«Keep your eye on the donut, not on the hole»

In un video inserito nei contenuti speciali del DVD di Twin Peaks – The Return, David Lynch fornisce uno dei suoi sibillini consigli sulla storia della serie TV che ha rivoluzionato la televisione per ben due volte (nel 1990, quando è andata in onda per la prima volta sul canale via cavo ABC, e nel 2017, con il revival ospitato da Showtime). Il consiglio è: «Keep your eye on the donut, not on the hole», Presta attenzione alla ciambella, non al buco. La presenza di ciambelle è un aspetto non secondario in Twin Peaks: chiunque abbia visto la serie ricorda l’allestimento pantagruelico di donuts sul tavolo per le riunioni dell’agente speciale Cooper, dello sceriffo Henry Truman e degli agenti Hawk e Andy; e in una delle poche immagini diffuse da Showtime per il lancio del revival, il “director” Gordon Cole (Lynch stesso) è intento ad addentare una ciambella con l’aria di trarne grande soddisfazione.

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Ma è un altra la ciambella a cui il suo suggerimento fa pensare: quella della storia di Twin Peaks, una narrazione circolare che impone continue visioni, e in cui «il passato determina il futuro» (come ribadito dalla tagline della Parte 17), ma ciò che è già avvenuto può anche essere cambiato. La metafora della ciambella non è nuova per Lynch; in un’altra intervista, il regista di Missoula la spiegava meglio:

“There’s the donut and there’s the hole, and you should keep your eye on the donut, and all the other things that go on, they don’t matter, what matters is falling in love with the story or ideas, and realizing those. There are things going on in the world all the time, and some people become obsessed with those, but it’s a little bit absurd, so your job is to stay focused and hope that ideas keep coming and you’re able to realize them […] The hole is so deep and so bad, the donut is a beautiful thing.”

Se in questa intervista Lynch usa la ciambella come metafora del processo creativo (la caccia di idee, che pratica tramite la meditazione trascendentale, come è noto), è la struttura stessa di Twin Peaks ad essere circolare – a diventarlo con il revival trasmesso da Showtime e con il Final Dossier di Frost.
La serie creata da Lynch e Mark Frost più di ventisette anni fa ha ripreso nel 2017 il filo di una narrazione che sembrava non avesse più mordente: la rivelazione dell’assassino di Laura Palmer (nell’ottava puntata della seconda stagione, Episodio 16) aveva eliminato la spinta narrativa primaria, il whodunnit tipico delle detective stories. La coppia creativa non aveva infatti intenzione di rivelare l’identità del killer e aveva dovuto cedere alle pressioni della ABC, che aveva già spostato la seconda stagione dal mercoledì alla domenica sera, causando il progressivo calo degli ascolti. Con la riapertura della narrazione nel 2017, le spinte centrifughe sono numerose: la storia si allarga a numerosi scenari (New York, Las Vegas, perfino Parigi, anche se in sogno) e le storie si moltiplicano, non tutte con un arco narrativo che si chiude; moltissimi personaggi sono solo nominati o le loro vicende rimangono senza esito (come l’affaire fra Gersten Hayward, sorella di Donna, e Steven Burnett, genero di Bobby e Shelley). Eppure la vicenda principale – che straordinariamente rimane l’omicidio di Laura Palmer – si chiude come una ciambella (una ciambella multidimensionale) – o come un nastro di Möbius.

Autorialità: i creatori di Twin Peaks 

È difficile individuare nelle serie TV un responsabile unico così come si è soliti concepirlo in campo letterario: Jason Mittel in Complex TV (2015) sottolinea come all’autore di un libro sia attribuibile tutto ciò che c’è nel testo, mentre per i film il regista è la figura di riferimento; nella serialità televisiva, scrive Mittel, l’autorialità è da individuarsi nel management, ed è quindi diffusa fra più persone, responsabili della storia parzialmente e in maniera non continuativa (sceneggiatori e registi spesso cambiano di puntata in puntata). Allo showrunner va la responsabilità generale della coerenza narrativa, ma nonostante la centralità di questa figura (a cui Landau ha dedicato un libro tradotto in Italia da Dino Audino, 2015), spesso anche gli showrunner passano, mentre la serie si evolve e muta.
Se nella sua prima vita Twin Peaks ha avuto diversi sceneggiatori e registi (stante la supervisione creativa di Lynch e Frost), il revival è interamente un parto della mente dei suoi creatori: le diciotto parti sono scritte da loro e sono tutte dirette da David Lynch, che è anche sound designer di ogni episodio. La complessità della “serie evento” è interamente attribuibile a Lynch (e Frost), i dettagli a cui prestare attenzione sono visivi e sonori quanto verbali: il mondo narrativo creato con il revival non è solo denso, quasi vischioso; è anche circolare, una ciambella in cui passato e presente formano un impasto compatto. Il revival del 2017 non solo riprende la narrazione degli anni Novanta, espandendola nello spazio e nel tempo, ma la avvolge e la chiude circolarmente, allo stesso tempo aprendola su molti livelli.

Dei finali e delle (ri)aperture

Le serie TV sono definite da due caratteristiche: la sequenzialità e il medium televisivo, entrambe in evoluzione in questa terza golden age. La TV ha visto espandere il numero dei canali e delle piattaforme, nonché le formule di acquisto dei contenuti: abbonamenti, fruizione on demand, disponibilità illimitata di visione legale o illegale in streaming consentono agli spettatori di costruire un proprio personale palinsesto di visione; ogni nicchia è accontentata. La serialità si è trasformata di conseguenza, in stretta interdipendenza con le tecnologie di trasmissione delle narrazioni audiovisive: le storie sono strutturate diversamente a seconda della loro pubblicazione; una trama costruita per la trasmissione settimanale è diversa da quella concepita per la pubblicazione contestuale dell’intera stagione (il modello Netflix, per cui è la prima stagione a funzionare da pilot, cfr. Landau 2017). A subirne le conseguenze è la possibilità di una conclusione delle storie, che devono sempre essere progettate per la riapertura. Non è così per Twin Peaks che, nonostante la mancanza di un finale tradizionale che sia esplicativo, riavvolge il nastro della narrazione, in un certo senso.
La forma di Twin Peaks è infatti circolare, ma in una maniera del tutto peculiare: il nastro di Möbius è richiamato esplicitamente nel finale della terza stagione (Parte 17); lo emette, fra sbuffi di fumo, la nuova versione di Phillip Jeffreys, una teiera gigante che evita l’imbarazzo di dover rimpiazzare David Bowie. Il nastro di Möbius è la figura geometrica maggiormente citata nei commenti alle opere di Lynch: Lost Highways sembra averne la struttura, con il protagonista che si trova sull’altro lato del nastro di una narrazione tutt’altro che lineare. Allo stesso modo l’Agente Speciale Dale Cooper e la sua segretaria Diane (a cui la terza stagione regala le fattezze di Laura Dern, incarnando una interlocutrice finora silente, a cui Cooper si rivolgeva nei suoi nastri) diventano, nel finale, altri: i Richard e Linda che erano stati annunciati sin dalla prima puntata dal Gigante/Fireman («Remember: 430. Richard and Linda. Two birds with one stone», Parte 1).

La storia di Twin Peaks si conclude, di fatto, nell’ottava puntata della seconda stagione (Episodio 16), quando il tormentone “Chi ha ucciso Laura Palmer?” trova risposta, e la tensione narrativa inevitabilmente viene allentata. Da quel punto in poi, si ha una riapertura della storia con la comparsa di Windom Earle, la nemesi di Dale Cooper che proviene dal suo passato (Cooper guadagna una backstory che comprende anche l’amore per Caroline e la sua perdita). Dall’Episodio 17 in poi, le linee narrative si diluiscono molto: Nadine acquista una forza sovrannaturale assieme alla convinzione di essere una adolescente; va ancora peggio per James, che «inciampa nel ruolo di sfigato gabbato in un omicidio che sembra preso di pari passo dal noto scrittore noir James M. Cain», come riassume Mark Frost nel Final Dossier (2017). L’interesse di Cooper viene spostato sul nuovo personaggio di Annie (Heather Graham), assoldata forse per tentare di migliorare gli ascolti (in calo dopo lo svelamento dell’assassino), e solo nel finale della seconda stagione, con il ritorno di Lynch alla regia, il focus della storia torna sull’omicidio di Laura Palmer; di fatto non è ancora chiaro chi abbia ucciso la reginetta della scuola, dato che al di là dell’esecutore materiale del delitto c’è un intero mondo di entità soprannaturali che operano in modi misteriosi.

Contro la linearità

Le storie create da David Lynch tendono a rappresentare lo sprofondamento nell’inconscio del loro creatore, a mostrare come le idee si presentino sotto forma di immagini e personaggi che il regista si limita a ricreare nella maniera più fedele possibile. Molti dei video presenti come contenuti speciali nel DVD Twin Peaks – The Return mostrano Lynch mentre istruisce gli attori fornendo indicazioni precise finanche sull’intonazione delle frasi e sulle parole da sottolineare nella recitazione: non c’è margine di improvvisazione una volta che la scena è decisa. Gli attori sembrano recitare in terza persona come nel teatro straniante di Brecht, e quando chiedono spiegazioni, il regista non fornisce contesto alla loro performance, si limita a spiegare esattamente l’inclinazione emotiva che vuole. I “dietro le scene” mostrano un ironicamente esasperato Jim Belushi chiedere spiegazioni a Lynch: il regista gli conferma che, nel recitare la scena alla stazione di polizia di Twin Peaks (Parte 17), il suo personaggio deve essere stupito e non capire nulla… come Belushi stesso. L’attore non ha idea di dove si collochi nella storia la scena che si sta girando, né dei rapporti fra i personaggi.
La scena che si svolge a Las Vegas in ospedale – quella in cui Dale Cooper torna in sé («I am the FBI», Parte 16) – è la prima girata sia da Don Murray (nei panni del capo di Dougie Bushnell Mullins) che da Belushi e Robert Knepper (i fratelli Mitchum); Lynch spiega agli attori che Dougie Jones, in coma, è «uno di famiglia» e che gli vogliono tutti molto bene. Nonostante la scena in ospedale chiuda una parabola narrativa apertasi nella Parte 3 (quando Cooper si era elettricamente trasferito nel corpo di Dougie Jones), gli attori hanno recitato le scene in ordine contrario rispetto a quello della storia, cosicché le loro reazioni e la loro interpretazione del proprio personaggio erano completamente slegate da ogni contesto.
Accade lo stesso per la scena girata alla stazione radiofonica nella Parte 8: il woodsman frantuma due cranî e trasmette nell’etere un incantesimo, quindi esce dalla stazione. Eppure la prima scena girata è quella in cui si allontana dalla stazione della KPJK: in questo modo l’attore non poteva conferire al personaggio la portata emotiva della violenza appena perpetrata. La recitazione appare così straniata, e questa costante di Twin Peaks contribuisce a rendere l’atmosfera surreale.
In una storia che si chiude annullando quanto avvenuto sin dalla prima stagione nel 1990, in cui i tempi sono sempre intermittenti, sfasati, ha senso che lo stesso tempo narrativo di recitazione fosse alterato, che i personaggi vivessero eternamente solo nel presente, inanellando scene completamente slegate fra loro. La mancanza di linearità tanto nella narrazione quanto nell’esperienza degli attori contribuisce a creare un’atmosfera onirica: i personaggi sono visti dal punto di vista di chi sogna senza capire cosa accada nel suo sogno, né se sia sveglio.
Rappresentare artisticamente l’inconscio porta a una narrazione scomposta (nel Final Dossier le vicende sono definite «a fractured fairy tale») in cui le scene sono giustapposte, i personaggi non hanno un arco narrativo, sono ripresi nel mezzo delle loro attività quotidiane prive di rilevanza per la storia (come per gli scambi ai tavoli del Bang Bang Bar).

(parentesi)

In letteratura il percorso dal Modernismo al Postmodernismo era partito dalla mimesi dell’io, poi diventato invadente sulla pagina, finché non si era rotto l’argine fra “io” fittizio e “io” reale (con John Barth e poi David Foster Wallace). Ma se la letteratura richiede che i sogni vadano tradotti in linguaggio – e quindi inevitabilmente trasformati –, il cinema consente di mostrare scene per cui l’autore stesso non abbia una spiegazione (lo aveva intuito già Pirandello nel suo articolo Il dramma e il cinematografo parlato).

(fine della parentesi)

L’atmosfera onirica di Twin Peaks è espressa da Audrey Horne nella seconda puntata della prima stagione: «Isn’t it too dreamy?». Il nastro di Möbius indica che tutta la storia gira nella mente del suo creatore, e che nel raccontarla cerca di concentrarsi sulla ciambella e non sul buco: sulle idee (scene, personaggi, frasi) e non sul vuoto creativo.

Condanna alla linearità (libri vs serie TV)

Per quanto Twin Peaks sia ufficialmente la serie di David Lynch e Mark Frost (anche per la sua terza stagione), sembra evidente che Lynch sia l’indiscusso creatore del revival, che ha partorito direttamente dalla sua mente (basta guardare i “dietro le scene” per averne la certezza). A Frost va la paternità dei libri che hanno preceduto e seguito la terza stagione: Twin Peaks. The Entire Mystery (2015) e The Final Dossier (2017). Il primo è (la finzione di) una raccolta di materiali storici sulla zona di Twin Peaks, su presunti avvistamenti alieni in New Mexico e sull’esistenza di un anello che è stato posseduto anche dal presidente Reagan (e, come si insinua nel Final Dossier, anche da Donald Trump). Il Final Dossier, compilato dall’agente Tamara Preston per il “director” Gordon Cole, copre i buchi narrativi della terza stagione banalizzando le vicende. Diviso in fascicoli, il Dossier tira le fila delle vicende riguardanti la morte di Leo Johnson, la convalescenza di Audrey Horne in ospedale, la scomparsa di Donna Hayward. La terza stagione lasciava indeterminati gli sviluppi dei cliffhanger della seconda stagione, perché non era narrativamente opportuno riassumere venticinque anni di vicende diegetiche; il libro di Frost si muove diacronicamente avanti e indietro per poter ricucire tutta la narrazione, col risultato di deformarla. Quanto alla storia di Norma e Big Ed, nel Dossier si commette l’errore macroscopico di proseguire con una coda narrativa quanto visto nella serie. Nella Parte 15, Ed Hurley chiede a Norma di sposarlo, e il loro bacio suggella una vicenda ultratrentennale in cui i due si erano rincorsi senza mai potersi incrociare. Protagonista della scena è la canzone I’ve Been Loving You Too Long, cantata da Otis Redding: un commento più che risolutivo nel concludere la vicenda d’amore contrastato di Ed e Norma. Nel Final Dossier si parla anche del loro matrimonio e della presenza di tutta la cittadinanza alla celebrazione: un’aggiunta che sminuisce la portata emotiva del finale seriale.

Il report di Tamara Preston è esaustivo, e i suoi commenti lo privano dell’oggettività sterile di una comunicazione ufficiale: l’agente dell’FBI (interpretata nella serie da Chrysta Bell) è empatica nei confronti di alcuni dei personaggi e si scaglia con forza contro altri (per esempio considera Vivian Smythe, la madre snaturata di Annie Blackburn, con disprezzo). L’agente Preston chiude la storia spiegando come tutto sia cambiato: nel suo livello di realtà, i personaggi stanno dimenticando che Laura Palmer sia mai stata uccisa, e ogni traccia di quell’evento si limita alla notizia della scomparsa della ragazza (Leland si sarebbe ucciso l’anno successivo per il dolore). La realtà cambia perché Laura è stata salvata, come sembrava suggerire la terza stagione (Parte 18): ma rendere esplicito un finale aperto – e quindi selezionare uno fra gli infiniti esiti o spiegazioni possibili – limita la narrazione. L’ansia di chiusura di Frost è caratteristica del mezzo linguistico, che deve essere chiaro e lineare nella stesura quanto nella fruizione, dato che procede per porzioni di testo e per una comprensione logica, una traduzione mentale dalla parola all’immagine o alla sensazione corrispondente al testo. L’audiovisivo consente di veicolare immagini e suoni che si contrastano fra di loro (come nella mattanza di Ike the Spike con la canzone che ripete «I’m a good man»), è costituito da più canali che veicolano messaggi diversi rivolti a sensi diversi. Vista e udito devono cooperare per consentire la fruizione dell’intero prodotto audiovisivo.
Le atmosfere della Parte 18, la casa di Laura Palmer in un altro livello di realtà, il grido di Sarah Palmer, la luminosità stessa di questo altrove sono ricondotte nel libro a una linea narrativa che nella diegesi è svanita, che non conta se non per i suoi effetti sulla storia principale. La necessità di chiusura della letteratura contrasta con l’apertura audiovisiva; la dilatazione su livelli, gli sdoppiamenti del film in diciotto ore sono ricondotti puramente alla narrazione, al plot, mentre erano una esperienza.

Un artista rinascimentale

Lynch ha mostrato le potenzialità delle serie TV ribadendo l’importanza di tutti i livelli di narrazione audiovisivi (immagini, montaggio, suono) e il valore di una maggiore durata narrativa; ha mostrato inoltre come la diffusione delle informazioni sia fondamentale: la scoperta progressiva della colonna sonora e dei ruoli dei 217 attori del revival (fra cui Tim Roth, Monica Bellucci, Naomi Watts e Laura Dern – ma non Heather Graham [Annie] né Michael J. Anderson [il Nano]) ha portato a speculazioni e a una attesa partecipata da numerosi fan della serie. Difficilmente la serialità televisiva potrà replicare il processo creativo di David Lynch, ma all’ombra dell’artista dall’ampiezza rinascimentale (così lo considerava David Foster Wallace) opereranno nuovi epigoni e la terza stagione influenzerà la serialità quanto le prime due (senza le quali non ci sarebbero stati LostX Files – né, sicuramente, Wayward Pines o Veronica Mars). Accontentandoci di pallide imitazioni di Twin Peaks potremo sempre riguardare, in loop, la serie che ha cambiato (per due volte) la TV, certi di scoprirvi sempre nuove tracce del genio con cui abbiamo avuto la fortuna di condividere il nostro tempo.

Riferimenti bibliografici

Frost 2016: Mark Frost, The Secret History of Twin Peaks, Macmillan, London.
Frost 2017: Mark Frost, Twin Peaks, the Final Dossier, Macmillan, London.
Landau 2017: Neil Landau, Netflix e le altre. La rivoluzione delle TV digitali, Dino Audino, Roma.
Landau 2015: Neil Landau, Showrunner. Grandi storie, grandi serie, Dino Audino, Roma.
Mittell 2015: Jason Mittel, Complex TV. The Poetics of Contemporary Television Storytelling, New York University Press, New York and London.

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