Sono nato cicala in un nido di serpi, agnello tra lupi, dentiere a tenaglia – pulitissime all’esterno, cave dentro – al di qua del monte biforcuto, dove s’intrecciano costole di uomo e lupo, nella città su cui dolenti bombe caddero, francesi, città mercenaria che rimase in piedi sette anni, e poi altri sette e sette altri ancora, senza capitolare mai. Sono cresciuto come un piccolo bastardo senza terra, ma migliore di loro, e loro non hanno fatto altro che tentarmi, per giorni e mesi e anni, oggi mi pare per secoli interi. Una mattina d’agosto svenni sotto il sole del balcone, mentre proiettili di gola riarsa saettavano appena oltre il muro, nella stretta cucina gialla: da finestra a finestra un unico urlo.
Volevano farmi uomo in questo modo. Farmi diventare tale e quale a loro, ecco cosa, un uomo fatto e finito, un uomo senza un’oncia di bontà, un uomo che affigge la testa della lepre alla porta di casa, che grida ai passanti che l’ha uccisa lui e lui soltanto, quella lepre, e che giura sulla testa di suo padre che nessuno potrà mai mai mai affermare il contrario. Mi sono intossicato di bile e misericordia, minuscolo Cristo tra gli uomini, ho archiviato i loro peccati, uno a uno, le loro piccolezze, l’iracondo incedere di mio padre, sghembo e imprevedibile, quel suo labile egoismo, cercando di stare in piedi, guardando con malinconia e orgoglio le mura della mia città. Ma le sue urla me le ricordo, e bene anche, venirmi a prendere sull’uscio della notte, mantra di Belzebù, squarcio padrone e violento.
Pensavo fosse giusto così, che fosse il mio dovere, soccombere. Il mio dovere di figlio, di cicala, di spazzino della vita.
Mia madre mi perse un giorno tra i filari del mercato. Mi dovettero sembrare greggi senza fine, insensati, infidi; non ho la stoffa del campione, io: dal Tempio l’Unto avvampò per la Giustizia, per la Verità, tra quelle folle affamate di denaro e Big Babol e figa pelosa, figa depilata, figa con triangolino, appena una striscetta amore, eh? Poco poco, sì sì, appena un’ombra, ti piace così amore, eh, ti piace? Al mercato della carne, il venerdì, si vendono figa e bestie, basta saper guardare. L’Unto spezzò le reni ai mercanti del Tempio, e tutti seppero immediatamente che aveva ragione, una ragione assolutamente inaccettabile.
Io camminavo basso, smarrito nel gran trambusto, per mano a mia madre. Una piccola catenella con crocifisso, immobile e splendente, sul lembo ultimo del marciapiede, vicino all’anima secca d’una mela smangiucchiata. Diedi un calcio al torsolo: volò oltre il possibile, al di là della mezzeria della strada. Si udivano piccoli pettegolezzi tra le fila del mercato, miserie umane concupite dalle massaie e dai dottori che quelle massaie volevano montare e concupire e idealmente ingravidare sui materassi d’oggi e di domani; parole tritate tra i molari e ridotte ad affilate, piccole malevolenze, sottigliezze maligne da sciampista, rettore di collegio femminile. Io per mano a mia madre, giornate lunghe e calde, non come questi sputi pulverulenti d’oggi, che alzano sabbie confuse e subito s’inabissano senza lasciare nulla, di nulla, di nulla. Oggi i giorni iniziano e subito finiscono, ecco com’è che va oggi. La vita oggi è così che va. Allora sembravano non aver mai fine invece, quei lunedì, quei martedì, quei mercoledì, quelle domeniche d’alta pressione, quei sabati delusi. Era tutto una giostrina in bilico sul baratro, e io guardavo le mie nuvole…
L’amica di mia madre spettegola sulla cartolaia in pensione, giorno e notte in bicicletta pure a quell’età, strana, eh, la tabaccaia? Una brava persona, però, in fondo. Certo, ha sposato il Michelino, chissà come ha fatto, che vita poverina, il Michelino quello un po’ così, sai no? E si tocca l’orecchio la mia mamma, come a dire quel frocio, quel ricchione, quell’invertito, ma non lo dice ad alta voce perché qualcuno potrebbe sentire e risentirsene, e allora sta zitta e muta perché non si fa bella figura, e allora no, non lo si dice, non lo si fa, non è cosa. Ma siamo al tramonto degli Ottanta e un po’ tutti parlano a quel modo, come fargliene una colpa? Fisso una nuvola, lo faccio sempre, canticchio parole che mi aprono le afte, provo dolore ma qualcosa lo lenisce: è la dolce filastrocca di un barbone malato di nicotina, mascotte del virulento mercato rionale. Immagino di fare a fettine la morte, è uno scheletro bianco bianco, punta una pistola tra gli occhi di mia madre, di mio padre, di mio fratello, del barbone fumigante e poi di tutti gli altri; la punta anche tra i tuoi occhi, e capisci che non posso far altro che farla a pezzi, distruggerla, annientarla, e lo sai anche tu che è così.
Il giorno in cui mia madre mi perde tra le fila del mercato porto una maglietta azzurra a righine orizzontali, e forse vesto quel sorriso che mi rimprovera di non avere più, oggi. Non ricordo nulla o quasi, se non che un tale vestito di giallo, con in bocca la filastrocca buffa del tacchino rosso rosso – la stessa che mia nonna mi canta il sabato pomeriggio – mi porge due dita grassocce e tenta di portarmi al di là del chiacchiericcio mercatale, verso i vicoli altissimi che tagliano crudi la città, intestini incrostati di merda e vicende d’incesti, violente dipartite e ospedali diroccati, dai ventri ammalati di tecnologia in disarmo, amori disperati e ostacolati, concretizzati contro le cieche grondaie del crepuscolo. Ho dato fuoco alla memoria e prendo tutto per vero, ormai. Quel poco che ricordo di questa faccenda, probabilmente, ho dovuto inventarlo.
Un vestito giallo, ad ogni modo. Due mani grasse, grosse, pelose, ornate d’anelli femminili, zirconi, nocche e calli marci – forse dolorosi? Poi l’odore fetido della carne macellata, porco e bue e vitellini aperti in quattro e appesi a ganci lucidati, i piazzisti di sangue che urlano e incassano, battono all’asta bestie squartate per il vostro e il mio piacere, per il sollazzo dei papisti e dei pezzenti, offerti alla perpetuazione della specie uomo, massa di parassiti di discrete dimensioni, volgari scimmie che chiamano amore l’egoismo che li persuade d’esser necessari al Sistema Universo, da qui alla fine dei tempi. Quando quell’uomo in giallo mi prese per mano, e io mi ritrovai col viso tondo e rosa all’altezza del cavallo dei suoi jeans, mi salvò unicamente il terrore del sangue. Un muso di coniglio rosso rosso, non troppo chirurgicamente separato dal corpo, mi rotolò tra i piedi. A cinque anni il terrore è sempre dietro l’angolo. Così urlai e in molti accorsero, e tra questi mia madre. Mi avvoltolai su di lei come una lucertola, su su per la sua gamba snella, con le mani paffute tese verso il luogo della mia discesa al mondo; non saprei dire se la cosa mi dette conforto o meno, forse sì, forse no.
Gli specchi mi fanno compassione, a volte rabbia, perché l’espressione che mi porto appresso oggi non ha nulla a che fare con quella che riservavo alla mia nuvola. Mi avvelenavano l’acqua e io ne tiravo lunghe sorsate, mi pisciavano nel minestrone e io non facevo altro che bere. I giorni passavano e mi ritrovavo tra le lenzuola a sentire levarsi alte le urla ai soffitti, e non capivo il senso di tutta quella faccenda. La testa di coniglio, l’uomo in giallo, le forchette che volavano per casa da una finestra all’altra. Lampadari intrisi di resti alimentari e schegge d’insulti, anche loro troveranno una collocazione, un giorno o l’altro. Prenderei le forbici e mi strapperei via i capezzoli, li offrirei in sacrificio a un qualche Dio della Penombra, pur di farvi vedere il mio sangue, di incolparvi di quanto oggi sia denso, pulsante, iroso, ma non lo farò, perché non sono una iena, non sono uno sciacallo, non sono un lupo, non sono una serpe. Sono una cicala, e accendo quei lampadari solo quando ho bisogno di ricordare.
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Immagine di copertina: Frutti, fiori e insetti, incisione di Johann de Vries e Jacob Hoefnagel, ca. 1600.