Donato Novellini è l’autore di Bar, un libro di racconti pubblicato dalla casa editrice Giometti & Antonello. (Per chi voglia sapere cosa penso, più approfonditamente, di questo libro, può consultare questo pezzo che ho scritto per «Cattedrale, l’osservatorio sul racconto»).
Donato è un artista e performer mantovano. Ha vissuto diverse esperienze in questo campo, esponendo in molti spazi le sue opere. Ha scritto di design, musica, critica letteraria e cura rubriche che parlano di qualunque cosa. Sì, di qualunque cosa alla maniera di Benjamin, che vedeva negli stralci di mondo dettagli pieni di significato, ispirazioni del tutto.
Anche questo è Bar, secondo me.
La metafisica dell’attesa attraverso la metafora narrativa del luogo-simbolo: il bar. Oppure: la metafisica della perdizione? La metafisica del vuoto? Dipende: da bar a bar. La metafisica dell’impossibile, dell’inutile, dell’invisibile, del superfluo, di ciò che non c’è. Meglio: che quasi c’è, che è quasi visibile. O quasi invisibile.
Per questo motivo ho deciso di invitare questo scrittore, dalla magnifica penna dionisiaca, a rispondere (se così si può dire), diremo meglio: a dialogare intorno alle questioni su cui, in questa rubrica, tentiamo di fare dei ragionamenti. Perciò inizierei subito con la domanda su cui poggiano e dalla quale prendono abbrivo queste conversazioni.
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Andrea Cafarella: Nella tua personalissima visione: cosa è il mondo immateriale? Quello che si nasconde dietro le cose. Quello che vediamo ed esperiamo quando il nostro stato di coscienza si altera. Cos’è questo spazio, anche e soprattutto a partire dai tuoi studi e dalla tua esperienza e dalle tue idee. Cosa significa per te quando nominiamo il regno degli spiriti, cui ogni sciamano anela nel compiere il gesto rituale dell’iniziazione all’assoluto. Cos’è «il momento magico che sfugge ai famelici appetiti di Kronos»?
Donato Novellini: Il mondo immateriale, a mio avviso, è un’aureola del pensiero, un sovra-mondo o sotto-mondo fluido che accompagna con discrezione il girotondo della vita; è tutto il tempo che emancipatosi, svincolandosi dal controllo dell’io presente, folleggia deridendo alle spalle l’ego e i suoi assilli; è il tempo luciferino che se ne va a zonzo, libero di non soggiacere alle sventure del quotidiano, ai doveri, al meccanismo coercitivo dell’esistenza; passato e futuro in contemporanea, come unguenti balsamici che s’insinuano tra le pieghe di quello che siamo abituati a definire reale e presente, come se l’ottuso fortilizio materialista, l’affanno di tirare a campare, fosse visitato dagli spiriti dei nostri Io paralleli. Nella mia narrazione, tuttavia, l’elemento romantico, gotico, fantasmagorico è quasi assente. Ho riservato ai racconti di Bar un solo capitolo («Spiriti arcani») palesemente esoterico, più che altro un esercizio di combinazione tra pratiche mondane (i presunti aperitivi esclusivi) e struttura piramidale magica, in qualche modo ritualistica, della narrazione stessa. Proprio su questo stile eretico e un po’ surreale – tale perché la dimensione arcana, con le sue parole di passo è strettamente correlata alle vicende della vita di tutti i giorni – ho terminato due nuovi racconti occulti per le riviste «Nuova Tèchne» e «Ctrl Magazine». Negli altri capitoli di Bar invece, ho preferito insinuare la liberazione da Kronos e dalla dittatura delle lancette, con altre soluzioni, forse meno appariscenti. La presenza di specchi, la struttura ricorsiva della mise en abyme, i déjà vu, lo sdoppiamento, vuoti di pensiero, assenze, simulazioni e attese vane, gli stati di alterazione, l’ebbrezza stessa dovuta all’alcol – anche nei passaggi più sordidi – conservano qualcosa di alchemico, una particolare predisposizione alla metafisica e all’altrove, messa paradossalmente nel luogo più popolare del vivere sociale. Tempi morti, si suole dire, ma se invece fossero gli unici tempi vivi? Se il mistero è messo nel mistero non è più tale, diventa letteratura di genere, tautologia e forse pure religione. A me interessava nascondere il mistero del fuori tempo in un luogo assai accessibile (come ne «La lettera rubata» di Poe) e soprattutto privo di sovrastrutture già codificate come metafisiche. La figura chiave è quella di Mercurio-Hermes, o in misura minore quella del dáimōn, messaggeri del e dal divino, a mio avviso ancora più pertinenti rispetto al facile immaginario collegato a Dioniso. Certe miscelazioni (soprattutto quelle a base di Artemisia: vermouth, assenzio, chartreuse) permettono l’apertura di porte magiche, di varchi d’oblio, oltre i quali gli appetiti di Saturno non possono avere asilo. Talvolta si verifica una sospensione, mentre tutt’attorno la clientela vociante testimonia che è ancora questa vita a farsi teatro del reale, rappresentazione, gioco di figuranti. Come se la dépense, lo sperpero coniato da Georges Bataille nella trattazione dell’eros, applicata al bancone di un bar, portasse a un surrogato d’estasi: l’assenza momentanea del tempo.
AC: Parlando del dáimōn non può non venirmi in mente quel testo eccezionale e irripetibile che è Il codice dell’anima di James Hillman. Un libro che bisognerebbe tenere sempre presente, secondo me, quando si parla di qualsiasi cosa abbia a che fare con l’uomo.
In particolare, a proposito di questa nostra discussione, c’è un capitolo del Codice che tratteggia proprio le caratteristiche del cosiddetto mondo immateriale. S’intitola «Ritorno all’invisibile» e mi risulta utile riportarne qui alcuni stralci su cui riflettere.
Centro cardine del ragionamento che propone in questa parte del libro è il paragrafo sull’intuizione. Hillman scrive: «La modalità tradizionale per percepire l’invisibile, e dunque per percepire la ghianda, è l’intuizione». Dove l’intuizione è un esatto momento, provocato da fattori, infinitamente variabili, che generano una «percezione chiara, fulminea e completa». Essa si compone chiaramente di una enorme complessità che non corrisponde mai a una certezza assoluta, scientifica. Hillman infatti ci mette in guardia: «L’intuizione può indicare una via, ma non garantisce un’azione retta e nemmeno una corretta percezione».
Il discorso sull’invisibile, tra l’altro (e questo mi sembra importante nel ragionamento che vado esponendo) confluisce nel capitolo intitolato «esse est percipi». Hillman si unisce così a molti altri pensatori del Novecento che in questo assioma del filosofo moralista George Berkeley vedono conchiuso il possibile significato dell’esistenza: «Noi esistiamo e diamo esistenza in virtù della percezione».
E qui ci torna in aiuto il nostro carissimo Bataille. In un suo saggio, dal titolo «La pratica della gioia davanti alla morte», il filosofo francese riesce a mettere le due cose insieme, a mio parere, in modo chiaro ed esemplificativo, ponendoci davanti alla compresenza della forza dell’intuizione – e dei suoi effetti – nell’atto significativo di essere percepiti.
Scrive: «Felice colui che avendo provato la vertigine fino a tremare in tutte le sue ossa e a non misurare più la sua caduta [l’intuizione] ritrova d’improvviso la potenza insperata di fare della sua agonia una gioia capace di gelare e di trasfigurare quelli che la incontrano [l’essere percepiti]». Questa a me sembra l’esatta descrizione di colui che io definisco lo Sciamano. Potremmo dire lo scrittore, l’artista, il mistico. Il filosofo, l’alchimista. Quegli uomini che, raggiunta l’intuizione, seguita nella strada soffertissima che essa propone verso la Verità, riescono a riemergere per ridonarla a tutti nell’atto di essere percepiti. E mi vengono in mente, oltre i già citati Hillman e Bataille, personaggi come Gurdjieff, Beckett e Gandhi. Il Bodidharma e Sun Tzu, Buddha e Cristo. Coloro che hanno creato, evocandolo, «un ponte tra i due regni». Hillman chiude questo meraviglioso testo, centrale nella storia della letteratura che coinvolge l’immanente, con una «proposta» che trovo straordinaria. Un monito che ogni società di ogni tempo dovrebbe sempre tenere a mente:
Il grandioso compito di una cultura che voglia alimentare la vita, dunque, consiste nel mantenere gli Invisibili attaccati a sé, gli dèi sorridenti e soddisfatti: nell’invitarli a rimanere con riti propiziatori e cerimonie; con canti e danze, addobbi e litanie; con feste annuali e commemorazioni; con grandi dottrine come quella dell’Incarnazione e con piccoli gesti intuitivi, come toccare legno, sgranare il rosario, tenere addosso una zampa di coniglio o un dente di squalo, o appendendo il mezuzoth allo stipite della porta, o un portafortuna sopra il cruscotto; o deponendo in silenzio un fiore sopra una pietra lucidata.
Ed eccoci arrivati al punto e alla seconda questione su cui ho il piacere di ragionare in questa sede: quali sono, per te, i rituali essenziali per tenere in piedi questo «ponte tra i due regni»? Nella tua esperienza personale ci sono o ci sono stati dei rituali icastici – che possono anche essere (e lo sono) quegli «aperitivi esclusivi» di cui hai detto – nella comprensione, o meglio, nell’esercizio dell’intuizione dell’invisibile? E qual è il tuo pensiero in merito a questi momenti cerimoniali, spesso accompagnati dall’uso di tecniche o agenti esterni in grado di portare la coscienza a uno stato alterato e di concederle quelle intuizioni hillmaniane che «arrivano senza che vi siano passaggi logici coscienti o processi di pensiero riflessivo» portandoci a concepire qualcosa – l’Invisibile – che ci «sembra la verità e di colpo ci fa vedere le cose da dentro»?
DN: Mi inoltro subito nella selva delle citazioni e dei rimandi, per poi giungere forse a una risposta personale, che comunque necessita di certe palafitte: accanto a James Hillman, per radicalizzare questo carteggio e forse per spiazzare senza ben volerlo, chiamerei in causa René Girard. Venga a testimoniare: Desiderio mimetico e Capro espiatorio dunque; accanto ai nefasti processi emulativi (che con Max Stirner cerco sempre di evitare), a quello che coagula la cosiddetta massa (o Popolo, come usa dire oggi) c’è il rituale come vincolo e argine maestro contrapposto alla violenza generalizzata, all’impazzimento del sangue e degli istinti, alla cloaca che attende la carne della vittima designata assieme al lavorio dei vermi. Tuttavia, la figura catartica e scandalosa di Cristo, polarizzatrice degli atti sacrificali fino alla fine dei tempi, custode delle pire sulle quali l’agnello gemette per il giubilo degli spettatori in conflitto, riappacificatisi tra loro grazie a ciò, è un’icona sbiadita. Morta due volte, la seconda nel sonno post-nietzschiano. Non c’è più il sangue di Cristo nel sacro calice né carne nel pane dell’ostia e ora abbiamo scoperto che mai vi fu: i preti sono astemi e i devoti si credono allergici o esperti sommelier; eppure abbiamo ancora sia la coppa che il pane, che farsene? Archetipi, tornando a Hillman, e simulacri per un bel ping pong col Klossowski di Nietzsche e il circolo vizioso. Perciò i rituali destrutturati, privati dell’assolutismo divino – la Verità metafisica – al quale dovrebbero essere rivolti, finiscono per sbrodolare in atti intimi, feticci scacchistici, imposture, o ben che vada, in posticci giochi orientali: assentarsi da sé per imitare un dio morto, addirittura mai esistito. E ancora, superstizioni nei domini della tecnica, dove un volto non è mai tale ma solo sindone, calco virtuale, perché assomiglia a una replica, a una maschera e a un dato statistico, allo specchio dello specchio. Ma di regola è ben peggio: ci tocca vivere come vecchi ippopotami da circo, tutto quell’affanno di stringere nel pugno l’aria del tempo andato, il ricatto del ricordo, quel giocare senza palla girando a vuoto in tondo, quell’essere giocati. Conosciamo le regole ma non lo scopo. Ebbene, lasciamo fare; vivere poterebbe essere un atto disumano in absentia dei, soprattutto se a presiedere il cerimoniale è proprio la ricerca della Verità. A mio avviso qui risiede il problema e da ciò viene la pratica dello sperpero ebbro, quel giubilo idiota in grado di portarci fuori dallo zoo, o forse soltanto dalla gabbia per osservarci da altrove. Trafficare col falso, mistificare, scherzare col mondo bambino, sabotare la risposta, tergiversare sempre. «Summa scientia nihil scire», apoftegma finale delle Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, qui si fa ponte verso certi figuranti del sacro, mistici minori come San Giuseppe da Copertino, il frate ignorante che sapeva volare non a caso più volte celebrato da Carmelo Bene.
Cosa vuol dire «il sapere più grande è il non sapere»? Non tanto l’importanza incombente di tutto quello che manca all’intelletto o culturalmente – difatti il motto rosacrociano non mette la parola “ancora” alla fine – bensì l’accettazione possibilmente entusiasta di questa condizione precaria, cieca da un occhio, inevitabilmente fallace. Per tornare coi piedi a terra e quindi alla risposta inerente quelle forme ritualistiche e il ponte tra i due regni, oltre alle ebbre liturgie camuffate da provinciale quotidianità nei siparietti post-romantici di Bar, ve ne sono altre in grado di entrare e uscire dalla realtà. La divinazione attraverso i tarocchi, ad esempio. Oppure quella, che subappalto a un vecchio hippy mio vicino di casa, dei temi natali, degli oroscopi personalizzati. Nel primo caso mi concedo il cattivo gusto di un’autocitazione:
I tarocchi prevedono il futuro? I tarocchi rispondono ai quesiti? Risolvono problemi? Fanno diventare ricchi o trovare l’amore? Alle frequenti domande si potrebbe asserire serenamente di no, i tarocchi non danno risposte a domande sbagliate. In parte perché il futuro non esiste, oppure è già accaduto, opinione come un’altra sulla quale fantasticare, messa negli abissi del proprio peculiare essere; in parte perché solitamente le domande che il consultante pone, contengono già la risposta, sovente situata nel passato, con più certezza nell’intimo della persona che si ha di fronte. Fatti le carte da solo, ne sai più di me, verrebbe da dire in certi casi. Perciò non resta altro da fare che arabescare nel limbo – tra intelletto e casualità – agevolati da disegni contenenti messaggi cifrati, arcani da raccontare in leggerezza, agevolati dal potere del medium. Non solo il significato precipuo della determinata carta, ma la capacità di leggerne la costruzione iconografica, anche in rapporto con le altre figure estratte casualmente dal mazzo. Costruzione dialettica, sofistica, estetizzante, inerente gli occhi di chi domanda, i soli in grado di darsi risposte che non paiano scuse. Si legge attraverso quelli, infatti. Si scruta ciò che il richiedente non vede l’ora di confessare, fingendo di nasconderlo nel dilemma. Di cosa stiamo trattando allora? Di veggenza? Di amenità psicologiche? Di trucchi per suggestionare menti deboli? Di cosmogonie da salotto con incensi? Tutt’altro. I tarocchi sono favole, storie inventate dal fato, che spetta all’orante mettere in ordine.
da Artefatti. Il Trionfo dei Tarocchi è nella sconfitta del grigiore della ragione post-umana.
Poi indubbiamente la musica, segnatamente nel solco sperimentale tracciato da Current 93, Coil, Throbbing Gristle e altri. Questo tipo di ascolti non ha nulla a che fare con l’intrattenimento, anzi esula dalla manovalanza spettacolare. Ha il potere di dischiudere lidi lisergici, di farsi nenia bucolica e allo stesso tempo può condurre in tetri cunicoli orfici. Infine mi piace ricordare qui l’irrazionale vocazione al pellegrinaggio, altra disciplina straniante se affrontata senza velleità podistiche, anzi fumando tanto come al solito. Camminare per migliaia di chilometri tra monti e pianure, attraversando regioni ignote, per giungere a una meta che fatalmente deluderà. Difatti il traguardo non è mai appagante, se non ha il potere di alimentare posticipi e appendici. L’arrivo delude chi serba presso sé aspettative, per quanto mi riguarda misi un passo davanti all’altro senza nemmeno immaginare l’ipotesi del ritorno.
AC: Le tue riflessioni, dal desiderio mimetico girardiano alla Sfinge Tetramorfa, mi rimandano inevitabilmente a certe riconsiderazioni religiose e spirituali di Eliade, a Il fungo sacro e la croce di Allegro. Mi ispirano a riprendere lo Squartamento di Cioran e persino a sfogliare Il libro dell’Es di Groddeck. Sento certi echi di Fachinelli e mi ribolle dentro, ancora e ancora, la fascinazione che ebbi per Magick o per Madame Blavatsky. E proprio ieri mi capita sotto il naso Presenza e profezia. L’assenza degli dei, morti e mai vissuti, ci fa tornare indietro a Nietzsche e a chi c’ha accompagnato nel Dopo Nietzsche per farci capire meglio che quanto annunciò Zarathustra è semplicemente l’ovvio del nulla che finalmente si rivela durante la carneficina, nell’attesa di un Cristo che non ha mai messo piede su questa terra. E l’assenza si tramuta in presenza. L’attesa in assenza di attesa. In un paradosso squisitamente kafkiano che ebbe luogo a Zürau.
Ed è proprio, come dici tu, solo senza considerare l’arrivo o il ritorno, senza avere aspettative, che si raggiunge l’unico luogo di ricerca possibile: il cammino. Dove il cammino è forse l’atto – o la sua assenza, l’immobilità – che non s’attende alcunché. L’atto in sé stesso, senza scopo.
L’atto è il risultato delle intuizioni di Carlo Michelstaedter, senza dubbio. Eppure, mi sento di dire, si nasconde anche nelle esperienze di McKenna, come negli studi di Zolla e nella pratica di Gopi Krishna. Solamente quando scevre dalla violenta mimesi sacra di Girard. Esclusivamente in uno stato distante dall’aspettativa dell’ascesi. Una condizione che mi pare chiarissima nelle parole di Davi Kopenawa o di Aua o di Yogi Bhajan. E chiudo il cerchio considerando come tornino alcuni numeri (non certo casualmente) attorno ai diversi insegnamenti succitati: i quattro accordi, le tre vie, le sette stanze. Insomma, mi sembra che ci sia effettivamente uno spazio comune – quella che tu definisci «condizione precaria, cieca da un occhio» – in cui si muovono tutti questi personaggi, questi studiosi dell’inconoscibile. Questi camminatori del vuoto walseriani pazzi.
Tuttavia – seppure tra loro alcuni abbiano scelto la strada del suicidio o della vita manicomiale o dell’arresa psicologica assoluta (che pure tenderei a non giudicare superficialmente, ma che in questo ragionamento desidero escludere) – mi sembra che ci sia un tratto che accomuna questi esploratori dell’ignoto, le cui parole hanno resistito fino a giungere ai nostri occhi: ed è la consapevolezza. Consapevolezza che deriva dalla capacità di affrontare certe rivelazioni, certe scoperte, doni che solo il viaggio senza meta – repetita iuvant – riesce a regalarci. Rimanendo saldi ed equilibrati, grazie a una forza d’animo che poggia sullo studio (sia esso esperienziale o teorico) e sulla conoscenza, quanto più approfondita possibile, del luogo che si va esplorando (e non del percorso, attenzione, che non c’è e non c’è mai stato).
E su questa supposizione si fonda la mia terza e ultima domanda. Nonostante tu abbia già parzialmente e involontariamente risposto, mi piacerebbe se riuscissi a darci una panoramica, una visione complessiva – ma che si avvicini anche al particolare, se lo desideri – di quali sono i tuoi pilastri su cui costruire il tetto del tempio. Quali gli autori, incontrati sulla via, che hanno saputo scuotere la tua coscienza al punto tale da permetterti una lettura così attenta e feroce di Klossowski, e quindi del circolo vizioso nietzschiano. Quali maestri hanno saputo guidarti nel percorso senza fine che dal silenzio tende al silenzio – e parlo anche di esseri in carne, ossa e sangue. Quali opere o avventure, fatti della vita o libri, quadri, momenti, scaglie di tempo significative, per te, hanno segnato i passi percorsi fino a questo punto – che solo convenzionalmente è adesso, essendo parte di un qui e ora infinito e onnipresente, che al contempo non è mai esistito in nessun luogo. Quali alberi hanno illuminato di rugiada lo sguardo del viaggiatore dando senso alle miglia di fatica che il sudore ha vergato sulla tua fronte. Quali sono gli ometti sparsi sul sentiero, immobili totem, segnali che ti ricordano, in fondo, chi sei.
DN: Mi considero sempre uno studente, un praticante, un novizio (come da cognome), particolarmente propenso all’approfondimento e dotato di una stoica autodisciplina riguardo alle letture, curiosamente contrapposta all’anarchismo e al libertinaggio dei costumi. C’è una ragione: giovanissimo partii (scappai?) per il sud della Francia, al seguito di uno zio ristoratore, per svolgere il mestiere di cameriere. Ciò mi impedì di seguire un regolare percorso di studi, ma non di fare di testa mia e, tra le altre cose, di imparare il francese. Conobbi il pensiero di Nietzsche sedicenne, senza filtri e mediazioni professorali – la nuda lettura degli abissi, alla quale forse non ero pronto (non si è mai pronti per niente) – e quell’esperienza mi sconvolse; oltre ad attirarmi nel vortice della sua opera, il filosofo tedesco si fece architrave di una biblioteca solo apparentemente eclettica: in qualche modo ogni volume scelto, letto o ancora da leggere ma comunque depositato, è frutto di quella lontana semina. Ora, tralasciando i nomi già citati da entrambi (anche se non riesco a evitare di riaccendere un lumino d’oro per Michelstaedter e Cioran) posso citare alla rinfusa, certo di dimenticanze: Heidegger, Jünger, Pound, Celan, Ceronetti, Sgalambro, Landolfi, Gomez-Davila, Eckhart, Borges, Guénon, Kafka, Mishima, Benjamin, Brodskij, Mandel’štam, Majakóvskij, Joyce, Stirner, Pessoa, Wilcock, Benn. Particolare predilezione per la letteratura francese, anche grazie alla conoscenza della lingua, che mi ha portato all’incontro con Céline, Drieu La Rochelle, Genet, Sachs (Il Sabba è uno dei miei libri preferiti di sempre), Montherlant, Proust, Apollinaire, Lautréamont, Blanchot, Baudrillard, Deleuze, Roussel, Jarry, Debord, Sade, Artaud, Gide e molti altri. Contemporaneamente m’è parso di buon gusto frequentare il cinematografo, con preferenza per autori tedeschi come Herzog, Fassbinder, Wenders, quindi Kieślowski, Paradžanov, Tarkovskij, Kaurismaki, Antonioni e Avati più i soliti francesi, sui quali spicca l’amato Louis Malle. In ambito musicale mi limito a citare Velvet Underground e Joy Division, da vecchio punk/dark e curando una rubrica sulle copertine dei dischi l’elenco qui potrebbe sfuggire al controllo. Ma poi un’infinità d’altre cose… Tzara, Man Ray, Picabia, Duchamp, Ball (il quale terminò i suoi giorni da cristiano ortodosso, o meglio bizantino) e il Dada, Sironi, Casorati, de Dominicis, Depero, Boetti, Malevič, Manzoni e la sua merda in scatola, tutto il Novecento! Lo so, di questi tempi può sembrare l’accatastamento feticista di un radical-chic compulsivo, fermo al secolo scorso e alla vecchia Europa. Allora, per smontare l’impalcatura e conservare l’essenza, cito un aneddoto personale: tempo fa compilai una lista dei miei film preferiti, tutti rigorosamente d’essai o pseudo tali e la pubblicai su Facebook. Passò qualche minuto e squillò il telefono. Era un vecchio amico pugliese, il quale scherzosamente mi redarguì: “ma tiratela di meno, figurati se tra le tue pellicole non c’è un Fantozzi o un Lino Banfi, devi saper mescolare l’alto col basso, l’elitario col popolare, guagliò”. Ci rimasi male, perché quelli erano davvero i miei film preferiti e non stavo affatto recitando la parte del cinefilo snob. Infine, riguardo agli incontri con persone del nostro tempo, come non citare l’editore? Gino Giometti è un tipo che mi piace molto e non solo per la possibilità offertami di introdurre il carteggio Jünger-Hoffman sull’LSD e poco dopo per aver pubblicato Bar; prima di conoscerlo ero totalmente affascinato dalla cura anche estetica, e ovviamente dal catalogo, di ciò che stava portando avanti con Danni Antonello a Macerata; il socio non feci in tempo a conoscerlo e ahimè lo scrivo con grande rammarico. Assieme a Gino invece ho passato notti memorabili in giro per la città marchigiana, mi ha presentato belle persone che ora considero amiche, insomma dietro quell’aspetto sornione e talvolta imperscrutabile si cela un grande uomo di cultura, propenso all’ascolto e alla compagnia. Considerando che Giometti & Antonello era ed è, assieme a Adelphi e SE, la casa editrice che prediligo, mi considero molto fortunato per aver visto i racconti di Bar stampati su quella bella carta. Ci scegliemmo. Non avrei voluto pubblicare per altra ragione sociale e questo glielo scrissi da subito. Mentre lui, forse, può dirsi soddisfatto d’avere in catalogo uno scrittore vivente. Tornando all’inizio, ovvero al cameriere sedicenne di Marsiglia senza titoli di studio (quale ancora sono), mi viene da chiudere così: quel che so è una conquista al pari di ciò che ignoro, se sembra una posa non hai idea di quanto sia bello essere scambiato per un altro.
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In copertina: Avventure nel mondo-spirito: visione Ayahuasca dello sciamano peruviano Pablo Amaringo. Tratta da Sciamani (TEA, 2009) di Graham Hancock.