Carlos Dámaso Martínez è ricercatore all’Istituto di Letteratura Ispanoamericana della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Ha pubblicato in Italia, per le edizioni Arcoiris: La piena (2011), Un luogo perfetto (2013), Ceneri nel vento (2013), Crimini immaginari (2015) e Serial (2016).
Traduzione dallo spagnolo di Alfredo Zucchi.
Revisione di Luca Mignola.

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Il racconto

Alfredo Zucchi: Quali sono i tuoi autori di racconti di riferimento, i tuoi maestri?
Carlos Dámaso Martínez: Con alcuni colleghi dell’università, quelli che scrivevano, leggevamo, tra i narratori argentini e latinoamericani: Borges, Bioy Casares, Silvina Ocampo, Felisberto Hernández e in particolare Julio Cortázar. Ci interessava il genere fantastico, forse perché intuivamo che a Buenos Aires il realismo degli anni ’70 era l’estetica letteraria dominante.
Come lettori e aspiranti scrittori mettevamo in pratica – senza saperlo, credo ora – quella che Jacques Ranciére ha denominato la politica della letteratura contro una poetica del realismo dominante nella capitale federale del nostro paese.
Inoltre, in quegli anni abbiamo fatto letture fondamentali: i racconti di Henry James, Franz Kafka, Italo Calvino tra gli italiani. Il romanzo ci interessava, è certo, però il racconto ci affascinava di più. Da parte mia, ho letto soprattutto Horacio Quiroga, e i racconti di Roberto Arlt, Bioy Casares, Borges e Cortázar. Per non parlare dei saggi sul genere di Quiroga,  Cortázar e Borges. Poi ci piaceva la poesia, leggevamo i poeti dell’avanguardia, i surrealisti, Antonin Artaud; l’avanguardia latinoamericana degli anni ’20, Oliverio Girondo, Vicente Huidobro e Borges.

AZ: Il racconto, come forma letteraria e come categoria editoriale, soffre in Italia – vige una specie di complesso d’inferiorità nei confronti del romanzo, per cui, da un lato, gli editori esitano a pubblicare raccolte di racconti, in particolare di autori italiani; dall’altro gli scrittori sono spinti a scrivere e proporre romanzi invece che racconti. Da dove viene, invece, l’idillio della letteratura ispanofona in America Latina con le forme brevi?
CDM: Il testo narrativo breve, meglio conosciuto come racconto, è un genere con una tradizione molto forte nella letteratura argentina e sudamericana. Nel XX secolo, da Roberto Payró, Leopoldo Lugones e, soprattutto, Horacio Quiroga, il racconto ha fatto parte della produzione narrativa di molti scrittori. Roberto Arlt, Adolfo Bioy Casares,  Silvina Ocampo, Julio Cortázar e altri grandi autori contemporanei, come Antonio Di Benedetto, Juan Carlos Onetti, Daniel Moyano, Héctor Tizón, Juan José Saer, Ricardo Piglia, Abelardo Castillo, Vicente Battista hanno scritto sia racconti che  romanzi – la lista è lunga, e l’eccezione è Borges, che ha fatto del racconto un modo esclusivo della sua opera narrativa, una strategia scelta, forse, per situarsi in opposizione al contesto letterario della sua epoca, intorno agli agli ’40 del XX secolo, periodo in cui dominava il romanzo realista tradizionale. Questa scelta da parte di Borges ha senza dubbio provocato, insieme alla sua scelta del fantastico e del poliziesco, un profondo rinnovamento della letteratura argentina e latinoamericana.
Borges, così come Bioy Casares, Silvina Ocampo e molti altri scrittori, ha scommesso sul racconto, una forma breve e moderna che è stata inaugurata da Edgar Allan Poe nel XIX secolo; tra i latinoamericani, Quiroga è stato tra i padri fondatori nel XX secolo nel Río de la Plata.
Credo che abbia anche influito lo sviluppo e l’auge nell’industria culturale, a partire dagli anni ’20, di riviste e periodici che pubblicavano racconti tra le loro pagine. Lo stesso Quiroga, in uno dei suoi saggi sul racconto e in una lettera, ringrazia l’editore della rivista Caras y Caretas, con la quale collaborava, per avergli imposto di adattarsi a un formato molto breve nei suoi testi narrativi per poter pubblicare nella rivista. Un’esigenza, affermò poi Quiroga, che si rivelò feconda per ottenere un testo narrativo efficace e di piccola estensione.
Negli ultimi venti o trent’anni il mercato editoriale – nel processo di globalizzazione e all’interno delle politiche editoriali delle grandi imprese – ha imposto un canone in cui il romanzo prevale sul racconto. Sicuramente in Spagna, poi anche in Argentina. Pare che, secondo le loro stime, i libri di racconti vendessero poco, e per questo sono stati sempre più marginalizzati nei loro cataloghi, a eccezione dei libri di autori classici e già in gran parte affermati e riconosciuti. Però questo è un effetto di quello che chiamerei il mercocanone che i grandi gruppi editoriali hanno costruito poco a poco, in tempi in cui il valore di un libro per loro non è legato alla sua qualità estetica, ma alle prospettive di vendita. Credo, rispetto a quello che dici nella domanda, che tutto questo non succede solo in Italia, ma accade ora a livello mondiale. Dire che il romanzo è più importante del racconto è una fallacia che non ha niente a che vedere con le categorie letterarie, ma solo con quelle editoriali. In nessun modo il racconto è un genere minore – al contrario: forse si tratta del genere narrativo più difficile, in cui il trattamento del linguaggio si avvicina al testo poetico, la cui costruzione narrativa esige precisione e destrezza per creare nel lettore una forte aspettativa rispetto all’enigma della storia che narra, e una tensione e intensità, come dice Cortázar, forse superiori a quanto accade in un romanzo.

AZ: Sei autore di romanzi e racconti. Qual è, dal punto di vista creativo e compositivo, la differenza tra romanzo e racconto? Se dovessi isolare gli elementi essenziali del racconto come forma letteraria quali indicheresti?
CDM: Il maestro Cortázar diceva che il racconto assomiglia alla fotografia, per il fatto di riunire nella durata di un istante la concentrazione di un’immagine che ci narra qualcosa in questo formato; mentre il romanzo, per la sua estensione e lo spazio più ampio e la diversa temporalità narrativa assomiglia invece al cinema e al lungometraggio. È un giudizio metaforico, e credo sia giusto soprattutto riguardo all’estensione e alla temporalità dei due generi.
Credo anche che se parliamo di racconto bisogna dire che esistono varie poetiche. C’è Poe, che forse oggi è percepito come tradizionale, nella cui composizione si dà certa linearità – la sua poetica è stata molto in voga presso gli scrittori realisti, nonostante Poe abbia scritto racconti dell’orrore, racconti fantastici e polizieschi.
Un altro modello forte, che ha avuto un peso sulla letteratura del XX secolo, è quello di Joyce in Gente di Dublino. L’utilizzo di una sottile epifania in quasi tutti i racconti del libro è un segno chiaro del suo modo di intendere il genere. Pensa al racconto “Le sorelle”: basta leggere quello per scoprire che, avvolta nella trama della storia del prete, si rivela in modo appena acccennato il suo conflitto con la severità delle norme della chiesa cattolica.
E non posso tacere i racconti di Hemingway, in cui l’utilizzo del dialogo mette in moto un principio costruttivo estremamente efficace. Ecco – per non farla lunga – direi che ogni scrittore costruisce la propria poetica del racconto, non ci sono leggi, come dice Bioy Casares quando parla del fantastico: si tratta più che altro di forme che si legano allo stile, alla modalità estetica di ogni narratore. Penso anche che i generi cambiano, conservano un nucleo di memoria storica, ma allo stesso tempo, in ogni contesto, aggiungono elementi che li rinnovano.

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Luca Mignola: Si è discusso a lungo del rapporto tra romanzo e racconto, dalle differenziazioni di genere che intercetta Cortazar alle “ragnatele” di personaggi di Bolaño etc. Eppure, la chiusa di Tesi sul racconto, contenuto in Formas breves, nella quale Ricardo Piglia tira in gioco Rimbaud («La visione istantanea che ci fa scoprire ciò che è sconosciuto, non è una lontana terra incognita, ma il cuore stesso dell’immediatezza», così Rimbaud. Questa illuminazione profana è diventata la forma stessa del racconto.) pare denunciare un tertium datur: Rimbaud lo chiama il “cuore dell’immediatezza”, un cuentista lo chiamerebbe il mistero. Piglia sta dunque tracciando un’altra linea genealogica che da Rimbaud porta al cuentista? Dalla poesia al racconto? Sei d’accordo con questo legame ultimo e più intimo e misterioso (oserei dire quasi misterico) cui ammicca lo scrittore argentino?
CDM: Piglia assegna chiaramente al racconto questa dimensione – la capacità di rivelare o scoprire l’ignoto. Sicuramente quest’idea è legata alla visione della poesia che Rimbaud sviluppa precisamente ne Le illuminazioni. Questa affermazione di Piglia mi fa pensare ancha all’importanza dell’epifania nei racconti di Joyce, una rivelazione illuminatrice di sensi “reconditi”.  Cortázar ha scritto su Rimbaud e ha sottolineato nella sua opera un’impronta di quello che sarà il surrealismo, questo modo di immergersi nell’ignoto, come dice Piglia, o nell’onirico; ha anche riportato la valorizzazione dell’opera del poeta francese nel contesto dell’esistenzialismo che ha caratterizzato gli anni ’40. Non dimentichiamo che nel suo saggio sul romanzo, intitolato Teoria del tunnel (1947), Cortázar propone per la scrittura del romanzo contemporaneo un rinnovamento che procederebbe dalla fusione di prosa e poesia, da un lato, e di surrealismo e esistenzialismo dall’altro.
Quando prima ho messo in relazione il racconto con la poesia, invece, mi riferivo concretamente al lavoro sul linguaggio che si dà nella scrittura del racconto, un lavoro molte volte prossimo a quello del testo poetico. Un esempio, in questo senso, è un racconto emblematico di Cortázar, “Continuità dei parchi”, in cui l’uso di metafore e di figure proprie della poesia sembra essere il suo principio di costruzione.

AZ: I tuoi libri di racconti – in particolare La piena (Arcoiris, 2011) – mi hanno colpito per la tua capacità di creare un ambiente omogeneo tra i testi, una sorta di membrana che li unisce e li accomuna, e contribuisce a creare un effetto cumulativo, una sorta di crescendo.
Qual è la differenza tra scrivere un racconto e scrivere un libro di racconti? In che modo lavori nel mettere insieme i testi?
CMD: Forse questa presenza, tra i racconti de La piena, di un ambiente omogeneo, ha a che vedere col fatto che trei dei testi sono ambientati tra le montagne della provincia di Córdoba, che conosco molto bene, e altri due trascorrono a Buenos Aires. A parte l’ultimo racconto, però, tutti gli altri si muovono all’interno del fantastico, cosa che produce un effetto amalgamante, come se ci fosse appunto una membrana che li unisca. Un’altro aspetto a cui mi viene da pensare è che spesso ho riunito nei libri di racconti dei testi di un periodo preciso della mia vita, e le ossessioni tematiche e estetiche di solito creano un circolo intimo, a volte in modo incosciente, per quanto, allo stesso tempo anche cosciente – un circolo che ha a che vedere con un momento preciso che uno ha vissuto.
In un libro come Un luogo perfetto (Arcoiris, 2013) ho messo insieme racconti fantastici e polizieschi. Ho fatto qualcosa di simile con un libro precedente, Hasta que todo arda, in cui esploro il fantastico e il poliziesco. Ci sono però vari rimandi alla memoria di situazioni proprie dell’orrore della dittatura civico-militare che abbiamo vissuto in Argentina tra il 1976 e il 1983. La sua prima edizione è datata 1989, ormai in democrazia – tuttavia erano ancora aperte, allora, le ferite sociali di quell’epoca nefasta. Il mio libro più recente, Emoción violenta (2015), è quello in cui ho cercato in modo più cosciente di fare in modo che ogni racconto avesse una storia e una trama legate a situazioni di violenza contemporanea. Si tratta però di storie distinte: due dei racconti sono ambientati in Italia, uno a Napoli, di carattere fantastico e neo-gotico, e l’altro più vicino al gioco e a una situazione in cui il caso la fa da padrone. Credo si tratti del mio libro di racconti più unitario dal punto di vista tematico.

Il fantastico

AZ: Tra gli elementi che contribuiscono a creare quella membrana comune tra i racconti a cui mi riferivo sopra, mi pare ci sia, da parte tua, un’idea ben chiara, una poetica precisa del fantastico. Ti chiedo allora: cos’è il fantastico? E – forse questa è la chiave di tutto – come si producono i suoi effetti in un racconto?
CDM: Il fantastico per me è principalmente quello che dice Rosemary Jackson nel suo Il fantastico. La letteratura della trasgressione (Pironti, 1986), quando segnala che ogni testo fantastico pone un enigma, e la base di quest’enigma è, nella narrazione, lo sviluppo di una storia in cui ci si trova in presenza di eventi inesplicabili, in generale ambigui e indeterminati, che provocano turbamento nel lettore e soprattutto provocano la domanda incessante: cos’è il reale? Un turbamento che trasgredisce tutto ciò che è noto e stabilito, e apre le porte a mondi impossibili, insoliti, potenzialmente immaginari, e stimola l’invenzione. Inoltre, questo genere corrisponde molto bene a quello che ha detto Borges, per cui la letteratura è come un sogno – un sogno guidato.

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AZ: Il progresso tecnologico allarga continuamente gli orizzonti dell’immaginario umano. Nel secolo scorso, Borges scriveva che “la variante moderna del fantastico è l’erudizione”: quali zone restano da esplorare oggi? Come si differenzia il genere fantastico dalla science-fiction?
CDM: Anche il fantastico è un genere che muta: all’epoca di Quiroga il cinema era un’invenzione tecnica che affascinava gli scrittori, ad esempio. Lo stesso Bioy Casares, nel suo primo romanzo, è vicino a questo tema attraverso la proiezione di immagini, e inventa la produzione di una sorta di realtà virtuale in L’invenzione di Morel. Allo stesso tempo, mi preoccupa il fatto di non veder apparire, in narrativa – così come d’altra parte nel cinema, a parte alcune meravigliose eccezioni – nuove forme del genere, una traccia di rinnovamento.
Se è vero che i generi cambiano – questo si vede chiaramente col poliziesco contemporaneo – la narrativa fantastica, e con essa la science-fiction, dovrebbero cambiare anch’esse, dovrebbe comparire libri che rinnovino questi paradigmi. Non è facile rispondere a questa domanda. Mi dico che forse sul versante del neogotico, con la mescolanza di generi e la ricerca della parodia, possono cominciare a vedersi alcuni elementi di rinnovamento del fantastico. Mi sento anche di dire, per chiudere, che il fantastico non è un genere che funziona bene solo nelle forme brevi – al contrario, esso supera le convenzioni letterarie generiche, e di fatto è presente in alcuni romanzi importanti. È il caso, ad esempio di El sueño de los héroes o di Dormire al sole di Bioy Casares. Ho provato anche io a farlo, con i romanzi La frontera más secreta e Crimini immaginari (Arcoiris, 2014), in cui s’incrociano fantastico, poliziesco e spionaggio, e in El otro tiempo, un romanzo in cui si racconta l’avventura di uomini a cavallo dopo una grande secca nel territorio vuoto del Río de la Plata, senza una goccia d’acqua. Uno spazio inusuale dove il tempo si sovrappone e diventa vari tempi.