Etere Divino, Giuseppe Genna e Andrea Gentile, Il Saggiatore, 2015
Cominciò ch’era finita. Cos’è questo libro?
“Da subito era quello che era, cioè quello che era.” (Etere Divino, posizione 12 ebook)
Per farla breve, potrei dire che Etere Divino è una cosmogonia picaresca, e che Etere Divino, il suo – se così si può dire – personaggio, è la radiazione cosmica di fondo versione flâneur.
E perché, poi, farla breve?
Noi non rappresentiamo. Non sequitur e tertium datur a valanga, come un ritmo e un canto più che un discorso, a sfondare il principio di ragione. A differenza di Inland Empire, la quasi totale sottrazione dell’elemento narrativo in favore del metodo mitico: Metonimia, dea crudele e succosa (nonché ironica), così comanda.
Alfredino. La quasi totale sottrazione dell’elemento narrativo: torna, qui, Alfredino Rampi, il bambino morto affogato nel fango in un pozzo artesiano nelle campagne del Lazio nel 1981, già chiave di volta in Dies Irae di Genna. Torna, qui, e più che personaggio è mitologema. Etere Divino, infatti, se si può dire sia qualcuno, è un bambino:
“Tutti i bambini erano Etere Divino anche se non lo sapevano.” (pos. 412)
“Agli Etere Divino, ai bambinetti, non aggrada il gran rumore ma solo il bello e lo stupore.” (pos. 630)
È ogni bambino (anche Nivasio Dolcemare nella sua infanzia).
Da ilare a tragico/1. All’inizio – se così si può dire – Etere Divino
“era un lepido come non mai, le personalità dovevano ancora esserci ed esistere durava la fatica, la tonitruante fatica.” (pos. 11)
È la morte il momento – il tema – di passaggio da ilare a tragico. Dice Artaud al proposito:
“Ora, lo ripeto, il Bardo è la morte, e la morte non è che uno stato di magia nera che non esisteva fino a non molto tempo fa.” (“Alienazione e magia nera”, in Artaud le Mômo, Einaudi, 2003)
Artaud le mômo, voglio dire, il marmocchio bambino.
Il metodo mitico. La sottrazione dell’elemento narrativo attraverso lo stravolgimento delle sue categorie di base: come in Moresco, il tempo è primadopo. Di più: se salta tutto, la prima a saltare (a ballare) è la lingua.
Dice Genna a proposito di Liberal di Paolo Sortino:
“il libro di Sortino ripristina un movimento, che è quello tutto della prosa italiana, e in ispecie della prosa italiana negli ultimi due decenni: il movimento che dalla prosa va verso la poesia e che dalla poesia va verso l’inqualificato.
[…]L’italiana è lingua poetica? Lo è per natura, è preternaturalmente così. Il destino, da sempre, della narrazione italiana, in quanto è il destino della lingua italiana da sempre, è questo tintinnio che il Novecento mondiale ha conosciuto con Walser, Kafka, Beckett, Eliot, Wallace Stevens, Celan e molti altri.”
Etere Divino si muove con decisione nella direzione indicata da Genna. Le scelte di registro (le varianti desuete, i neologismi o devianze), inoltre, come vettori di umorismo e parodia.
Da ilare a tragico/2. Alle feste antiche, tra il comico e il tragico, il dramma satiresco. La sua chiave: la parodia di episodi mitici. Remake e parodia in Etere Divino: per dirne una, in mezzo al testo, spaccatura o svincolo tra ilare e tragico, una parodia di Dante. Etere Divino il satiro.
La lingua e la patria. A morte la corrispondenza – l’equivalenza – italiano=Arno. Vige la devianza: squartamento del linguaggio e disarticolazione del discorso. L’unica voce italiana che accompagna e dà forma, come un metodo, a Etere Divino, è quella nasale e metallica di Carmelo Bene (un metodo già all’opera, in parte, in L’impero familiare delle tenebre future di Gentile).
Può questo testo sfondato diventare emblema, simbolo o traino per quel movimento che, nella narrazione italiana, “dalla prosa va verso la poesia e che dalla poesia va verso l’inqualificato”? Non lo so, forse, si vedrà. Intanto dico: leggetelo, lasciatevi cogliere dalla metonimia.
Ch’era finita. Viene la morte – eppure, quando viene, svicola, sfugge, procrastina:
“Già molto, molto è potere morire.” (pos. 1477)
La morte stessa è secondaria, comprimaria. La verità è un’altra, ed è patente – aperta, sfondata: circola e stop.
“Date a Etere Divino quel ch’è di Etere Divino e lui vi porta nell’eterico intuire che vale nemmeno un ninnolo dormire o vivere, era lo stesso. Povero Etere Divino che su di sé non porta peso del mondo o chiacchiera filosofa: lui è e stop, è stop e così sia, villani, immondi, inzigatori del sospetto che vivere sia bello o brutto quando è e basta e stop.” (pos. 1218)
Alfredo: grazie. E’ una ricezione totale, anche se rifletto sulla questione metonimica. E’ un perno fondamentale del libro, l’abbattimento della referenza e dell’algoritmo, quindi l’annichilamento della retorica come analogia, come grande metonimia. Non c’è più parte, c’è solo tutto ed è il tutto considerato come ciò in cui siamo immersi. Per questo la lingua, come dici, balla, trasecola, di secolo in secolo, danzando sull’orlo dell’annullamento, dell’autotrascendimento, dell’andare via, andare via, “potrammo” dirne altre, di cose, ma le cose non ci sono più, ci sono le immersioni e poi nemmeno più quelle, poiché è solo immersivo, non c’è più un fuori. Questo, l’intento. Non è detto che si sia riusciti a fare letteratura. Però consideriamo assoluta la nostra precarietà, altrimenti non parliamo più di nulla, il che è ulteriore estromissione di noi stessi da noi stessi, ulteriore immersione…
Grazie a te Giuseppe, per il libro – potentissimo – e per i commenti. Sono cosciente di usare spesso il termine metonimia in modo improprio. Ecco cosa intendo: il motore del ribaltamento, dello sfondamento – in ultima analisi, del “delirio”. Penso ci siate riusciti alla grande.
Edit: Metonimia come motore del “siluramento dell’idea”, “agente dadaista”