Pendevano sulla testa di F. le accuse di frode e omicidio plurimo quando un giorno di maggio presenziò all’Aula Magna del Tribunale Centrale.
F. era sul banco degli imputati, solo – niente di nuovo: il parlamento si era espresso, appena due mesi prima, in favore del diritto per gli imputati di aggirare la difesa d’ufficio e affrontare la legge da soli. Non aveva fatto altro che agire da solo, tra l’incredulità e la meraviglia e poi l’indignazione degli altri – ora difendersi da solo era più che un diritto, era un imperativo e forse anche, più di ogni altra cosa, un’opportunità commerciale. F. era un guaritore – meglio: un intermediario, prima ancora che un supposto omicida fraudolento.
«Ci dica prima di tutto cosa c’era nella stanza in cui sono state condotte, una per una, le vittime».
È vergognoso, pensò F., che in un ordinamento garantista come il nostro un pubblico ministero osi dire “vittime” quando si è ancora lontani dallo stabilire la natura e lo svolgimento dei fatti. Certo si era in primo grado, chi ha mai dato importanza al verdetto di primo grado? Le cose cambiano, pensò F., e non rispose alla provocazione. Disse: «Non lo so» e aggiunse «non ho mai messo piede in quella stanza». Era la verità, se anche davvero interessava a qualcuno.
Si trattava di un seminterrato nei pressi del porto, in uno dei rari edifici scampati alla foga di rinnovamento che aveva preso l’amministrazione comunale qualche anno prima. Era la fine della crisi, c’era – questo F. lo capiva perfettamente – una volontà precisa di mostrarsi guariti e sani e oltre l’ostacolo. Disse allora, risultando incomprensibile ai più: «Io non ho mai inteso aggirare l’ostacolo, ma afferrarlo per le corna». E non si trattava di una corrida, forse era proprio questo il punto.
«È pazzo» si lasciò scappare uno dei parenti delle vittime. F. non si trattenne, si voltò e disse, lo sguardo fisso sull’uomo anziano che aveva parlato: «Sua figlia era pazza, non io – questo non vuol dire che la sua sorte mi lasci del tutto indifferente.»
«Ci dica per conto di chi ha svolto i suoi traffici».
F. ripeté che non ne era al corrente, che la natura dei suoi affari aveva preso forma in corso d’opera, che i primi clienti erano stati condotti gratuitamente nella stanza, e che solo in un secondo momento aveva realizzato l’opportunità commerciale dell’operazione. Che in ogni caso senza il dolore e la disperazione dei suoi clienti, niente di tutto quello sarebbe mai stato possibile.
Il giudice rise. L’accusa chiese d’intervenire e il giudice smise di ridere e approvò con un gesto della testa. Il pubblico ministero proiettò un video sulla parete liscia alle spalle del giudice, il quale si voltò di 180º – obtorto collo, mentre il fascio di luce azzurra gli sfiorava i capelli lisci appena ingrigiti – per fruire del documento.
Era l’ultima operazione di F., durante la quale il nostro aveva già cominciato a chiedersi se non fosse il caso di abbandonare il settore – glielo si leggeva negli occhi, era la noia o forse il timore di destare sospetti o ancora la fine dell’incantesimo, l’abitudine allo straordinario e all’idiozia che si faceva spazio nella testa di F. al cospetto dell’ennesimo individuo che si prostrava e mendicava una via d’uscita alla sofferenza e poi entrava nella stanza e infine ne veniva fuori sorridente. Si vedeva F. condurre una donna sulla cinquantina, in preda ai singhiozzi, fra le stradine rinnovate del porto fino all’edificio cadente in Via della Rosa dei Venti 12, esitare davanti al portone in un misto di dissimulazione affettata e di fretta che anche questa transazione si risolvesse in un sorriso – del cliente che ha sempre ragione – e nel suo lauto compenso. Scrutandosi sulla parete, grosso e goffo, le scarpe imbrattate di fango, F. pensò che mai più avrebbe dovuto presentarsi a un appuntamento di lavoro con quel trench logoro – pensò che era un segno, che la scelta del soprabito poco prima dell’ultima operazione indicasse che quella fase della sua vita era chiusa e sepolta per sempre. Si vedeva F. aprire la porta dell’unico seminterrato dell’edificio e attendere: ghignava, controllava il telefono a più riprese, respirava profondamente. Per un momento parve che F. fosse sul punto di fare irruzione nella stanza, di scardinare la porta a spallate – invece rimase quieto, la schiena contro la parete, ad attendere il responso. Quando la donna venne fuori dalla stanza – entrò timida e uscì spavalda, ogni traccia del dolore che affliggeva i suoi muscoli facciali faceva ora spazio alla distensione – lo si udì dire: «Spero le sia servito, non avrà una seconda opportunità».
L’accusa, e poi anche il giudice, lessero quest’affermazione come una minaccia – sulla parete dell’Aula Magna del Tribunale Centrale si vedeva ora la mano di F. tesa in avanti per riscuotere.
Come spiegare a quei funzionari che aveva solo raccolto un mazzo di chiavi, una mattina di quattro mesi prima, lasciato da qualcuno sul marciapiede nei pressi del suo appartamento, a due isolati dal porto? Che si era solo lasciato condurre dal primo cliente – la transazione non ebbe luogo e quando in seguito ripensò alle circostanze di quel momento fondatore, gli parve di essersi comportato come uno che distribuisce campioni di profumi all’ingresso di un beauty shop di bassa gamma. Quell’uomo – un giovane in evidente stato di alterazione da sostanze psicotrope – lo aveva agganciato mentre usciva di casa, lo aveva implorato di accompagnarlo dove sapeva lui e di lasciarlo entrare, anche solo cinque minuti, dove sapeva lui, e alla fine F. non si era opposto e l’aveva accompagnato dove sapeva lui. Se sul mazzo di chiavi che aveva raccolto la mattina non ci fosse stato un indirizzo, avrebbe probabilmente scortato il ragazzo al pronto soccorso o al commissariato o ancora al cimitero (dove avrebbe potuto fargli uno scherzo del tipo: ululare il suo nome nascosto dietro una lapide, o anche seppellirlo vivo in una fossa vuota, se l’avesse trovata, o infine abbandonarlo davanti alla tomba di sua madre, se fosse riuscito a convincerlo che quella era la tomba di sua madre) – e invece lo accompagnò in via della Rosa dei Venti 12. Superata la soglia, gli ci vollero cinque tentativi per capire quale chiave aprisse quale porta. Salirono e scesero le scale fino a trovarsi davanti all’uscio del seminterrato. Il giovane s’impuntò: gli rise in faccia, gli intimò di attendere fuori, lo minacciò con un coltello svizzero che cacciò a fatica dal taschino della giacca a vento – F. accettò senza problemi: venire alle mani con un tossico era l’ultima cosa che intendeva fare quella notte di inizio gennaio. Il giovane uscì dopo qualche minuto – era come se avesse parlato con dio: un’estasi nell’espressione, come se avesse appena assolto un bisogno impellente o si fosse scaricato dal peso più ingombrante della sua breve vita. Il dolore e le soglie di sopportazione, pensò F., ma non disse niente di tutto questo al pubblico ministero né tantomeno al giudice.
L’accusa disse: «Abbiamo tracciato le transazioni che ha operato negli ultimi quattro mesi. Tutti i suoi clienti, senza eccezioni e per un totale di 46, sono morti pochi giorni dopo averla incontrata ed essere stati condotti nella stanza».
F. fece una smorfia di disgusto. Il pubblico ministero riprese: «Non riteniamo che lei abbia compiuto gli omicidi, ma conveniamo che lei abbia concorso alla loro effettuazione».
Come uno spacciatore serio, F. non confuse dovere e piacere – non aprì mai quella porta. Si concesse ancora due prove prima di cominciare a monetizzare, prove il cui esito positivo convinse F. a fare ingresso nel business degli intermediari-guaritori. Prese a setacciare il mondo off-line e quello on-line: cominciò entro le mura della città, nelle sale d’attesa di medici generalisti e sull’uscio di psicanalisti e psichiatri, nelle erboristerie e nei negozi di prodotti biologici, nei giardini pubblici e nelle biblioteche comunali; poi si spinse ai confini del paese, nei forum di vegani e bio-centristi, nei gruppi anti-vaccini e in quelli anti-natalisti (chi ha detto che gli opposti debbano per davvero opporsi?) e sulle pagine social dei blog letterari; infine si fece un nome e prese a ricevere richieste, una settimana prima dell’arresto, dagli angoli più remoti dello spazio Schengen. Cercava individui afflitti da manie di persecuzione, da disturbi ossessivo-compulsivi, da bulimia e anoressia, e ancora bipolari, impotenti, ansiopatici, sterili, malinconici, infelici e disperati di ogni tipo e persino poeti (uno solo, a dire il vero, un francese – non è detto che non sia stato proprio lui a cantare alla polizia, prima di cantare per l’ultima volta nel bagno del suo striminzito appartamento in città). In ogni caso, ognuno dei clienti poteva entrare nel seminterrato una volta sola: questa era la seconda regola che si era imposto.
«Ci dica cosa sapeva di questi individui».
«Non mi crederanno ma la sorte dei miei clienti, a eccezione dei pochi secondi che precedevano il regolamento della prestazione, mi era indifferente. Ora è diverso: fino al momento del mio arresto, non avevo idea che fossero tutti morti».
«Si spieghi».
F. si sforzò di trovare le parole adeguate. Disse: «Questi individui venivano da me – solo in seguito li avvicinavo io stesso, direi 55%-45% a partire dal terzo mese – in cerca di sollievo e consolazione e io, senza capire precisamente attraverso quali logiche e quali forze, ma sapendo precisamente come, li accontentavo».
«Sta dicendo che se avesse saputo allora che visitare la stanza avrebbe portato i suoi clienti alla morte, non avrebbe fatto quello che ha fatto?».
«Voglio dire che lucrare sul dolore e l’idiozia degli altri è un must per un uomo d’affari».
Interruppe le grida d’indignazione e gli insulti delle famiglie delle vittime dicendo, in modo pacato ma udibile: «È errato porre adesso la questione morale – io di sicuro non me la sono posta, né ho intenzione di farlo ora. Più interessante sarebbe capire per quale motivo – in pochi tra voi mi crederanno, ma è così – poco prima dell’arresto avessi deciso di farla finita con questa attività».
«Lei si è pentito ma non vuole ammetterlo. Ha forse vergogna di mostrare le sue debolezze, come hanno fatto le vittime dei suoi traffici – di mostrarsi umano?»
«No, Vostro Onore, non si lasci confondere: io scoppio di salute».
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In copertina: Pietro Perugino, Prudenza e Giustizia sopra sei savi antichi, 1496-1500, particolare, Collegio del Cambio: Sala d’Udienza, Perugia, edizione Fratelli Alinari, Firenze, 1941.