Eccoci al terzo episodio – buona la terza – de Il Presente.
[Allo stesso tempo* per ribadire che lavorare, e collaborare con autori, scrittori – crapuli – è per noi onore e dovere, vi rimandiamo ad una muy frizzante rubrica del Muna.
*Nota per i più godurioni tra i crapuli: intorno a questa locuzione, “allo stesso tempo”, si sviluppa uno dei più interessanti testi di Jacques Derrida, Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zeit (J. Derrida, Margini – della filosofia, Einaudi)].
Il Presente, di Ciro Monacella (il primo ed il secondo episodio)
Quando scendemmo dalla scogliera ci sdraiammo un po’ sulla spiaggia, ma erano le sei di pomeriggio, ed era solo riposante il sole sciocco di quell’ora. Adesso fingevo di tradurre le onde, e gli schiamazzi dei bambini francesi in lontananza. Giulio era con la nonna: quell’estate si decise così. Io volli fare così, Sara decise così. Lei, invece, non si curava dei bambini francesi in riva al mare, stava stesa sulla sabbia come se quella fosse la sua placenta. Ma è un dono quello di diventare subito della stessa natura di ciò che si tocca. E a me questo accadeva solo con lei. A lei, forse, con tutto. Parlammo un po’ di cucina, con una certa foga anche. Io dicevo che i pomodorini nel sugo vanno tagliati a metà, e fatti assopire. Al massimo appassire, diceva lei, ma poi insisteva a dire che vanno premuti con una forchetta mentre soffriggono. Ci agitavamo come malavitosi che vogliono uccidersi per antipatia, ma che però sostengono di volerlo fare per offese non controllate sulle rispettive madri. Premuti e soffritti, mi diceva, non una parola sul professore di storia che voleva darle delle lezioni private. Anzi, solo una frase, sempre all’interno della disputa sul sugo, che mi colpì, “tu non sai imparare, perché combattere per il torto ti fa sentire vivo”.
-Cosa hai detto?
-Hai capito benissimo.
-Sì, ho sentito, ma non capisco il nesso. O forse parli d’altro?
-Dovrei, o vorresti, parlare d’altro?
-Tu che pensi?
Le avevo tenuto testa. S’era zittita. Tutto avrebbe dovuto mettersi a posto: l’avevo turbata e s’era ritirata: mai fatto prima. Eppure cos’era che mi tormentava? Forse non è soddisfazione far tacere il nemico, ammazzare il malavitoso che t’ha offeso le origini? Pensai quasi di voler presto esigere delle scuse, ma per cosa? No, stavo cadendo nelle rete che m’ero preparato: non era un battibecco, era ancora la risposta che mancava alla domanda che non avevo fatto.
-Papà, stamattina ero a scuola come sempre. Ho anche mangiato la minestra del refettorio, e lo sai che mi dà il vomito. Poi alle due era l’ora di matematica, ma il professore, hanno detto, era malato, e allora uscivamo un’ora prima. Siamo andanti nel campetto dei preti a giocare a pallone, però uno dell’altra squadra ha tirato storto e la palla è andata in strada. Io stavo in porta così toccava a me andare a prenderla. Solo che la strada è in discesa e il pallone rotolava, ed è rotolato fino ad andare a sbattere sulla punta di un tombino che stava messo male. E s’è bucato. Così ho pensato di tornare a casa a prendere il mio pallone. Ed è stato appena sono entrato che…
Quella donna è matta, m’ha detto oggi mio figlio.
Erano già le sette, sulla spiaggia, e il sole era proprio un vecchio demente, e da mezz’ora stavamo zitti io e lei, per motivi diversi, ma lei con molto più agio di me. Allora mi alzai, detti un paio di scossoni all’asciugamano e feci per allontanarmi verso il campeggio, ma dicendo, così, con distrazione:
-Poi un giorno mi racconti come è andata col professore di Storia.
E me ne andai, con le spalle strette come uno che ha appena ricevuto la minaccia di una mazzata nella schiena, e che prova a ignorare il fatto sperando che la sua fuga passi inosservata.
Stanza 22, non è certo più il campeggio. Questo numero, al contrario, è la conclusione.
A cena lei mangiò con gusto mentre io bestemmiavo i cuochi, perché se avessero fatto il sugo coi pomodorini avrei potuto continuare a buttar fuori la mia ansia con quella manfrina del pomeriggio. Invece c’era una pasta e ceci tutta brodosa come si fa al nord, che mi indispettiva, come il suo, di nord. A Venezia, quando ci conoscemmo, me lo aveva detto di avere il padre italiano e la madre austriaca, e la cosa m’aveva eccitato, sopra qualche ponte, questo sangue goriziano mischiato, più sangue fa più calore a dispetto della sua mente che calcola le distanze da una trincea all’altra: è per questo che gioca così bene a campo aperto, perché possiede le mappe di tutte le guerre. A cena pensavo alla seconda volta che l’avevo vista, dietro appuntamento, al tavolino di un bar, quando lei apriva e chiudeva le gambe di fronte a me, con la cannuccia di un drink a contatto sempre con la sua lingua manco avesse paura di perdere sensibilità. Se non avesse giocato con le ombre, quel pomeriggio, magari mi sarei già accorto di quanto lontane erano, e sono ancor più diventate, le nostre orbite attorno all’amore. A me la cannuccia ingombra, me ne ritraggo dopo la sua funzione necessaria, e talvolta la evito direttamente. Lei, invece, deve tenere sempre sotto mano, e usa il corpo come avanscoperta nel mondo: a volte come fa il camaleonte, a volte usandolo da ariete. Poi dopo arriva il suo cervello poroso, che assorbe ogni liquido e scalda i solidi fino all’assorbimento anche di quelli, e non parlo solo di membri: il suo cervello arriva per radere al suolo. Il mio no, organizza e ricostruisce, ma gli manca l’audacia per sovvertire la materia e per vendere quel sovvertimento come dovuto, legittimo ben più che necessario. Lo avvertivo, questo, mentre lei apriva le gambe, sotto il tavolo di vetro, e mostrava quanto l’indumento intimo sia eccedente. E avvertivo al tempo stesso un’idea di missione che mi stavo accollando, buona per tirarmi via dalla depressione che si diceva avessi in quel periodo da che era morta mia moglie. In sostanza mi ritenevo forte abbastanza da ricomporre le sue rotture, le sue rivoluzioni ed evoluzioni. Ma era l’impeto iniziale della sfida impossibile. Solo che l’attimo, il preciso attimo, in cui questa è diventata impossibile, non me n’ero accorto ma l’avevo già persa, la sfida. Lo stesso gioco di luci fra le sue cosce sentivo di poter suturare rimettendo le cose al posto giusto: io su di lei, in qualche albergo lì vicino. Come in effetti fu. E fu per tutta la notte, perché a dedicarmi sono buono, ma la mia è una dedizione artigianale: io non aspiro all’altezza, però in superficie il mio mestiere sono capace a farlo. Lei è diversa, era diversa già allora, e nel nostro primo amplesso credo m’abbia chiamato con quattro diversi nomi, che non era abituata al mio, di nome, disse, e che comunque non dovevo dimenticare che per lei il nome equivaleva alla pettinatura del sopracciglio. Non mi convinse, ma non mi ferì. Ecco, forse è quello l’attimo in cui persi la sfida.
Adesso, davanti a questo numero muto, sospetto che per lei solo un nome ha diritto d’essere ché mai lo ha allontanato: il suo.
-Giulio, cosa è successo quando sei entrato?
-Non trovavo il pallone. Sara lo aveva sicuramente spostato, e sicuramente non ricordava dove l’aveva messo. Allora ho cercato in cortile, anche dentro la cuccia, sotto alle siepi vicino al muro. Ovunque, sotto alla macchina di Sara, e sotto alla macchina bianca che stava all’inizio del viale. Allora ho deciso di andare a cercarlo in casa, forse in cucina, o nel sottoscala lo aveva messo, ho pensato.
-Scusa, Giulio, che hai detto? Macchina bianca in cortile?
L’anno scorso, alla riunione degli insegnanti, parcheggiammo fuori dal cortile della scuola perché ogni bambino ha almeno un genitore, e il parcheggio della scuola si riempie facile. Non ci sono più gli orfanelli di una volta. Io e Sara ci dividemmo i professori. Era il primo anno di medie, e Giulio era scosso dalla morte della madre. In più era timido. Ne avevamo molta cura. Intelligente ma svogliato, dissero a me. Non so cosa dissero a Sara gli altri perché è impossibile parlare seriamente con lei a meno che non siano accadute tragedie o roba di sesso. Rimase il professore di matematica, e ci andammo a parlare in due. E’ intelligente, il ragazzo, diceva quello, però si applica poco, si distrae facilmente anche di fronte alle sciocchezze. Però quando ci si mette è eccellente, disse. In genere Sara stava zitta perché questo tipo di rituali la annoiano. Ma lì intervenne:
-Perché, professore, lei questo lo trova strano?
-In che senso, signora? – fece quello spiaccicando gli occhi sulle lenti, spiazzato dal doversi chiamare in causa per faccende alle quali, normalmente, bastava una rapida preparazione mnemonica di quattro o cinque frasi. Domande, in quei casi, e così, non s’erano mai viste.
-Nel senso che, se lei permette, vorrei sapere se è lecito aspettarsi da questi uomini del futuro che si dedichino a tutto.
-Vede, signora, la scuola, com’è intesa oggigiorno, deve occuparsi di fornire il ragazzo del ventaglio più ampio possibile di conoscenze, per permettergli poi…
-Sì, sì, di scegliere meglio. Ma, se lei permette ancora, non è questo un sistema basato sulla mediocrità del soggetto in esame?
-Mi spieghi meglio, fece lui, mentre io, il padre, ero scivolato al bordo del quadretto che se ci fosse stata una cornice, almeno, ne avrei sofferto di meno andandomi a infilare nella sua fessura.
-Non può essere, sempre se lei permette, che un ragazzino di dieci o undici anni, possa già sentire quali cose gli interessano oppure no? È’ davvero necessario tenerlo nel limbo fino ai diciotto educandolo alla produzione seriale o, peggio, impedendogli di dedicarsi con la passione dovuta a ciò che davvero gli piace? Questo va bene per il bambino che non ha impulsi. E per quello che ne ha troppi. Ma fra il genio e il mediocre c’è tutto il resto.
Il professore di matematica, visibilmente stizzito dai giri di cervello cui Sara lo stava obbligando, provò a tenere una linea più dura, quasi mostrando il filo delle sue armi, e chiese:
-Perché, signora, a questo ragazzino cosa piace?
Mi sudavano le mani. La stoccata era stata buona, quella del professore. Dimostrava vivacità di testa, pregevole sarcasmo e un conato d’orgoglio. Però Sara poteva calpestarlo, ed ero certo stesse per farlo, c’era solo da capire con quale ferita, e di quale durata di morte, quello sarebbe spirato. Ma lei non affondò, gli lasciò uno spiraglio, quasi a volere che il professore ci pensasse bene per i giorni a seguire a quell’incontro:
-Il giorno che noi genitori terremo un incontro con gli insegnanti sarò lieta di offrirle il tè e i biscottini in salotto. Ma qui, oggi, mi pare che a parlare del ragazzo debba essere lei. O mi sbaglio?
In questa stanza 22, dietro la porta nera, c’è un gatto che se cade atterra dormendo.