Il 14 ottobre 1931 Roberto Arlt (Buenos Aires, 1900 – 1942) scrisse un interessante articolo sulle tecniche di composizione di un romanzo nella rubrica “Aguafuertes porteñas”, per il giornale El Mundo, presso cui lavorava. Una rubrica che gli servì a guadagnarsi la fama di ottimo giornalista, procacciatore di ipocrisie e ingiustizie della Buenos Aires degli anni Trenta, signora perbene e anche inguaribile puttana.
Tra le righe di quest’articolo si avverte la personalità complessa di un autore misterioso quanto diretto, sia nell’espressione scritta, sia nella vita libera che Arlt condusse. Una personalità che gli costerà non pochi attriti con la cricca ufficiale dell’epoca. Arlt era un ribelle, uno che si inventava di tutto pur di non farsi appendere come un vestito gessato alle stampelle dei circoli letterari, dove ancora oggi regnano le poesie del “maestro cieco” Luis Borges (Buenos Aires 1899 – Ginevra 1986) con belle grafie ricercate e dal significato quasi criptato, per pochi eletti.
Prima di pubblicare i suoi capolavori, I sette pazzi e I lanciafiamme, Arlt si occupava di cronaca nera, attività che gli diede la chance di immergersi in casi reali ed esplorare ambienti popolati da assassini, ladri, prostitute e magnaccia che ispireranno i suoi personaggi più riusciti, nella loro surreale veridicità, come il Ruffiano malinconico, la Cieguita o l’Astronomo, a conferma del fatto che la bellezza di un’opera letteraria risiede proprio in quella sottile e ambigua linea di confine con il reale, mentre il lettore si chiede interdetto: ma è successo davvero? Sono persone realmente esistite? Domande alle quali nessuno troverà risposte esaustive, nella misura in cui tutto può essere il contrario di tutto e a volte neanche l’autore è capace di riconoscere gli incerti confini lungo i quali vive e lavora. Perché i personaggi più belli, sembrano simili ad amici che abbiamo amato e che ci hanno fatto compagnia nello spazio indefinibile della lettura, ci riservano sempre sorprese simili agli esseri umani. Arlt stesso ne è convinto, quando dichiara:
Nel romanziere istintivo, i personaggi ci sorprendono come le persone reali.
Arlt era agli antipodi del più raffinato Borges, benché frequentassero gli stessi locali (ma in orari diversi) senza sapere che un giorno le loro pareti avrebbero sfoggiato fotografie in cornici d’oro del grande padre indiscusso della letteratura argentina e dimenticato lo scrittore e giornalista di strada, quello che si aggirava nei sobborghi alla ricerca di odori e lingue vere, da sperimentare di continuo, e che non si sarebbe mai sognato di farsi incorniciare in alcun modo.
Sorpreso alle nove del mattino dal caporedattore, sommerso dai ritagli e dalle innumerevoli annotazioni sparse sulla scrivania, con una barba di sette giorni, Arlt è costretto ad ammettere:
Sto ultimando il mio romanzo capo, I Lanciafiamme. Esce il trenta di questo mese.
Il caporedattore allora gli chiede di scriverci su un articolo. Di rivelare, insomma, i suoi segreti ai lettori del giornale. Fosse cosa facile! Sembra quasi che Arlt finga di scrivere e dica tra le righe che in realtà soltanto chi ha davvero qualcosa da raccontare sarà in grado di scrivere – tecniche di composizione a parte.
Erano i tempi della carta e della colla; l’idea di uno schermo su cui si potessero rimaneggiare infinite volte gli stessi brani senza imbrattare la scrivania in un lavoro quasi più fisico che mentale, era surreale. Eppure già esistevano certe esigenze stilistiche e di ritmo, di respiro, che oggi colmiamo con il pc. Arlt, precursore della funzione “copia e incolla”, scrive a tal proposito:
Finito il grosso del romanzo, ovvero dopo aver detto l’essenziale, l’autore che lavora disordinatamente, come faccio io, deve vedersela, con pazienza benedettina, con un caos di carte esorbitante, ritagli, appunti, sottolineature con matite rosse e blu. Ed è allora che inizia il lavoro della forbice. Queste venti righe della parte 3 sono di troppo; nel capitolo numero 5 manca azione; il 2 è povero di descrizioni ed è troppo lungo; il 6 invece è stracarico…
Nell’articolo Arlt si apre ancora una volta, come è abituato a fare nei suoi romanzi, e rivela i tratti inconfondibili di chi lavora con tutta la passione che ha in corpo a un progetto complesso, che, alla fine delle chiacchiere , si porta avanti in solitudine con la reiterata forza della propria ostinazione e un’istintiva fiducia in sé stessi, perennemente e fortunatamente messe in discussione. Alcuni autori sono più razionali e non confondono i due momenti, quello della creazione con quello meno poetico della revisione. Ma per tutti vale la stessa regola: qualunque sia la tecnica, la creazione dei personaggi ha inizio in un piano immaginifico, che occupa soltanto una piccola parte della nostra mente, prima di servirsi di tutto il resto. Ricordi, voci, emozioni, eccetera. I personaggi, pertanto, come dice Arlt, intervengono nell’azione a un certo punto di questo processo, ma non ne rappresentano il principio.
Quando l’autore inizia il suo lavoro, i personaggi sono già pressoché modellati. Vale a dire, si sono già andati formando in un tempo più o meno lungo nella sua immaginazione.
Roberto Arlt era, per sua definizione, un narratore disordinato, pur sang. Questa specie di gioco, un pezzo nato per caso una mattina in redazione, diventerà la sua testimonianza più sincera su come lui affrontava un’attività divina e maledetta. Divina, perché la sensazione di creare è sempre un po’ divina, nell’accezione ridicola del termine: creatori da un lato e credenti dall’altro, sono gli stessi autori, benché i finti modesti dichiarino il contrario. E un’attività maledetta perché, se la porti avanti con una tale abnegazione, entrerai in un vicolo senza uscita, quasi putrido come quelli che lui descriveva ne I sette pazzi, in quelle scene in cui Erdosain, scienziato o disgraziato, cerca uno spiraglio di luce tra le sue angosce, le stesse che non risparmieranno nessuno dei personaggi arlteriani, venuti al mondo non per colpa loro e coscienti della loro fine, sempre più vicina, lenta e inevitabile.