Volvic sognava una guerra maestosa tra occidentali. Gente civilizzata, che condivideva la stessa cultura, lo stesso colore della pelle. Era nostalgico dei conflitti di una volta e si immaginava intento a firmare l’armistizio del 1918 in quel vagone arenato nella radura nel bosco di Compiègne. […] Si ricordava delle angherie che aveva subito all’inizio del servizio militare, prima che venisse nominato medico personale dell’aiutante di campo del generale de Gaulle. Da mezzo secolo aspettava di poter prendere la sua rivincita e si immaginava a passare in rassegna le truppe sugli Champs-Élysées, con indosso un completo di lino chiaro sotto il sole di luglio.
In Dark Paris Blues Régis Jauffret racconta un’ultima notte d’amore che racchiude tutta l’umanità. I protagonisti Tibère e Marjorie vivono rapporti conflittuali con i corpi propri e dell’altro, oscillando tra desiderio, idealizzazione e astinenza, e coinvolgendo nelle loro giravolte sentimentali anche parenti, vicini, poliziotti, politici.
Jauffret gioca, divertendosi e facendo divertire, con gli esseri umani e i loro ruoli, i loro tic, le loro inadeguatezze, le loro fragilità, la loro voglia di fuga e il loro bisogno di stabilità; la sarabanda di vicende che s’inanellano è anche una rappresentazione dell’intero universo, contemplato nella sua distruzione, nella sua rigenerazione e nel suo perpetuarsi sempre identico e sempre nuovo, infedele e fedele a sé stesso.
Dark Paris Blues è un romanzo di farse che sono incubi: compassionevole e asettico, intimo e universale, è a suo modo epico, ricco ed essenziale come la migliore letteratura; è un’opera capace di raccontare ogni sfumatura dell’umano attraverso una lingua che meraviglia tanto è audace, saporosa, sensuale. Desta stupore come un romanzo incentrato sull’astinenza (sessuale, morale, emotiva, sociale, metafisica) e sul piacere del desiderio insoddisfatto (o frustrato) riesca a essere totalmente appagante.
Ed ecco che si infilava l’amore in uno shaker, si aggiungeva una dose di immobiliare, un pizzico di elettrodomestici, il conto in comune a mo’ di ciliegina sulla torta, e si affogava in una quotidianità sciropposa, a tratti dolce come la granatina, a tratti acre, amara, il che però era strano per uno sciroppo. Si poteva anche aggiungere al cocktail, tipo cubetti di ghiaccio, due o tre bambini, femmine o maschi, ai giorni nostri i genitori non sono sessisti. I due protagonisti come due cucchiai immersi fino al collo che se la fanno disperatamente sotto per la paura dell’immobilismo, del silenzio, della calme piatta che trasforma lo shaker in un pozzo.
Jauffret stuzzica e soddisfa i sensi e il cervello del lettore, racconta una storia dalle infinite sfumature senza ricorrere a simbolismi e allegorie, dimostrando in tal modo una fiducia assoluta nella forza della storia e dei suoi personaggi e trasformando la complessità in abbondanza e un acuto dolore esistenziale in godimento. L’atto di consumarci in noi stessi, il galoppo verso l’autodistruzione, l’attitudine a complicare le cose e a renderci infelici sono movimenti forsennati che fanno parte di ognuno di noi.
E allora l’oscuro blues di Parigi è un inno alla vita e allo stesso tempo un lamento funebre, una celebrazione della nostra capacità, pericolosa, affascinante, tragica e comica di affermarci attraverso la nostra negazione.
Régis Jauffret
Dark Paris Blues (2010)
Trad. it. Tania Spagnoli
Firenze, Clichy, 2016
pp. 253