Tutto ebbe inizio durante una congiuntura economica non particolarmente favorevole che si comportava come una grossa mano di Dio e dall’alto si divertiva ad abbattere e a sparpagliare i cumuli di denaro dei risparmiatori sbaragliando ogni sicurezza di giungere alla fine del mese per cittadini che, non essendo né troppo ricchi né troppo poveri, avrebbero dovuto vivere serenamente e invece smaniavano per andare in televisione a dire il proprio parere sulla crisi della quale non comprendevano nulla.
Pare che uno degli episodi determinanti fosse il seguente. Un pomeriggio di novembre, una signora grassa e ormai lontana dal suo momento di massimo rigoglio giovanile stava portando a passeggio nella periferia tranquilla di una città del Nord un cane di piccola taglia, perché facesse i suoi bisogni tra l’asfalto e le aiuole misere del quartiere (all’epoca si usava così: il Comune metteva a disposizione alcuni punti recintati per lo svuotamento dei cani, tuttavia questi animali venivano fatti urinare e defecare dove capitava: lungo le vie cittadine, nelle piazze, nelle aiuole, nei giardinetti pubblici).
La signora aveva appena attraversato la strada e aveva fatto sostare il suo cane in un’aiuola miracolosamente ricoperta di verde al centro di una rotatoria scarsamente trafficata. Il cane era impegnato a odorare e urinare in modo selettivo nei diversi punti del prato quando alle spalle della signora si udirono le voci aggressive di un gruppo di quattro ragazzi poco più che ventenni, tre individui di sesso maschile e un individuo di sesso femminile.
«Ecco, guardate!» diceva la ragazza, i capelli irti in testa e le caviglie scoperte, i piedi affondati in grosse scarpe nere. «Vi immaginate cosa sarebbe successo se lo avessimo fatto noi?»
La signora comprese dagli sguardi che alludevano a ciò che stava facendo il suo cane.
«Ai cani lasciano fare tutto. A noi invece ci rompono la minchia per qualunque cosa» lamentava uno dei ragazzi, giubbetto corto e caviglie scoperte.
«Sì! Sai che casino farebbero se ci permettessimo di pisciare in un’aiuola! Ah! Uh!» sghignazzava il terzo, anelli di metallo ai lobi delle orecchie, capelli cortissimi color rosso prugna.
La signora accorciò il guinzaglio. Il gruppetto procedeva spedito, i ragazzi la superarono allungandole occhiate pericolose e sparirono in una traversa.
«Ho sentito bene?» si chiese la signora. «Davvero reclamavano il diritto di urinare nelle aiuole?» Lo stupore per tale rivendicazione le occupò i pensieri per il resto del pomeriggio. Ne parlò con le amiche e proseguì la sua vita tranquilla.
Trascorsero mesi da quel primo evento. Si diffuse, senza che l’opinione pubblica riuscisse a rintracciarne il motivo o l’origine, un’epidemia di attenzione da parte degli organi di stampa sulla questione: “Il diritto per tutti di pisciare all’aperto in città”.
Se ne parlò prima in rete, poi la provocazione fu ripresa e discussa su alcune testate giornalistiche che setacciavano la rete in certa di argomenti e idee, infine fu accolta nei talk show e qualcuno presentò addirittura un disegno di legge in parlamento. Intanto la popolazione si divideva in fazioni: divenne di moda indossare T-shirt che riportavano meme contrapposti: pro o contro l’urina libera. Molti si ricordarono delle fontane con i putti che dirigevano un festoso getto con le loro mani grassocce; i giardini e perfino i salotti furono riempiti di simili decorazioni, e in breve tempo fu creata la fortuna di un nuovo indotto.
Presto, però, la discussione slittò dalla libertà di urinare ovunque alla contrapposizione fra la libertà concessa all’urina dei cani rispetto alle costrizioni imposte all’urina umana. La stampa iniziò a chiedere, pubblicando titoli a effetto, come fosse possibile tollerare che esseri inferiori, quali sono i cani, occupassero posizioni di rilievo sulla scala delle libertà civili; da parte religiosa si constatò che in un certo qual modo demonico questi animali avevano deviato il naturale e retto flusso degli affetti umani, tanto che alcune donne arrivavano a dichiararsi “madri” di vezzeggiati cagnetti, e addirittura alcuni esemplari di questa specie ottenevano più attenzioni di qualsiasi bambino e infante. Il calo delle nascite fu correlato all’aumento dei Petshops e alla diversificazione dell’offerta per l’abbigliamento canino di prestigio. Sui giornali comparivano grafici che riportavano la spesa media di una famiglia per l’acquisto del cibo destinato ai cani. Servizi giornalistici televisivi intanto scoperchiavano lo scandalo del petfood alterato: le multinazionali del settore, in nome del guadagno – una scatoletta di leccornia drogata per cane costava tre volte più di una normale bistecca per esseri umani –, lasciavano, dentro scatolette di cibo ipervitaminizzato che avrebbe dovuto donare una salute sempiterna all’amato animale, residui chimici micidiali che avvelenavano irrimediabilmente i pelosi pupilli. Altri servizi giornalistici svelarono cupe trame dell’industria dei toys for dog e impronunciabili connivenze con sette complottiste e apocalittiche. Non fu chiaro se in risposta, per esasperazione o per stolida associazione d’idee, in tutta la nazione iniziò a diffondersi come intrattenimento la pratica di torturare i gatti ma soprattutto i cani.
Senza un motivo noto (perfino esami approfonditi, eseguiti per verificare la possibilità di utilizzo dei macchinari per la TAC umana anche da parte dei veterinari, avevano evidenziato che gli umani portatori di barba diffondevano molti più batteri e virus dei cani), fu proibito l’accesso a queste bestie nei luoghi pubblici chiusi ma anche in molti luoghi all’aperto, compresi spiagge, scogli, prati, piazze, giardini. Tale normativa modificò di necessità le abitudini di vita dei proprietari di cani, che d’altra parte non erano autorizzati ad abbandonare i propri animali in casa da soli, per via del disturbo che potevano arrecare abbaiando in assenza del proprietario stesso. Severe normative furono decise anche per la possibilità o meno di abitare in condominio se possessori di un cane. Erano previste multe salatissime per il proprietario a fronte di qualunque disturbo potesse arrecare il cane, e tali multe si aggiungevano a tutti gli altri balzelli che già erano stati imposti per il possesso di animali. Si giunse a decidere una tassa speciale per i proprietari di cani di razza quali proprietari di oggetti di lusso, e addirittura a imporre la sterilizzazione obbligatoria per tutti i cani, tranne quelli di allevamento. Tale obbligo poteva essere evitato solo dietro il pagamento di una cospicua somma da parte del proprietario della bestia. Multe e tasse e normative aumentarono l’insofferenza dei proprietari di cani per la propria situazione, facendoli sentire sempre più discriminati e perseguitati.
L’opinione pubblica si occupava ormai quotidianamente della questione canina. Sui social si tenevano furiose discussioni. La maggioranze degli interventi concerneva la necessità per la razza umana di salvaguardare il proprio diritto all’igiene con nuovi stili di vita, tecnologie e modifiche di comportamenti del passato, come quelli che permettevano il possesso di un cane in casa. Soprattutto i bambini andavano salvaguardati dal contatto con gli animali in genere, ma nello specifico con i cani, che si strofinavano notoriamente su ogni piscia, grufolavano con il naso in altrui feci e provavano ad addentare qualunque materiale organico (come i colombi spiaccicati sull’asfalto). Con il loro pelo, inoltre, i cani raccoglievano indubbiamente ogni sorta di germe dall’immondizia che giaceva sulle strade, sui marciapiedi, nelle aiuole e negli stracci di prato che componevano i giardini cittadini: l’opinione dei più riteneva che non bastasse certo quello studio scientifico a proposito delle TAC per negarne l’evidenza.
Si costituirono due partiti regolarmente iscritti per le prossime elezioni europee: pro e contro la concessione dei permessi di tenere cani nelle abitazioni.
Nuovi studi venivano fatti sulle proprietà disinfettanti della saliva dei cani, per trarne almeno qualche prodotto utile agli esseri umani. Le malattie trasmissibili dalla bestia all’uomo, in via ipotetica, erano troppe e troppo insidiose. L’unico modo per debellare gran parte del problema – si iniziava a pensare da più parti – sarebbe stato ripulire dai cani le strade delle città. I cani cittadini già da secoli non si cibavano più di carogne, ma solo di avanzi e cibo fornito dall’uomo, oppure del suo pattume. Scimmiottavano le abitudini umane, si insediavano nelle vite e nelle abitazioni dei cittadini distraendoli da altre e più importanti relazioni e affetti. Un tempo forse, quando l’uomo era cacciatore, i cani erano stati utili; adesso non servivano più a niente: la specie umana si era evoluta e quella canina, invece, non abbastanza: era rimasta attaccata a vecchie abitudini, si affidava allo sfruttamento di emozioni e sentimenti dei quali l’umanità si stava progressivamente spogliando come per un’ecdisi. Ogni cane risultava ormai, con ogni evidenza, uno spreco per l’umanità: di cibo, di comodità, di sentimenti. Larga parte del genere umano era ancora sofferente e bisognosa: indulgere in atteggiamenti affettivi e di cura verso i cani risultava in modo sempre più incontestabile qualcosa di osceno.
Molti proprietari di cani preferirono infrangere la legge in modo definitivo. Uccidevano il proprio animale in segreto, buttandolo in dirupi e luoghi difficilmente raggiungibili. Denunciarne la scomparsa significava pagare un’ultima multa, che però permetteva di risolvere definitivamente il problema. I cani volavano per un breve tratto nel cielo, roteando e agitando furiosamente le zampe, e poi impattavano sulle rocce. Rimanevano là immobili, una massa in poltiglia segnava il punto in cui avevano terminato la loro breve esistenza sul pianeta Terra.
Con il drastico calo delle vendite, le industrie di cibo per cani e quelle di medicine per cani (che impacchettavano gli stessi medicinali prodotti per gli umani, ma in imballaggi e in misure per cani, e con prezzi che erano quattro volte quelli degli stessi medicinali per umani) furono riconvertite: le prime, con le medesime tecniche e i medesimi ingredienti, iniziarono a produrre materie plastiche biodegradabili e carburanti per automobili; le seconde, invece, tornarono a produrre confezioni di medicinali generici con minori profitti.
Si diffusero in modo virale comportamenti che divennero prima mode, poi abitudini, infine tradizioni e da ultimo leggi, tra le quali, per esempio, il divieto assoluto per gli uomini di passeggiare con cani di piccola taglia. Ragazzi correvano per strada con le scacciacani; dagli angoli bui delle strade comparivano, guaendo impazziti, cani randagi scheletrici. La chiamavano “La caccia al cane”, o “La ronda canina”. Presto dalla scacciacani si passò alle pistole a proiettili veri. La caccia ai cani diventò l’occupazione preferita di moltissimi, che si ritrovavano in squadre piene di buona volontà: il loro intento era di ripulire il Paese. Dalla scomparsa epocale dei valori (dagli anni novanta in poi) si assistette a una rinascita di speranza, si rinnovò un fervore sociale e politico che portò molti a credere di nuovo in qualcosa, a combattere per una società migliore. Il popolo pareva ritrovare fiducia nell’aggregazione e nella progettazione in comune all’ombra di un grande sogno che era cresciuto e che si era elevato molto al di sopra di tutti. Alcune sette iniziarono a diffondere la seguente idea, che prese rapidamente piede a livello mondiale insieme a un diffuso empito di rinnovamento spirituale e sociale: “Se combatteremo una guerra contro i cani, non ci sarà più motivo di combattere guerre contro gli esseri umani: finalmente saremo liberi dalle guerre, la guerra fratricida diventerà per l’uomo solo un triste ricordo da lasciarsi alle spalle”.
La donna percorse con il fiato corto il vicolo nel buio, pensando che da un momento all’altro avrebbe smesso di respirare per sempre. Non aveva più l’età, il peso eccessivo non aiutava. Sotto il giubbotto imbottito teneva il piccolo cane, stretto fino quasi a strozzarlo. Continuò a sforzarsi almeno di affrettare i passi. La porta che veniva segnalata nei messaggi in codice della Resistenza, trasmessi via radio, doveva essere vicina. Varcata quella, ci sarebbe stata da fare una corsa a perdifiato, un viaggio difficile, ma poi sarebbero arrivati, lei e il piccolo cane, in una parte di mondo libera, magari distrutta e spoglia, ma disponibile per un eventuale nuovo inizio senza più quell’angoscia.
Al termine del vicolo avrebbe dovuto affrontare un viale e alcuni incroci di strade allo scoperto, ma contava sul buio e sulla propria insignificanza, oltre al fatto che il suo cane era talmente piccolo che la protuberanza sotto il giubbotto avrebbe potuto ragionevolmente essere presa per la devastazione fisica del grasso in eccesso. La donna, ansimando, sbucò nel viale e si diresse verso l’incrocio al quale avrebbe dovuto svoltare ma, senza comprendere da dove fossero sbucati, si ritrovò con una camionetta delle ronde alle spalle e d’improvviso udì il brusio di decine di persone.
Un posto di blocco era stato organizzato proprio sulla sua strada. Un manipolo di controllori vestiti di nero, con caschi e passamontagna, armati di pistole elettriche, le urlarono di andare verso il gruppo che era già stato radunato: uomini e donne e ragazzi, con cani di ogni forma e dimensione, che si agitavano all’interno del cerchio di altri controllori con le armi spianate. La donna fu spinta e finì addosso a un ragazzo che stringeva tra le mani il pesante guinzaglio in cuoio di un muscoloso e potente molosso. Il cane tentò di alzarsi sulle zampe posteriori, la donna per un istante vide baluginare i denti micidiali del cane insieme alla brodaglia della saliva: il ragazzo riuscì a trattenere la bestia. Erano stati catturati, avrebbero dovuto subire la perquisizione e il controllo elettronico delle informazioni, incrociate con il Ministero per la Difesa dell’Umano, sulla sterilizzazione obbligatoria e sul pagamento regolare di tasse e multe, dell’assicurazione e del bollo sul cane. La donna si sentì perduta, e con lei sarebbe stato perduto il suo cagnolino.
Fu fatta una retata presso alcuni locali sotterranei e furono spinti nel gruppo molti altri proprietari di cani criminali. Li fecero mettere in fila. I controlli venivano portati avanti con una meticolosità e una lentezza esasperanti, mentre i cani si agitavano fra le gambe dei proprietari e abbaiavano e guaivano, provocando reazioni rabbiose e di disprezzo da parte dei controllori. Intanto albeggiava: il chiarore si spalmò sui muri, li ombreggiò. Le cose riprendevano lentamente l’aspetto tridimensionale; sorgeva l’ennesimo inizio di tutto, o forse l’ennesima continuazione nascosta sotto le vesti di un nuovo inizio, la donna non lo sapeva. Era tutto uguale a sempre, e insieme tutto dissimile. Il ragazzo le diede una leggera gomitata. «Tiralo fuori» le disse, «è meglio che non ti accusino anche di averlo nascosto». La donna ubbidì e aprì il giaccone, ma non posò il cagnolino a terra. Il molosso osservava con occhi attenti i suoi movimenti. «Se te la senti» continuò il ragazzo bisbigliando, «vieni con me». «Dove?» chiese la donna senza capire. Il ragazzo accennò con il mento verso un vicolo che si apriva a poche decine di metri da loro, prima della colonna di persone e cani che attendeva il controllo e prima dell’incrocio sul quale era stato sistemato il posto di blocco. «Ma perché?» si turbò la donna. «Come, perché?» ribatté severo il ragazzo. «Se ti va bene così, allora resta!». Il ragazzo diede uno strattone al suo cane, gli fece un cenno con il mento e dopo aver lanciato un fischio prolungato, acutissimo, diede spintoni a quanti aveva intorno e corse fuori dalla colonna. A quel fischio la maggior parte dei cani iniziò a ululare e ad abbaiare, si agitarono, e i proprietari gridarono per tenerli calmi, mentre i controllori si avventavano su di loro con pistole elettriche e manganelli. La donna allora si mise a spingere anche lei e corse dietro al ragazzo, così come poteva. Ansimando tentava di seguirlo, mentre alle loro spalle si udivano urla, spari e una gran canea.
«Adesso attenzione» disse il ragazzo. Era addossato al muro, nella penombra, e teneva d’occhio un paio di controllori a circa duecento metri da loro. «Ce la faremo?» chiese la donna ansiosa. Il ragazzo fece quel cenno con il mento che aveva fatto al suo cane. «Vai!» urlò, slanciandosi in avanti. La donna lo seguì, sempre arrancando con il cagnolino fra le braccia. Vide che il ragazzo con il molosso stava per tuffarsi nella porta aperta di quello che doveva essere il retro di un immenso centro commerciale. Si trovavano alla periferia sud-est della città, là dove la donna non si era mai avventurata. Il ragazzo fu colpito e cadde. Sicuramente un cecchino appostato in uno degli appartamenti abbandonati degli ultimi piani. La donna lo raggiunse, si chinò per aiutarlo, ma il molosso si avventò su di lei e le afferrò il braccio fra i denti scuotendolo forsennatamente. La donna urlò per il dolore, lasciando cadere il cagnolino. Il molosso lasciò la presa del suo braccio e si gettò all’inseguimento del cagnolino, che si era tuffato nel buio della porta antipanico spalancata del magazzino. Il ragazzo non respirava più. La donna, seduta a terra con le gambe larghe e gli occhi strizzati, si teneva stretto il braccio inerte e respirava affannosamente. Non appena sentì più vicini i passi di corsa e le grida dei controllori, si alzò con grande fatica ed entrò anche lei nel buio del retro del centro commerciale.
I magazzini del centro commerciale erano vasti e vuoti, probabilmente depredati in seguito ai disordini per la guerra dei cani, perlopiù bui, solo alcuni attraversati da lame di luce provenienti da alte finestre a vasistas, e percorsi sui soffitti da fasci di condutture più grosse e più strette che ricordavano il ventre meccanico di una immensa nave. La donna percorreva i corridoi, accedeva a slarghi, cercava a tentoni una luce, proseguiva lamentandosi per il dolore e per l’angoscia di aver perduto il suo cagnolino, che ogni tanto provava a chiamare. Stava in ascolto, le pareva a tratti di udire un abbaiare, un guaire, ma poi nulla, forse li aveva solo immaginati. Le pareva di udire anche voci, passi affrettati, si immaginava di essere inseguita, si diceva Ecco, adesso arrivano, ma nessuno arrivava, nessuno la stava cercando. Non riusciva più a muovere il braccio e il dolore le pulsava per tutto il corpo. Si avventurava sempre più dentro i magazzini del centro commerciale senza riuscire a vedere un’uscita né a rendersi conto se si trovasse sotto il piano della strada o almeno a un primo livello. Lame di luce dalle finestre non ne vedeva più. I neon, quando riusciva ad accenderli, ronzavano aggressivamente, come se dovessero esplodere, ma non esplodevano. Illuminavano corridoi in cemento, vasti spazi sempre in cemento, qualche porta antipanico che la donna trovava sempre bloccata. C’era limatura di cemento ovunque, come il residuo di uno sgretolarsi sottile e costante.
Infine la donna crollò a terra e rimase lì. Pensò che una cosa valesse l’altra, chiuse gli occhi. Si risvegliò per la lingua piccola e umida del suo cagnolino che la leccava, però mentre riprendeva consapevolezza della realtà si rese conto che non c’era nessun cagnolino, era stato solo un sogno. Non ho più nessun cane, si disse la donna. Forse potrei tornare indietro e farmi curare. Rimase a considerare la sua situazione. Mi accoglierebbero? Mi curerebbero? Le avrebbero di sicuro chiesto cosa fosse successo, perché si trovava lì. Avrebbero controllato, avrebbero incrociato quei maledetti dati incancellabili dalle loro banche dati. Le pisciate delle vite di tutti loro, possessori di cani, avevano ormai segnato il territorio in modo indelebile, e in quel territorio adesso non era più possibile rientrare senza essere subito rintracciati, classificati, puniti. Con grande sforzo la donna si tirò su. Decise di non pensare più, di non dirsi più niente, di ripulire la mente dalla limatura delle parole e di affidarsi ai sensi per sopravvivere in quella che ormai era a tutti gli effetti la sua nuova situazione. Forse sarebbe riuscita a raggiungere la porta di cui parlava la Resistenza, e a salvarsi nella parte di mondo che – dicevano – era ancora libera. Ma anche là, l’avrebbero accettata solo in virtù del fatto che un tempo aveva un cane, anche se ora non l’aveva più e dunque era solo, e unicamente, un essere umano compromesso? Non lo sapeva, evidentemente. Mosse qualche passo nei corridoi bui, senza speranza e senza disperazione, prima odorando, poi fiutando i sottili refoli d’aria che provenivano dal fondo.
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Immagine: frame da Valzer con Bashir (Israele, Germania, Francia, 2008) di Ari Folman.