Confesso che da un anno a questa parte vengo visitato in sogno e iniziato al sapere esoterico di do Nascimiento (prediletto di Vanna Marchi), alla magia cialtrona del mago Manuelito (famoso per i fatti di Firenze) e per bocca della veggente di Serradarce alla mistica del Glorioso Alberto.
Questi frammenti raccolgono la Loro voce da me trascritta in queste notti di fuoco.
Alcuni sono stati ospitati da Nazione Indiana (qui e qui), qui ve ne sono altri.
Chiromantica medica è il loro nome.
La rivelazione del Cristo danzante è scritta nelle RAM di distributori di confetti di Sulmona. Distributori trasformati in cyborg da Serafini scaltri, vuole la leggenda, trapiantando cervelli di antichi Sufi giunti nella Marsica a seguito della grande migrazione anatolica.
Nella Valle del Fucino, il giorno della festa di Sant’Eusanio martire, Dervisci-meccanici ruotano al ritmo di fisarmoniche e tamburelli, ebbri di carburante allungato con centerbe e caciocavallo; seminano confetti e girano, girano e cantano: che il sortilegio e l’estasi riavvolgano il tempo e salvino l’uomo crocifisso, che il dio risorto gioisca e danzi, danzi e ami ancora.
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Praticavano una piccola incisione sul polso per far fuoriuscire l’arteria radiale, poi passava a scarnificare il braccio tutt’attorno, raschiando via grasso e muscoli, tranciando tendini e toelettando fino a lasciare il vaso penzoloni. Il dolore era immane.
I più arrivavano a perdere la mano, alcuni arrivavano all’avambraccio, quasi nessuno superava il gomito.
Ancora viva e gonfia, l’arteria veniva arrotolata attorno al moncone come un bracciale, i capillari torti e annodati disegnavano tatuaggi pulsanti da ostentare come cimeli, rampicanti angiomatosi simbolo della loro capacità di resistere al dolore.
Non conoscevano i baci, usavano carezzarsi i moncherini per sentire pulsare nei palmi il battito dei loro cuori. In quel momento di assoluta vulnerabilità, prede delle emorragie e dei graffi, si affidavano alla delicatezza altrui e ancor più del dolore, la capacità di abbandonarsi completamente all’altro era misura del loro coraggio.
I pochissimi che arrivarono a perdere l’intero arto arrotolavano la succlavia attorno al collo e divenivano re, battezzati col nome degli dèi: Valsalva, Tebesio, Thorel, Eustachio. Ai loro figli veniva rimosso lo sterno in modo che il cuore battesse a vista, racchiuso in un sacchetto di plastica cucito al petto. Creature di passaggio, vivevano poche settimane, ogni soffio o singhiozzo poteva essere mortale così che le loro pulsazioni, scandendo il tempo, insegnassero ai padri la condizione dei sovrani: venerati come dèi, transitori come nuvole.
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E questa sarebbe vita?
Chiese l’uomo di Anagni mentre guardava le due goccioline trasparenti fondersi in una sola.
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Chi siete ci chiedono. Ma chi risponderebbe mai sono stato diluvi densi e rombi di tuono, sono stato tepore di un sole altissimo, poi ancora venti gelidi da ovest?
Qualcuno risponde sono stato afa densa, scrosci caldi e umidità, sono diverso da te che sei nato sotto le scottature del sole e sei cresciuto nelle stagioni miti di valli levigate.
La condizione di una vita senza ricordi, la nostra, dove l’unica memoria che ci appartiene è memoria delle perturbazioni e dell’incostanza del tempo. Questa esistenza meteorica e meteoropatica ci condanna a prevedere i cambiamenti climatici nelle cefalee e nei dolori artralgici delle giunture, negli spasmi vaso-vagali e nei cigolii reumatici, a logorarci nell’attesa di un temporale o di una giornata assolata che cambieranno per sempre il nostro essere, giacché la nostra identità è storia del cielo e delle pressioni.
Il tempo dell’esistenza è scandito dal picchiettio della pioggia, percepito nella pelle scaldata dal sole e stemperata dal freddo che lo dilata, un tempo che non esiste nelle miti giornate di primavera, quando l’angoscia di un clima impalpabile ci fa rispondere: non siamo niente.
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Da un pizzino di Totò Riina indirizzato a un salumiere-mago di Bulluno:
Prendere una marmotta, accecarla, nutrirla esclusivamente con carne, possibilmente di volpe, piccione o scimmia (a piacere anche occhi di siluro). Ingozzarla, se necessario utilizzare imbuti.
Fare ingrassare l’animale.
Una volta raddoppiata di peso, sventrare, scuoiare, sviscerare (conservare il fegato), far frollare la carne sotto la neve per alcuni giorni.
Tagliare a pezzi.
Sciacquare la carne sotto acqua corrente, metterla in un tegame con bacche di ginepro, chiodi di garofano, finocchio selvatico; aggiungere il fegato, aggiungere foglie di alloro e aglio intero sbucciato. Versare vino bianco, lasciare a mollo per 12 ore.
Prendere i pezzi di carne, farli rosolare con olio e burro, aggiungere cipolla, profumi e prezzemolo. Sputare tre volte, due volte nella pentola e una a terra.
Aggiungere vino rosso e brodo, cuocere a fuoco lento per due ore circa. Il recipiente non va mai coperto.
Servire. Col fondo della pentola predire il futuro.
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Producevano formaggio. Latte di cane o di balena per lo più.
Mungerle era difficilissimo.
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Avevano capito che tutte le vite erano ugualmente sacre. Sia il batterio che il cervo che la foglia per il semplice fatto di esistere avevano superato la carneficina della selezione naturale. Ognuno era evoluto e adattato a questo mondo.
Per questo smisero di assumere gli antibiotici, bruciarono gli antivirali, buttarono i disinfettanti. Si nutrirono solamente della frutta caduta dai rami, delle foglie secche, della sabbia. Le malattie dilagarono.
Alcuni per non rischiare di uccidere insetti si segregarono in casa, smisero di camminare. Infine impazzirono.
Altri conoscevano la vita autonoma delle cellule e non potendo accettare il ricambio che lega inesorabilmente ogni sussurro alla morte della materia e alla sua sostituzione, decisero di passare la vita sdraiati a letto, nutrendosi d’acqua e cercando di compiere il minor numero di gesti possibile.
Respiravano lentamente.
Presto molti uomini si spensero. I restanti, dilaniati dal far vivere loro stessi o le loro cellule, divennero anch’essi pazzi.
Si estinsero tutti in breve.
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Immagine di copertina: Jackson Pollock, No. 5, 1948.