Questo quarto capitolo della serie Millennium (Quello che non uccide, di David Lagercrantz, Marsilio, 2015) era atteso. Dai fan del “giallo” nordico come dagli amanti del thriller. Anche io lo attendevo, come una calamità. Una che può portare a una grande occasione o a un disastro irreparabile.
La trama, per prima cosa.
È l’inverno per Mikael Blomkvist. Millennium fa adesso parte di un grande gruppo editoriale i cui capi cospirano per normalizzare la rivista di giornalismo d’inchiesta senza compromessi. I successi del passato sono ormai messi in discussione, mancano nuove storie da raccontare, nessuna ermeneutica del sospetto da applicare e intrighi del potere da svelare su carta. È un problema pressante per il giornalista d’assalto, lo ripete per almeno 300 pagine. Non ha per le mani uno scoop, uno scandalo. Politica e cronaca sembrano essersi normalizzati da soli. Schegge impazzite della Guerra Fredda hanno finito di fornire materia narrabile e la stessa Lisbeth non si fa sentire da un po’. Non tutto è perduto, a salvare il buon Mikael dal mucchio di storie fuffe non degne di essere pubblicate, manco fosse un editor italiano, torna dall’America -se non lì da dove-, Frans Balder.
Genio dell’intelligenza artificiale e dei processori quantici, Frans Balder abbandona la Silicon Valley per tornare a Stoccolma. Ha un figlio che ha abbandonato alla madre e a un patrigno violento, alcolizzato e una volta famoso. Il bambino, August, è autistico, anzi, come viene più volte spiegato, è un savant. August non conta le carte al Black Jack, il dono del bambino è quello di disegnare con precisione matematica (sic). Frans Balder si riprende il figlio mentre cerca di scoprire chi è che gli ha rubato la ricerca della vita, uno studio misterioso e importantissimo per troppi. Il ritorno di Balder mette in moto il plot, muore, ucciso da un mercenario russo, proprio mentre Blomkvist sta per intervistarlo. È solo un sentiero d’indagine, l’altro infatti è battuto da Lisbeth.
Sono passati degli anni, il cavaliere oscuro Lisbeth Salander è ancora a caccia. La ritroviamo, poco, troppo poco e per troppe pagine, dentro l’Intranet dell’NSA a cercare documenti segreti e trollare il responsabile della sicurezza della famigerata agenzia statunitense. Con immensa dose di cessazione dell’incredulità la vediamo emergere dal loft in cui l’abbiamo lasciata, abbandonare Wasp, il suo alterego virtuale potenziato da anni di studi di matematica avanzata, raccogliere la sua Beretta e buttarsi nella mischia. L’impero del male minimo di Zalachenko è sì stato distrutto ma sembra che alcune sue branche si dedichino a business più adeguati del trafficking: lo spionaggio industriale. Tocca a Lisbeth risolvere il mistero di Balder, della sua morte e della sua ricerca scomparsa. Un mistero che si intreccia con il suo passato nella tradizione classica del thriller.
Siamo in una Svezia in cui la Sapo e la polizia sono assenti e/o incapaci come in un film di Tarantino, lasciano libera la scena continuando a occupare pagine e pagine del romanzo. Solo Lisbeth può salvare August e insieme fottere i vertici dell’NSA, evitando di finire in un black site, e la Zalachenko Posse 2.0, evitando di finire ammazzata. Blomkvist, ancora una volta, farà di tutto per proteggerla.
Veniamo al sodo.
Zero spoiler finora, chi vuole si compri il libro. Da qui in poi, invece, si può smettere di leggere. Qua cominciano i problemi, tecnici soprattutto.
C’è un unico colpo di scena, un grande, nuovo e improbabile nemico, che si oppone a Lisbeth. Meglio si opporrà, questo romanzo è un capitolo d’introduzione, un cliffhanger furbo e furbo e basta. C’è una nemesi nuova e fortissima, tirata con le pinze dalla capacità di procreare mostri di Zalachenko padre. Già solo per questo anche Millennium 5 andrà letto e comprato.
Oltre la compulsione all’acquisto però va detto: questo non è un bel romanzo e soprattutto non è un bel thriller.
Da subito un lettore capisce che la sorte di Frans Balder è segnata. Una necessità narrativa che elimina ogni suspense, questo se non entra in scena Bruce Willis (Codice Mercury, 1998).
I nostri eroi, divenuti icone del thriller come alcuni grandi difensori della Legge e della verità, non sono evoluti. In un assetto conservatore, Lisbeth è ancora nel costume della darkettona, cresciuta, senza cambiare. Blomkvist è solo più vecchio. Con il cambio di autore non è arrivata una personale versione/evoluzione dei personaggi principali. Mikael Blomkvist diventa un Glenn Greenwald svedese e Lisbeth Salander passa da guerriera che combatte chi colpisce gli indifesi a novella quasi Assange contro il sistema del controllo di massa. No place to hide di Greenwald sembra l’unico libro su cui Lagercrantz si sia documentato per questo romanzo. Non basta una rielaborazione dell’attualità per fondare l’evoluzione dei personaggi. Carente è infatti anche lo svolgimento.
La minuta descrizione dei personaggi secondari qui diventa una prolissa carrellata di dettagli irrilevanti al plot su personaggi insignificanti. Un tentativo di seguire le orme del predecessore riuscito male. Le descrizioni sono ripetitive, le spiegazioni sulle indagini sono ripetute e ripetute come per compensare una trama apparentemente complessa e inutilmente ingarbugliata. Le poche scene d’azione sono abbastanza insulse. Un attento lettore di thriller e fantascienza trova abbastanza risibili le descrizioni scientifiche e di hacking. La Lisbeth di Larsson è hacker competente e capace, che si affida a un realistico mix di hardware e software dedicato. Quella di Lagercrantz è invece l’onnipotente hacker, una figura davvero superata, in film e narrativa di genere.
Non basta però e continua. Non c’è thrilling per 4/5 del romanzo che di base è un techno-thriller noioso. Manca proprio l’elemento della paura, Lagercrantz non crea tensione e la tensione si crea mettendo davvero in pericolo l’incolumità degli eroi, un elemento che l’aspirante scrittore Stieg Larsson comprendeva e maneggiava alla grande. Non si rimane davvero incollati al libro chiedendosi che succederà.
Dall’opera al creatore adesso, per forza. Che abbia scritto la biografia di un calciatore è irrilevante, in troppe parti lo scrittore non ha gli strumenti adeguati al compito. Dov’è l’autore di questo libro? È questo il problema, se c’è una firma autoriale essa è inadeguata. Lagercrantz non è un thrillerista e si vede, rectius, si legge. Ha svolto il compitino di continuare l’opera di Larsson e quindi creare un franchise, uno ad autore morto.
Appare poco Lisbeth, forse l’autore si vergognava della sua. C’è un Blomkvist ripetitivo, stolido quasi. Il repertorio lessicale di Lagercrantz fa emergere i suoi limiti da scrittore di genere lanciato in una saga importante che gli è consegnata imprudentemente “chiavi in mano”. Un solo esempio: un assassino russo viene descritto come un ninja, tre volte. Non c’è una katana, il russo non possiede le arti dell’invisibilità e non c’è un Cia Team in questo romanzo, solo uno scrittore fuori dal testo e fuori dalla tradizione del genere, uno a cui manca il gergo. Altro errore, di struttura, è una ferita a Lisbeth, un colpo di pistola alla spalla che guarisce quasi del tutto in poche ore. Il romanzo Quello che non uccide si svolge in pochi giorni, alla ricerca di frenesia e movimento. Non si fa rompere una gamba a Clarice Starling in un inseguimento se mancano pochi giorni a che Buffalo Bill completi la sua trasformazione. Dettagli, forse irrilevanti per il lettore, che comunque vanno a sommarsi con difetti e carenze già citati.
Non mi interessa in questa sede raccontare la storia dell’eredità, letteraria e finanziaria, di Stieg Larsson. Anche per questo, per l’ambiguità che è seguita al sul successo postumo, ritengo che i suoi personaggi e il suo universo meritassero di meglio. Ed era facile servirlo a noi lettori e fan.
Lisbeth e Blomkvist si meritavano una rivoluzione competente del personaggio, alla Frank Miller con Batman. Magari una voce originale e capace rimanendo nella conservazione, affidando, che ne so a una Camilla Lackberg questi sequel – non mancano i giallisti scandinavi competenti e bravi. Una traditio lampadis era possibile e non è avvenuta. Lontano dalle istanze e dal sottotesto di Larsson, Lagercrantz e il suo editore hanno confezionato un prodotto non adeguato, e soprattutto, cosa poco perdonabile per un thriller, noioso.
Non c’è sviluppo nel mondo Millennium di Lagercrantz, un immaginario bloccato. Niente Breivik o sottomarini russi nella laguna di Stoccolma. Cristallizzato questo universo narrativo, le lotte tra hacker non svecchiano un romanzo vecchio, aggiornato solo strumentalmente.
Inoltre la finestra che la trilogia Millennium aveva aperto sulla società svedese, quel welfare perfetto e la colpa della neutralità nei confronti della Germania nazista, è appannata, sostituita da una porta prodotta in serie che solo per ricordo e affetto si può degnare di uno sguardo.
Stieg Larsson meritava di più – il successo commerciale era garantito, comunque.