Andammo su di una stella, credo, e io arrivo in un aeroporto con le finestre in moto verso l’alto, dei giunchi ferrosi diretti verso interscambiabili foglie, i vestiti blu, le piccole valige, i fazzoletti di numeri, i volti di vacanze pronte all’uso – tutto ancora tra le mie iridi piantate sulla moquette dritta, sulle scale di vetri sollevati.
Quell’ingenua estraneità al mondo, piedi e scarpe in fila, contorni opachi e ne sono certa: ognuna delle loro proprietà è modificata.
Con dinamico grigiore spazia il pentagramma del cielo, di genio quel disegno di spontanea vita: una meraviglia di piani, intersecati agli intelletti di candida gentilezza.
Umanità infinita:
a venti tiepidi, il rintocco dal Tamigi!
Mite e inconsueta vita, donata ad autunnali simboli e metafore che parola ne fu intimidita – si raccoglievano fiori, e nuovi doni, colsi il giglio della notte, quello più vicino al suo colore, un tumulto di te.
Crebbe allora, in un batter di ciglia, quell’arto timido di frescura figlio, un quadrifoglio di tempo. Non mi furono date le istruzioni: allora placida, sin dal principio, ricordo l’unicorno in una storia.
Adiacenti i simulacri d’amore, la necessità delle parole composte per noi, quasi irriproducibile la ricerca dell’apparato congruente e forse il solo a sé distribuito… gemiti, Jeremy, a microscopio le giuste apposizioni dell’être vivente : macchina parlante, la bimbina dagli organi di pietra resta morta o seduta sul ciglio del mondo.
Una sagoma esercitata alla scomposizione del frammento, all’illusione del non-respiro, esplicitato dunque il conseguimento del pezzo mancante.
Perché mi manchi mio soliloquio, mio prospetto, spettro, sospetto, presto detto: «Più veloce, corri, rapidissima». – E così fu!
Un destriero nell’aurora nucleare: eccola finalmente, la pace. Direzionato il centro ne rimase uno sguardo equivalente al sogno, no, che dico, a tutti i percorsi di idiomi, così si scopre la manifattura e non sorprende il nihilisme del pomeriggio.
Che il corpo ne sia partecipe non va al di là delle procedure di adattamento e affine la coniugazione della speranza all’avventura del piccolo più vero.
Che sia un albero la mia sorgente? Addormentarsi sulla cima per qualche secondo, come un tasto velocemente utilizzato, i piedi nella bora e nella nebbia – erro – neve sterilizzata, zigomi e molecole, molecole e azzurra la volta del giorno nuovo, reinventata una nascita, nella divina infinita propria cellula, spirit to zayon we will for, in un atomo.
Larmes, l’une après l’autre, larmes…
Ti vedevo con quel vestito da bambina, da radio libera nel cotone, triste ed elaborata perfezione, tu, un raccolto candido mondo, aggregata al lembo tuo potrei andar via, il tuo fiore, mi dici di andare verso il sole ucronico, anacronistico, le volevamo quelle future contaminazioni umane, ma le volevamo nello spazio, reale, che si trasforma, si tramuta, nella facoltà di noi stessi, possedere quegli ideogrammi sacri.
Corrono dei ragazzi contro il sole, dissero – si dice – altri lo salutano, lo pregano… Si dice che stessero correndo sul sole, sembrando così vicino da poterlo prendere, proprio così, ci salirono su, perché quella landa è l’unica e sola, è la sola, è l’ultimo posto e puoi saltarci su – dicono…
Sul giornale, come capannelli di uomini, i minuscoli esserini invertebrati, di spirito forniti, mi letiziano oltre alla finestra dell’ospedale rivolta al plumbeo orizzonte di plumbee piattaforme, e il letto scarno, le pareti spoglie, sconosciute e un corridoio a sé, irradiazione virtuale di ultra visioni. Dicono che basta guardarlo bene, profondamente e ci si accorge che non è ciò che sembra –
lo vidi nell’inverno lontano, quell’astro monco,
priva di suoni umani;
ho trovato un dispositivo
un cyber sopravvissuto.
Si sdraiarono sulla rugiada perenne come ghiaccio, fibrillavano, non fibrillavano, ogni velocità di luce era tridimensionalizzata a piacimento del proprio corpicino, fotografie immobili d’amore sotto l’ombra di pietre a decollo costruite…
Costruite le cose di ogni giorno, perché non è un inganno la rivoluzione industriale in quanto unione di cause per l’allucinazione dimostrata e collettiva; allora si immettono nel grafico, tutte le cose, come grafici i miei valori di vita a sedazione ripartono, e riluttante mi sfoglio tra un fumetto, mi svesto da folletto, tutti sotto il letto! Nordiche le pendici della meta, nordiche tutte le accettazioni, si dice – che sparirono in una mini quantità di tempo, che io dico e sono, che la scienza ripete, la prima vita, una lacrima, molte di più, per loro, si dice –
Una notte, in America, chiese alla quercia: «Quante volte sei vissuta?» Rispose: «Solo una, per tremila anni; e adesso esisto con le radici nella terra. Vuoi salire?». Accarezzando le foglie antropiche strinse a sé, al corpo assiderato, il tronco vigoroso; salì piano, piede dopo piede, mani sulle dita, baciando i rami rudi, parlando con i nodi, sostando come un grillo tra i pollini di ghiande. La luna tersa, lontana – cappuccio di ossa e vetri – l’ascesa dell’albero era un soccombere a strati di memoria atavica: nel dialogo muto si accese come scintilla l’esplorazione primitiva, le stelle si schiudevano in corpuscoli di vita pullulante.
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Questa prosa è stata pubblicata anche su Ô Metis III Raggiro/Ritorno.