto da un bimbo delle elementari negli anni ’70 con la passione per la scrittura. E molte conoscenze per pubblicarlo. E poi gli autori veri vengono sistematicamente snobbati, grazie a riviste come le vostre. Prego, non pubblicate pure questo commento. Prendetemi pure come un “troll.”