Un romanzo italiano la cui trama non sia ombelicale, madre padre famiglia radici precariato ecc., è un romanzo che induce dapprima spaesamento, e poi sgomento. Ci stanno abituando male, con quelle storie di città e paesi e province nostre, con quel familismo amorale di cui si fa vanto e quei mutamenti epocali piccoli piccoli, al confronto dei quali le province americane sembrano scenari sublunari. E dunque già è tanto, forse troppo, che Dalle rovine racconti una storia non tipicamente italiana, che avrebbe potuto scrivere Chuck Palahniuk e invece l’ha scritta un giovane, classe ’86, e sia lodata la casa editrice Tunué per il gran lavoro che sta facendo con gli esordienti.
Si inizia con un uomo solo, Rivera, a Fortezza. Moglie e figlio l’hanno abbandonato quando il bambino è stato quasi ucciso da uno dei serpenti della collezione di Rivera. Alla famiglia Rivera ha preferito i serpenti. Un giorno si filma mentre i serpenti lo masturbano: diventa un attore porno. Il produttore porno di fama internazionale Jack Birmania, uno che sogna di cambiare la storia del genere, affida un cortometraggio a un regista giovane e talentuoso, Eugenio Laudata. Laudata confeziona un video in cui Rivera recita con i suoi serpenti e la promettente attrice francese Maribel Lalande. Da Fortezza il gruppo va a Barcellona per fare incetta di premi al Festival de Cine Erótico. Birmania presenta Rivera a un ambiguo personaggio argentino, Alexandre Tapia, che gli propone una sceneggiatura efferata, snuff. La sceneggiatura si chiama Dalle rovine.
Riporto la prima pagina della storia nella storia che il protagonista legge, utile ad avvicinarci all’immaginario di Tapia:
“Inizio a scrivere questo film. A Bucarest. Davvero a Bucarest, la città di Bucarest? Davvero. Una mattina d’inverno qualunque. Molto presto. Le urla della notte si sono placate. La festa è finita. Il mio compagno e maestro dorme in camera sua, sul pavimento. Il letto è intatto. Sono andati via tutti e posso lavorare in pace. A dire il vero, non sono più così sicuro che questo lavoro cominci oggi. Comincia oggi, ma è già cominciato. Solo tre giorni fa mi trovavo nudo nella neve dei Carpazi. Era già cominciato. Prima ancora morivo asfissiato dall’aria pestifera di questa nuova casa. Era già cominciato. Indietro, arrivavo in questo Paese per scelta, una scelta dettata da un desiderio ardente, e questo indica che era già cominciato. Era cominciato ancora indietro, quando sono arrivato in questo continente e per vivere mi facevo inculare e inculavo nelle province d’Europa. Ma il vero inizio c’era già stato. Con la mia infanzia, con la mia nascita, con il presagio della mia futura esistenza che ha vagato per i secoli fino al momento in cui ho pronunciato la mia prima parola. Adesso la domanda è: quando finirà? Non posso rispondere, perché non sono un veggente.”
E continua a leggere Rivera, turbato e attratto da una storia fosca, sanguinosa, violenta.
Nella seconda parte del libro una nube opprimente pare inghiottire Fortezza, e il raggio d’azione dei personaggi si restringe sempre di più, fino alla reclusione volontaria nella villa di Birmania. Sembrano ormai agire come davanti a una camera di un porno, scrutati da vicino — Baudrillard insegna: “la pornografia aggiunge una dimensione allo spazio del sesso, lo rende più reale del reale” — mentre progettano la lavorazione di Dalle rovine, con la morte che incombe, che lascia il segno, che prende qualcuno, e qualcun altro fugge.
Dietro la telecamera, è chiaro, c’è quel Noi che ritroviamo dall’inizio, quel Noi che descrive quanto accade, che segue il protagonista in tutto il libro:
“Quando Rivera se ne andò, nessuno lo vide a parte noi”
Questo è l’incipit, e il Noi, ricorrendo, accentua la tensione narrativa. Accadono cose e il lettore si chiede “chi è Noi?”, e ci sovviene Guy de Maupassant, il potere del pronome come nel famoso racconto Lui?, quell’atmosfera spettrale, quel senso di angoscia che Funetta rende bene. Si tratta di spettri, compagni di viaggio di Rivera che mai agiscono ma che testimoniano un mondo la cui fine è in divenire da un bel po’, una fine di cui Rivera sembra essere l’inatteso Messia, proprio così, inatteso, o meglio atteso solo dall’antagonista, da Tapia, che finalmente grazie a Rivera può documentare le rovine della sua vita, della Storia. Tapia e Rivera sono l’Anticristo e il Cristo che si specchiano — un Anticristo ambiguo sessualmente e un Cristo sessualizzato e compagno di serpenti che nessuna Madonna ha calpestato. Il punto di congiunzione degli opposti, la fine/inizio, non può coincidere con la fine del libro perché la fine del libro riporta all’inizio: che il mondo sia destinato a rovinare oppure a rinascere, i due avversari, Tapia e Rivera, l’Anticristo e il Cristo, non sembrano curarsene; essi sono affascinati l’uno dall’altro e il fascinum, è noto, è il fallo, il fallo qui assente, essendo assente il senso di verticalità in quest’opera orizzontale, infernale ma di un tutto inferno che non prevede altri mondi, in cui tutto è già rovina. Che la fine tanto attesa sia già avvenuta? Che sia come in un film di Christopher Nolan, enigma che gira su se stesso ovvero il grande Mostro — e il mostro, è noto, è etimologicamente l’enigma?
Chi è Noi?
Se fossi io a rispondere alla Sfinge direi che sì, l’enigma è chiaro, tutti sono già morti e Noi siamo i morti, i fantasmi, e abbiamo scelto Rivera, il solitario il collezionista il perverso zoofilo ‘fatato’, lo abbiamo scelto perché un barlume di senso, seguendo un percorso Batailleano — Bataille fu il pensatore che scoprì l’estasi nella violenza insostenibile del lingchi — lo ritroviamo solo nell’orrore, in tutto quanto è basso, decadente, morboso, morente, e il senso non è altro che la Morte crudele, quella Morte che Noi, i fantasmi, non vogliamo accettare, e così viviamo e guardiamo e descriviamo e Rivera il fatato, il nostro Messia, è anche Edipo portatore di peste; la risposta all’Enigma, al Mostro, solo lui ce l’ha: Noi sappiamo che quando la trova muore tutto, persino Noi.
Ma ho divagato seguendo una sottotraccia, il fiume che porta al colonnello Kurtz (Conrad, in esergo e sempre). Al di là del fiume impercorribile c’è un romanzo misterioso, con una trama che sarebbe lineare se non fosse per ciò che lascia immaginare e non dice: c’è un mistero che ognuno, a certe condizioni, può provare a interpretare, un mistero che congloba un altro mistero, quello che il protagonista, Rivera, cerca di svelare. È qui che il gioco letterario creato da Funetta, meccanismo ambiguo e seducente, fallisce con successo: ci invita a tentare la fortuna, a interpretare, e ci lascia al cospetto della vanità del tentativo: crediamo di aver capito, abbiamo capito?
Luciano Funetta
Dalle rovine
Latina, Tunué, 2015
pp. 184