Quando mi riaccompagna a casa scendo dall’auto e non dico una parola, tace anche lui. E aspetta. Il solito sfiorarsi delle dita. Stavolta non lo faccio e non mi volto. Ho sentito parlare di un tale che una volta si è voltato e gli è andata male. È per questo che non lo faccio, ho il terrore che svanisca. Come qualche ora fa. Che non tornasse. Di trovarmi in strada da sola, appena fuori dal cancello. O forse era l’eccitazione, l’attesa, il vuoto nella testa. Il vuoto cosmico e il ventre in attesa. C’è solo l’ultima vibrazione del telefono – Esci, sono qui, l’attesa è finita. Siamo in un labirinto, non diciamo una parola – il patto è questo – e niente conseguenze.
Sono passate le tre. Per strada non c’è nessuno. L’aria fredda della notte mi colpisce sotto, sulla linea delle calze nere. Lui mi vuole così. Sto camminando nel viale, la convulsione ormai è finita, ho in mano le chiavi e nella borsa un talismano, la sciarpa, qualche moneta. Non è la prima volta che mi vedo in questa scena. Percorro il viale, sono stanca, le gambe quasi senza vita mi trascinano.
Prima c’era solo lo specchio, il telefono e lo specchio. Ogni vibrazione un giro. – Gira marionetta, girati bambola di legno! Sono io la bambola di legno e sono qui, in attesa. Se stanotte non viene da me, non fa nessuna differenza: sono Arianna, mi ha legata con una promessa.
Il fatto è che c’è riuscito anche stavolta. Sono sotto la doccia, senza fiato. Ho dovuto smettere di pensarci. Smettere di. Toccarmi. Lascio entrare la chiave, sperando che non si blocchi come l’altra volta. No. Gira. La porta è aperta ed è un sollievo. Sfilo le scarpe, devo ridurre i movimenti. shh. Nessun rumore.
Anche stanotte mi sono vestita in fretta, 10 minuti, 5 minuti. Ed ecco l’ultima vibrazione. Mi coglie mentre sono ancora allo specchio e mi sto guardando. È tutto uguale a un anno fa, è come ogni volta. Esco. L’aria fredda di ottobre.
Quando entro in macchina, non più ha niente da dire. Stento a riconoscerlo, ma avverto subito il suo tocco, mi passa il dito sotto il reggicalze, mette in moto, sto zitta. Bastano pochi minuti, percorriamo strade parallele – sensi unici – una svolta e un’altra curva. L’auto si ferma, ha deciso che anche stanotte seguirà il mio filo. Siamo invisibili. Saliamo.
L’assenza di prospettiva ci accoglie appena entriamo. Apro la porta-finestra. Cielo stellato e spazio tutt’intorno. È solo un’illusione: da dove sono, le cose che intravedo hanno una densità diversa, diminuita. Sono immagini a due dimensioni – vetro – ed è solo un riflesso sbiadito di ciò che resta fuori. Perché ora siamo dentro, stiamo entrando di nuovo nel labirinto.
Esco sul terrazzo ed è un invito e uno schema che si ripete ogni volta. Serve a ridurre la distanza, a ribadire ruoli e posizioni. È anche un richiamo, il mio, lanciato su un abisso che separa e unisce. È questa la vertigine e occupa il vuoto tra i nostri corpi. Sono sul terrazzo, sto confermando il mio desiderio, mi sto esponendo, anche stavolta, al suo. Coglie subito il segnale e come ogni volta prende tempo. Lo sento aggirarsi da qualche parte alle mie spalle. Non fa rumore, la mia tensione sale: lui è qui, è impercettibile, ma è qui.
Mi si accosta di lato, si fa ancora più vicino, si sposta, lo sento all’altezza della schiena proprio come aveva detto. Aderisce bruscamente, all’improvviso. Non sono sorpresa, comincia dalla base del collo e posso notare che anche stavolta è la mia nuca la prima cosa a offrirsi. Il movimento è ascendente e basso. Fruga, preme. Vuole prendermi da dietro – aveva detto anche questo.
Dopo il terrazzo finiamo sul divano rosso. Il posacenere ha una forma insolita, mi disturba. Non ne capisco il motivo, ma decido di non andare a fondo. Mi vuole sopra di lui. È la paralisi. Capisce che sono bloccata, si diverte a provocarmi. Mi morde le labbra.
Scelgo di accettare la sfida, devo ricambiare in qualche modo. Mi afferra i fianchi, mi solleva, avverte il cedimento. E infatti mi sto muovendo.
Mi stringe, accade tutto in fretta. Non diciamo una parola. Sto soffocando e sono felice.
Non c’è luce. Mi chiede di non sottrarmi. Vuole che gli dica di scoparmi subito. Vuole essere eccitato. Vuole convincermi che è proprio quello che voglio. È questo il suo modo di eccitarmi. Ma io gli sono davanti e non ho voce.
Allora solleva il velo e indica.
-Spogliami. Lo fa.
–Inginocchiati. Lo faccio.
Siamo solo all’inizio: ho imparato a calcolare i tempi, a riconoscere le reazioni. È presto, dovrebbero essere le due, c’è il solito silenzio. Tace anche il cucù dell’orologio sulla parete. La prima volta no. Questa è una delle cose che non ho dimenticato ed è una cosa insignificante e strana, come il posacenere, la sua forma fastidiosa e, quella volta in estate, l’ascensore guasto.
Ora il labirinto è il letto. Mi gira. Sono la marionetta.
Mi lega, stanotte vuole anche bendarmi. Poi lascia perdere e non lo fa. Sono sul bordo del letto, devo tenermi ferma col braccio, l’altro è immobilizzato sotto il suo. Lui è sudato, è pesante, mi schiaccia. È ingrassato. Non mi piace. E so che non gli piace. Avverto il suo disagio e lui capisce che è troppo. Allora scende con la bocca, mi solleva da sotto. La mia schiena si fa arco. Sono tesa. È tutto molto improbabile. Paradossale. Sono un pezzo di ghiaccio eppure continuo a volerlo.
Mi divora, ci divoriamo. Questa è l’unica verità che posso affermare. Tutto il resto accade altrove.
Restiamo così, mi apre e rimango chiusa. Restiamo così, a fluttuare immobili sulla superficie. E poi all’improvviso accade: proprio quando sto per rinunciare, decido di cedere. Prendo coraggio, divento audace: è il capovolgimento. Ho la sua testa tra le mani, le dita nei capelli. Fa piano, ha imparato anche lui. Non posso sottrarmi, stavolta sono io a non resistere al suo richiamo e in fondo neanche lo voglio. Ed è certo: arriveremo fino in fondo, usciremo finalmente da questo labirinto.
Il Minotauro affonda. Poi si ferma, respinge, sta dicendo no.
Silenzio e buio. Apro gli occhi. C’è solo la sua sagoma indistinta, la penombra. È Teseo. È astuto. E ha la barba anche stavolta. La sento graffiare. Spinge dentro la lingua. Mi si spezza il filo tra le dita.
Non parliamo. I nostri silenzi non hanno anima. Non ci sono sguardi – non ho più occhi. Cado in trappola, lascio che accada. Vado in mille pezzi.
Capisce, si stacca, è senza fiato, sta ansimando proprio come me. Aspetta che torni la calma. Ora è dalla sua parte del letto. È il suo momento. Dioniso. Il tentatore, l’impotente, il bastardo.
Sapevo già come sarebbe andata a finire. Come quando ero davanti allo specchio: vedere e non riconoscersi. Sapevo che stava per accadere. Sapevo quanto potessi volerlo. Lo sapeva anche lui. Accendo un’altra sigaretta, sono alla finestra. Ho sfilato gli slip, sono scomodi, lui li vuole cosi. Devo pulirmi, ho addosso il suo odore. Cerco altri segni, stavolta non ce ne sono. Ed è tutto. Sono riuscita a non voltarmi. Smettiamo di esistere fino alla prossima volta. Esco dal bagno. Sono di nuovo nel mio letto.
Questa è la terza ferita. E questo è il labirinto, questo è il letto, questa sono io che lo guardo. Apre gli occhi, è sorpreso, li richiude. È stato solo un momento. Lo ricorderà. Lo ricorderò anch’io. Mi avvicino. Comincio. Comincio a fingere di volerlo, comincio a volerlo, a volerlo sul serio. Scendo, mi tira i capelli, stringe la mia mano. È nella mia bocca, vuole guardarmi mentre lo faccio. E io lo faccio piano, perché è solo l’inizio, perché voglio che lo ricordi, perché voglio che veda, ma veramente.
Non vede, è più cieco di me.
Benvenuta, Agathe. (ho appena corretto una svista di formattazione, il dialogo al centro che prima pareva poesia situazionista, incosciente).
infatti sì, grazie. ottimo lavoro, Fahridi, nonostante i problemi di formattazione ;-)
et grazie
grande agathe, grazie per le visioni.
:-) grazie a te per le illustrazioni.