Ciò che colpisce del romanzo di Henry Farrell, soprattutto se lo si legge dopo aver visto la sontuosa, magnifica e smodata riduzione che ne ha fatto Aldrich, è la sua asciuttezza. Perché Che fine ha fatto Baby Jane? è un romanzo sobrio in maniera spaventosa, del tutto privo di fronzoli, nel quale il lettore viene messo davanti a una decomposizione dell’umanità ormai irreversibile, con due protagoniste che non riescono a fare i conti non tanto con i fantasmi del loro passato, quanto piuttosto con il fatto di essere esse stesse dei fantasmi.
Nulla si poteva catturare o possedere veramente. A volte si pensa di avere una cosa, ma poi parte di essa, o tutta quanta, se ne va. Nemmeno la vita si poteva possedere veramente, neanche un minuto di essa. Le fu improvvisamente chiaro; la vita continuava a scappare, a fuggire, come le pietre danzanti nelle pietre fasulle, che si spostano e cambiano e si spengono nelle ombre, senza di te. Era tutto un riflesso, niente più. La gente era solo un riflesso. Quando la luce cadeva nella nostra direzione si poteva credere di avere trovato se stessi e che quell’improvviso chiarore e vitalità fosse davvero la nostra vita. Ma proprio quando si cominciava a esserne sicuri, la luce cambiava, e il riflesso, quello che avevamo creduto d’essere noi, si spegneva. E allora si aspettava un’altra fonte di luce, pensando, sperando questa volta di afferrare per sempre chi si era davvero. Ma nell’attesa, vagando nelle tenebre, non si trovava neanche una vaga sembianza di se stessi, e ciò era terribile, spaventoso…
Il fatto è che l’orrore di cui parla Che fine ha fatto Baby Jane? è, nel suo eccesso, banale e riconoscibile: l’orrore della dipendenza in un mondo cui disgusta la vulnerabilità, della sopraffazione in un ambiente che non tollera la sconfitta, della malattia in un sistema che rifiuta la debolezza, per non parlare dell’infelicità. L’orrore del romanzo di Farrell trascende il rapporto morboso, deviato e distruttivo tra due sorelle ex attrici in là con gli anni (Blanche e Jane Hudson, i cui ruoli di vittima e carnefice sono molto più ambigui e intercambiabili di quanto possa sembrare a prima vista) e invade un universo dove occorre fare i conti con un’immagine di noi stessi immobile ma duttile, superficiale ma abbastanza incisiva da rimanere viva nei ricordi altrui; un’immagine che si presta a diventare specchio deformante e divorante, corazza, effigie di tempi migliori, grottesca e caricaturale maschera mortuaria.
Che fine ha fatto Baby Jane? è un romanzo sull’immolazione non solo del presente in nome di un glorioso passato, ma anche di ciò che si è in nome di ciò che si vorrebbe essere, della complessità in nome della facilità. E la cosa più orribile, quella che terrifica e commuove il lettore è che tale sacrificio non è un sacrificio di sangue, ma la macerazione di tutta una vita nel rancore e nel rimpianto, uno spreco increscioso e comunissimo solo di rado intervallato da qualche momento di lucidità, in cui ci si rende conto che non si sta vivendo, ma morendo.
Blanche rimase a sedere, perfettamente immobile, piegata un po’ in avanti, fissando la sorella che se ne andava. Un’ondata di silenzio parve calare sulla stanza. Sospinse la sedia a rotelle fino alla finestra e, scostando i tendaggi, si soffermò a fissare la notte. D’un tratto rimase immobile, il corpo bloccato dalla paura: lacerante come un’esplosione, l’eco della porta che Jane, chiudendosi in camera, si era sbattuta alle spalle rimbombò per tutta la casa. Sembrò per un momento che l’intera casa fosse pervasa da quei ricordi rabbiosi.
Blanche rimase perfettamente immobile. Restò ad aspettare che il silenzio ridiventasse padrone della casa e che le onde sonore smettessero di ripercuotersi sui suoi nervi tesi.
Farrell si concentra con precisione ghignante e maniacale sui tradimenti del corpo, che cresce, invecchia, decade, si rompe, che viene truccato e manipolato nel tentativo, frustrato dalla vita, di fermarlo e di controllare il mondo attraverso di esso. Nel corpo, così come in ogni cosa, c’è una certa coerenza: se in gioventù possiamo trovare i presagi, o il potenziale, nel bene e nel male, di ciò che diventeremo, in vecchiaia possiamo rinvenire le vestigia non solo di ciò che siamo stati, ma anche di quello che potevamo essere. E la malinconia del romanzo si riversa allora in un rimpianto non tanto per quel che è stato, quanto per quelle cose che potevano andare diversamente e che invece i personaggi si sono incaponiti a bloccare, per paura o per vanità (nella riduzione di Aldrich, tale rammarico viene esplicitato in una battuta, assente nel libro, di Jane alla sorella: “Allora in tutti questi anni avremmo potuto essere amiche”).
Ma per brutto che fosse l’appartamentino, il mondo, lì fuori, era ancora più brutto. Il marciapiede che rendeva comunicanti le varie aree del cortile era rotto e irregolare, circondato da tutti i lati da zolle di terra essiccata, da erba morente e da gramigna. Le siepi di oleandro, poste ognuna vicina alla bassa veranda di ogni unità abitativa, erano lasciate a se stesse fino a diventare contorte e informi, con le foglie picchiettate di polvere e fuliggine. In quest’atmosfera, Edwin s’era creato una vita che, in pratica, era un’evasione dalla vita.
Che fine ha fatto Baby Jane? è un romanzo profondamente realista, come tutti i migliori romanzi di genere. È realista perché mostra reazioni umane e devastate a situazioni quotidiane ed estreme come l’infermità, il fallimento, la mancanza d’amore, e soprattutto il disprezzo per la fragilità, introiettato anche dai più fragili. E più di tutto, trasmette una sensazione di solitudine e di isolamento che è la sostanza primigenia di ogni orrore e di ogni follia.
Henry Farrell
Che fine ha fatto Baby Jane? (1960)
Trad. it. Goran Ternich
Bresso (MI), Hobby & Work, 2005
pp. 193