E questo è il penultimo. L’immane lunghezza, qual’è il posto della letteratura di lunedì sera?
È questo. Questo qui, qua sotto, nella vignetta (a Yalta, dove pure si decise il destino del cacio sui maccheroni).
Il presente (sei, quattro, tre, due, uno)
A quanto pare l’asciugai io, e le tolsi le alghe dai capelli prima che lei stessa si facesse alga. Ma questo non conta, a quanto pare, adesso, e dopotutto credo anche che rientrasse nei miei taciti compiti. A quanto pare non mi dovette spiegazioni perché la mia patria era quella mobile del dubbio, un mondo di creolina dove i piani si intersecano gli uni negli altri, e le superfici scivolano verso nuove leggi fisiche, per non dire dei colori, non dire perché non si distinguono. Può darsi che… è possibile invece che… questo è sole e questo tramonto della mia giornata. Però io ho imparato che nella patria del dubbio è facile accomodarsi sul trono, il primo che capita a tiro: il dubbio all’inizio ti assorbe completamente che quasi non pensi ad altro, come immerso in fondamenta di burro, poi ti fa gli arti elastici: con una mano prolungata vai a misurare l’estensione di un piano mentre con la gamba scendi fino al senza fondo di quell’unica mattonella del pavimento, sfiorando molli nebbie. Anche il collo si fa nuovo, e si sobbarca e ti trasporta gli occhi dove vuoi. Così ci vivi dentro, all’inizio, in questa terra che è un guado. Finché non sbatti come su uno scrigno, io l’ho visto, questo scrigno: l’ho aperto, una notte in sogno. Ne è uscita una voce di trachea di vecchio che con la bocca debole ha danzato le parole più che dirle. “Il dubbio non si chiude, non contempla fine per la sua esistenza. Però è nella mancanza di leggi verificabili che sta la sua malattia, ed inventarsene una, di legge, al buio, è più facile che provare a vederla”, mi disse la voce. In questo bradisismo di realtà io ho imparato a scegliere. A escogitare la chiusura del dubbio dimenticando ipotesi di me. Si campa sereni, perfezionandosi, fino alla prossima incertezza, alla quale però opporrai un’architettura già un po’ più perfetta. Architettura dell’oblio di sé. Eppure il dubbio non è tondo: è piuttosto una striscia di pelle di cui ignori i punti terminanti, e dall’addizione di strisce di cui non conosci l’esatta dimensione non ci fai certo un mondo in cui vivere. A quel punto ti basta una lacrima a far sciogliere le giunture di zucchero che colonnavano la tua dimora.
Mi sveglio con parti di me che ho dimenticato, e con un cerchio da chiudere. Molto è adesso sciolto, e dei pezzi si frammentano dai precipizi, e dagli orli in verruche dei buchi neri. Il professore di quella vecchia storiella, e se non è una storiella? Quella è la mia idea di fine, ma io l’ho determinata mentre ero su qualche trono, nel fumo. Potrebbe bastare, sì. Eppure questa domanda scarta per natura questa risposta. Tiziano, col pesce rosso in mano, e l’aria d’abisso guardato negli occhi, non è un’ombra che passeggia i miei campi indefiniti: è lì, era lì, nemmeno tanto pronto ad afferrarsi alle risate degli invitati per salire su… come se l’abisso l’avesse davvero conosciuto, e ipnotizzato. Ora starà il poveraccio scegliendo di dimenticare qualcosa. Forse anche lui è già un re. Ma a me il regno, questo tipo di regno, non mi sazia più. Già da quando tornavamo dal ristorante e lei, guardando le luci delle auto che ci seguivano nel traffico, diceva che un posto in cui il passato non esiste deve essere possibile, che tutto sta a trovarlo. Di suo padre non m’ha mai parlato, Sara: un’anima vergine è. Che s’affanna a ricostituirsi così, e per farlo ha bisogno di sporcarsi e pulirsi ogni volta. Io, sono uno straccio.
Poi mio figlio aveva dei graffi sulla faccia, oggi pomeriggio, e m’ha guardato come non mi riconoscesse: forse non è neppure giusto che un figlio sappia che il padre è uno straccio. Questo perché era passato davanti alla camera da letto, mia, e di Sara, ha detto. Cosa gli sarà entrato negli occhi? Ma perché? Cazzo, cos’hai visto?
-La porta era aperta e nel corridoio arrivavano i puntini di luce della persiana socchiusa, e un rumore di ferretti come pulcini. Allora io stavo passando per andare nel ripostiglio, perché tante volte Sara mette là i giocattoli che trova per casa, però lei si lamentava, secondo me, nella stanza. Allora mi sono un po’ spaventato. Però… però quando mi sono affacciato nella stanza ho visto che c’era una strana forma sotto alle lenzuola, e proprio quando quella forma si muoveva di più succedeva che lei si lamentava. Però io non l’ho vista all’inizio. Ho visto solo la faccia di uno.
-Chi? Chi era?
-Era lui, il professore di matematica.
-Quello lì? Sei sicuro?
-Sì. E poi io l’ho chiamata, Sara! Sara!, e loro si sono fermati, lui m’ha guardato con due occhi strani che fuori erano socchiusi e dentro spalancati. Allora io sono scappato qua, e mi sono messo dietro al letto.
-Che hai fatto?
-Niente, io.
-Cosa è successo dopo? Lei l’hai vista?
-E’ venuta da me.
-Che ha detto? Che ha fatto?
-Ha detto che mi ero sbagliato, che avevo visto male. Io le ho detto che non avevo visto niente, solo il professore di matematica. Lei ha detto di no: nemmeno quello! Che forse l’avevo immaginato perché avevo paura dell’interrogazione, ma io non devo essere interrogato papà.
-Lo so, lo so. E poi?
-Allora io ho detto che non era vero. Che io l’avevo visto e questo è vero, che lui pure m’ha visto e infatti mi ha guardato male. Però Sara ha detto che io sono disturbato, come te, e che vedo cose che non esistono solo perché mi fa più comodo.
-Ma Sara l’hai vista nel letto?
-No, solo dopo.
-Come “dopo”? “Solo dopo”? E prima? Chi ti dice che era lei col professore?
-L’ho sentita!
-No, Giulio, tu hai solo sentito una donna lamentarsi… che t’ha detto? Che vedi cose che non esistono? Come me?
-Sì, così ha detto, dopo, ma io sono sicuro che prima era lei sotto alle coperte.
-Come fai??? Provalo!
Lui prese a piangere con più forza, ma con più pudore, se possibile. Stava lì fra muro e letto a raccontarmi una storia che voleva sfuggirmi, come anche a lui. Provai a calmarmi facendo il re del dubbio, provai a cancellare l’ipotesi che quello che raccontava Giulio fosse vero. Non fu la strada giusta.
-Giulio, scusami se ti ho strillato, è che papà oggi è stanco e gli fa male la testa. Dimmi: come ti sei fatto questi graffi?
-E’ stata lei.
-Giulio… Giulio mio, Sara ti ha mai messo le mani addosso?
-Sì.
-Quando?
-Oggi pomeriggio.
-Intendo: prima di oggi era mai capitato?
-No papà.
-E allora vuoi spiegarmi come le sarebbe saltato in testa di farlo proprio oggi che, per di più, se è vero quanto dici, aveva torto?
-Io non lo so, ed è scoppiato di nuovo a piangere.
-Non fare così, parla! Non piangere come un cretino!
Gli stringevo le braccia, lo scuotevo per farlo tornare in sé, per fargli sparire quella faccia tutta accartocciata dal lamento. Però quello piangeva di più.
-Perché ti ha graffiato?
-Non lo so!!
-Cosa è successo? Cosa le hai detto??
-Che lo avrei detto a te.
Mi sono fermato. Mollata la presa. Su quello c’era da pensare, da misurare bene. Sara non ha mai provato a nascondermi delle cose, pensavo guardando gli occhi gonfi di mio figlio, mai. Se c’è una cosa che so di lei è che ci tiene a darmi le sue sporcizie, vere o presunte che siano.
-Giulio, te lo dico solo adesso e non farmi ripetere: fra me e Sara non esistono segreti, io so tutto.
Io sapevo tutto appunto, con sfumature di verità differenti, e una buona quantità di immagini mie. Ma sapevo quasi tutto. Solo che i bambini non capiscono i “quasi”, altrimenti l’avrei usato, e lui, poco dopo, anche lui l’avrebbe usato un “quasi”.
-Papà tu non mi credi, credi più a lei che a me.
Piangeva, forse avrei dovuto farci più caso. Eppure era proprio quel pianto che più di tutto mi faceva saltare dei passaggi, come la mano che ti tiene sott’acqua ti fa saltare un turno d’ossigeno.
-Io credo a chi dice la verità, dissi.
-Tu credi alla verità che vuoi!
Piangeva come un temporale di notte quando hai l’emicrania, e la notte stessa pare volerti fuggire dalle finestre. Gli ho ripreso le braccia, e anche qualche ceffone devo averglielo dato, per scuoterlo.
-Dai, dai, uccidimi! – ha detto lui – uccidimi come ha promesso di fare lei!
-Ucciderti? Chi ha parlato di ucciderti?
E mentre gli chiedevo quest’assurdità mi sentivo più presente, in quella stanza, in quel momento… perfino la pelle delle sue braccia era più calda, e le lacrime brillavano di più. Arrivava la sera, e dalla finestra aperta con lei arrivavano odori di verdure lesse, e di pasta riscaldata in padella col burro, auto che tornavano ai garage con vispi i sacchi della spesa, e il pane del mattino ormai secco, e Giulia che ancora non era tornata: ma dov’era andata? Il respiro di mio figlio sotto le mani in una pelle più calda delle braccia, sentivo, tanto ero presente in quella stanza, il respiro che mi passava nei palmi e in quel golfo che fa il pollice con l’indice, più fioco, più breve, solo promesso… portiere nel vialetto che s’aprono: i vicini non sentono niente quando nel naso hanno il profumo della cena, pollo al forno, forse, cotto prima nella birra, una birra italiana che costa poco ed è anche buona.
-Quella donna è matta.
Lo ha detto con un filo di voce, mio figlio, come a estinzione di un debito, mentre io ricordavo i piedi neri di Sara a Venezia, che mi chiese di accarezzarglieli quando ci stavamo dando il primo bacio, e piangevo e piango anche io, cioè anche adesso, e i piedi non sono proprio sporchi, sono ormai diventati così: in quel punto del corpo si svela il miracolo della mia donna: lei si fonde alle cose: ha come delle porte.
La testa di Giulio mi stava appesa fra le mani, strette al collo. Aveva smesso di piangere, ma aveva iniziato a farci bava e schiuma con la saliva. Gli ho rimesso la lingua a posto. L’ho messo a letto, asciugato il faccino. Non è posto questo qui per lui.
Questo qui è il posto della stanza 22. Il posto di un mondo dietro un punto.