«Ci sono paesi che sanno di disgrazia. Si riconoscono aspirando un po’ della loro aria vecchia e intorpidita, povera e magra come tutto quello che è vecchio. Questo è uno di quei paesi, Susana.
Là, da dove veniamo adesso, almeno ti distraevi a guardare la nascita delle cose: nubi e uccelli, il muschio, ti ricordi? Qui invece non sentirai che quell’odore giallo e acido che sembra filtrare da tutte le parti. È che questo è un paese disgraziato: unto dalla sventura.» (Juan Rulfo, Pedro Páramo, Einaudi, 2004, p. 94)
Così Bartolomé San Juan parla a sua figlia Susana di Comala, il luogo di voci tra la vita e la morte in cui è principalmente ambientato Pedro Páramo, primo romanzo di Juan Rulfo.
È importante, questo autore dal talento luminoso, essendo egli un po’ il padre della forma che assume la narrazione nel Márquez di Cent’anni di Solitudine, quel realismo magico fatto di territori dell’archetipo famigliare divenuto parola e della figura retorica divenuta agente vivo della storia, la cui indagine morfologica è uno degli scopi di questo articolo.
In effetti il testo seguente nasce dal tentativo di rispondere alle domande (domande i cui presupposti, è bene annunciarlo, sono sul confine tra la speculazione e il divertissement): che forma ha il realismo magico, c’è un modo di rappresentarlo? Ma prima di tutto: ha senso ed è possibile stabilire una relazione – quindi un legame, chiaramente meglio se univoco – tra una forma, cioè un oggetto geometrico osservabile, e una categoria, cioè una corrente letteraria?
Cominciamo con il notare subito le affinità che approssimano i concetti dietro a questi due sintagmi; per non morire appresso a cavilli e sofisticatezze che rischierebbero di far ammuffire l’articolista e uccidere di noia il lettore (e non portare da nessuna parte data la natura di questo esercizio) procederemo come è d’uso fare nella fisica, considerando cioè per semplicità le mucche sferiche o puntiformi: una corrente letteraria può essere vista come un contenitore di regole, regole estetiche, regole riguardanti le aree semantiche di pertinenza, regole riguardanti gli argomenti e i temi, insomma, tutta una serie di presupposti che circoscrivono l’appartenenza alla corrente a tutte le opere che soddisfano le tali o le tal altre regole.
In questo abbiamo già una forte analogia: infatti una forma geometrica altro non è che un insieme di punti che rispettano un certo numero di regole (tutti i punti tali che la loro distanza dal centro sia esattamente di tre centimetri: una sfera di tre centimetri) e quindi, a sua volta, un contenitore di regole anch’essa. Certo, un’obiezione – più di altre – si può muovere a questo paragone, e si tratta di un’obiezione evidente: ovvero che se le regole che determinano l’appartenenza a una corrente letteraria si sviluppano su vari piani, piani che non si incrociano assolutamente date le loro nature diversissime, lo stesso non si può dire delle regole che identificano una forma geometrica; queste ultime sono infatti regole che appartengono tutte non solo allo stesso spazio, senza possibilità di scampo, ma anche a due sole direzioni ortogonali possibili: in buona sostanza su una superficie come quella della terra hai quattro parametri, i quattro punti cardinali, ma a una corrente ne servono di più.
Ecco allora che ci viene in aiuto una costruzione matematica che generalizza, e amplifica il concetto di figura geometrica quale contenitore: si tratta della varietà differenziabile, un oggetto che può essere immaginato come un collage di più spazi di natura simile, attaccati tra loro con una certa continuità e abilità nelle suture; più spazi, quindi, che andando a vedere da vicino sembrano spazi come quelli di prima, ma che tutti insieme formano una figura a più dimensioni, e quindi possono essere utilizzati per stendere un numero di regole potenzialmente infinito, assegnando ad ogni regola una sua area di collocazione specifica.
Oltre ad essere quello che cercavamo perché il paragone potesse reggere, è anche ciò che ci permette di fare un altro passo in avanti nel ragionamento: questa è infatti una delle costruzioni fondamentali della meccanica analitica, una disciplina che si occupa dello studio di modelli matematici che teorizzino il moto di corpi vincolati da un determinato numero di restrizioni, di regole; sempre ricorrendo alle nostre care mucche sferiche, gli elementi fondamentali di cui la meccanica analitica si serve sono: queste varietà differenziabili, che hanno una loro forma intimamente influenzata dal numero e dal tipo di vincoli del sistema in esame, e le traiettorie; ebbene, per quanto riguarda le traiettorie esse sono i percorsi che il corpo vincolato a muoversi nello spazio della varietà differenziabile segue, sono linee disegnate sulla figura geometrica che rappresentano la storia dell’evoluzione dello specifico corpo che abbiamo deciso di studiare, all’interno del contenitore che lo racchiude.
È facile quindi accorgersi dell’equivalenza, nell’ambito della similitudine, tra le possibili traiettorie e i possibili intrecci che rispettano i vincoli di una corrente letteraria, vincoli che comunque – è bene specificare anche questo – l’autore crede essere in buona parte arbitrari con qualche “eccezione sperimentale”.
Possiamo ricapitolare dicendo che, se c’è un modo di stabilire una forma per una certa corrente letteraria, di certo la corrente è simile a una figura geometrica sulla quale tutte le possibili storie possono essere tracciate come linee, essa è lo spazio nel quale i singoli elementi, le opere letterarie – che sono vincolati nell’appartenergli – si muovono.
Tutto questo, tuttavia, se in parte soddisfa il quesito sulla possibilità di una relazione non risponde alla domanda: che varietà differenziabile è, che vincoli possiede, che forma ha il realismo magico?
Partendo dall’analisi dei due romanzi sopra citati, Pedro Páramo e Cent’anni di Solitudine, vi spiego perché non è un esercizio di retorica affermare che il realismo magico ha la “forma” e le proprietà di un blocco di ghiaccio.
Cominciamo con il dire che un raggio di luce bianca, come forse è noto ai più, è un insieme contenente la maggior parte dello spettro elettromagnetico del visibile, ovvero è un fascio di raggi, in realtà, raggi che vanno dal viola al rosso, sono rappresentanti quindi di tutto lo spettro del visibile. Secondo il fenomeno fisico denominato rifrazione, il raggio di luce si comporta, al passaggio da un mezzo a un altro, come se fosse spezzato da un colpo secco nel punto del passaggio: in parole povere devia il proprio andamento, e l’angolo che quantifica l’ampiezza della deviazione dipende dal mezzo ma anche, in seconda approssimazione, dalle proprietà specifiche del raggio.
Immaginiamo quindi di far passare un insieme di raggi con proprietà diverse – è il caso della luce bianca – in un blocco di ghiaccio: otterremo l’arcobaleno, ovvero una rifrazione che varia a seconda del colore e quindi, invece di un solo raggio che prosegue per la sua strada, un fascio di raggi colorati ognuno diretto in una direzione a sé.
Ora, prendiamo Pedro Páramo: in questo romanzo il protagonista Juan Preciado va a far visita alla cittadina di Comala con l’intento di cercare suo padre. Scopre presto, però, che Comala è un luogo abitato da voci ed emanazioni di quelli che una volta furono i suoi abitanti, un luogo dove la rivendicazione di una giustizia mai soddisfatta per tutti i crimini commessi dal “padre di tutti”, Pedro Páramo, porta in superficie i morti e – suppurandoli in una forma fantasmatica – li fa tornare in vita.
«Tutti prendono la stessa strada. Tutti se ne vanno.» Dice Pedro Páramo a un certo punto, e da una parte è vero; o lo sarebbe se non avvenisse – alla morte – uno sdoppiamento, una separazione che evidenzia quello che nel realismo rimarrebbe sotterraneo, ciò che sarebbe – nell’aria secca, fuori dal ghiaccio – solo una delle componenti di un’intensa luce bianca: il lato sommerso, quello della rivendicazione nascosta, il corpo martoriato che ha bisogno di raccontare – perché resta la speranza che la memoria sia una forma di eterna vendetta, e non a caso in punto di morte sua madre dice a Juan Preciado: vai a cercare tuo padre, lei che lo odia! – uno spazio dove, nel momento della morte, si può dire parlando della propria anima: «[…] Aprii la bocca perché se ne andasse. E se ne andò. Lo capii quando nelle mie mani cadde il filino di sangue con cui era legata al mio cuore». Uno spazio dove può esistere, e vivere, e respirare, ed essere data in sposa a Pedro Páramo, Susana, che è un simbolo: la coscienza pulita, e ormai folle, irraggiungibile, distante di Pedro, la sua anima di bambino, che ormai è perduta per sempre.
La varietà del realismo magico è quindi un luogo dove l’anima e il corpo sono collegati tramite un filino di sangue attaccato al cuore ma possono subire dal momento all’altro una separazione, un luogo che evidenzia i conflitti e le rappresentazioni dell’inconscio – individuale o collettivo – per rifrazione: per questo ci sembra più che in altri ambienti che coesistano in esso realtà e magia, perché li vediamo, tangibili, con colori diversi, procedere seguendo le direzioni del racconto senza che l’una sia occultata dall’altra, senza che siano tanto vicine da lasciarsi osservare solamente in quanto luce bianca.
È amplificato di molte volte, questo procedimento, in Cent’anni di solitudine, dove Macondo – il paese fondato dal patriarca José Arcadio Buendía – funge da cristallo prismatico per la dispersione ottica; è forse il blocco di ghiaccio che il colonnello Aureliano ricorderà davanti al plotone di esecuzione, Macondo, attraverso cui l’informazione viene spezzettata, separata e assume una consistenza più ampia che in Rulfo, la cui lezione Márquez sembra d’altronde aver assimilato e portato alle estreme conseguenze.
In questo romanzo – dove a tratti le cose sembrano esistere da sempre – le pulsioni nascoste o inconsce, le rappresentazioni di un immaginario primitivo e collettivo, quelle famigliari, e quelle dello spirito politico e nazionale hanno quattro linee di colore – ognuna la sua – nette, evidenti, che leggermente divelte dal resto coesistono, proprio come in un arcobaleno.
È importante notare come questo sistema non perda mai coerenza né possa mai scadere in un possibilismo pericoloso: il simbolo che si fa agente della storia non è mai, infatti, inessenziale; è solo il colore derivante dalla scelta estetica di presentare un’informazione realista in un altro ambiente, che ne deforma i connotati senza però cambiarne la natura: tutto quello che appare in Cent’anni di solitudine esiste anche nel nostro mondo, solo in una forma differente da quella in cui lo vediamo in Márquez.
Questo per quanto riguarda la varietà differenziabile, l’ambiente di sviluppo della storia: si può concludere che i due esponenti del realismo magico si muovono in uno spazio congruente, e questo spazio è il luogo più che geometrico, il luogo fisico che può essere messo in corrispondenza al contenitore “realismo magico”. Si è prima fatta menzione però anche alle traiettorie, gli intrecci possibili, i percorsi che i singoli punti – le opere letterarie contenute nella corrente – disegnano in essa. Emergono qui le più evidenti differenze tra Cent’anni di solitudine e Pedro Páramo, nei modi di attraversamento del blocco di ghiaccio che si è visualizzato.
Il primo nodo da svolgere riguarda la natura di questi cammini: se entrambe le storie hanno avuto infatti come termine di paragone un fascio luminoso ci si potrebbe chiedere infatti su cosa esse differiscano; una cosa è certa: non sull’andamento complessivo. In Márquez come in Rulfo si finisce sottoterra, in Márquez come in Rulfo la storia ha dei varchi definiti, un tempo chiaro al netto delle sovrapposizioni magiche, che sono però – per l’appunto – sovrannaturali, incastrate quindi in un tempo differente da quello che a loro dovrebbe appartenere, e soprattutto: in Márquez come in Rulfo resiste la dinamica dei nessi causali, non si approda mai in una logica differente, non si incappa mai in eccessivi spostamenti di senso, è bene sottolinearlo: il realismo magico è uno specchio del realismo, punto.
La distanza tra le due opere, però, c’è ed è sostanziale: insita nella natura stessa delle due concezioni, nella natura stessa della speculazione che viene condotta, questa distanza è congruente a quella che esiste tra una luce supposta corpuscolare e una luce supposta come fenomeno ondulatorio.
Basti pensare alla ricorsività della drammaturgia negli esponenti della famiglia Buendía che tante volte a Ursula – la longeva matriarca – fa gridare alla circolarità della storia della famiglia; non deve essere intesa, questa circolarità, come una circolarità di percorso: la storia infatti incede, le generazioni si avvicendano, Macondo evolve e si ammoderna, spariscono gli zingari, altri ne approdano in città; la tecnologia arriva e se ne va, tutto va avanti, tranne la ricorsiva solitudine alla quale i membri della famiglia sono destinati. A ben pensarci, stiamo parlando di un fenomeno assimilabile a quello della polarizzazione circolare di un’onda: se campo elettrico e campo magnetico – gli oggetti fisici che compongono la luce in quanto onda – sono in fase tra loro, le oscillazioni di queste entità fanno ruotare in tondo la direzione dell’oscillazione dell’onda di luce: questo significa che, nell’andare avanti, ogni volta l’onda compie un giro completo e torna al punto di partenza, che è un po’ quello che succede alla genealogia della famiglia Buendía.
Al contrario, analizzando la natura della fabula in Pedro Páramo, sussiste in esso un fenomeno corpuscolare che può somigliare, ad esempio, a un effetto fotoelettrico: è come se la storia passata lasci un solco nel territorio del racconto, come se la sua concretezza abbia aperto fisicamente lo spazio per le presenze fantasmatiche; c’è un preciso rapporto causale, un meccanismo ad incendio dietro questa accensione del magico che in Cent’anni di solitudine non sussiste perché l’intima essenza della materia narrativa è differente, e si costruisce – in uno spazio simile – le cose alla propria maniera: con una onnipresente, martellante micro-drammaturgia (non a caso il modo in cui sul libro si è espresso Pasolini).
Non è improbabile chiedersi, a questo punto, se di queste due nature sia stata fatta una sintesi: che sarebbe assimilabile alla sintesi che è – in fondo – la meccanica quantistica; per rimanere nell’ambito della letteratura sudamericana un titolo su tutti è I Detective Selvaggi di Roberto Bolaño.
Qui cambiano completamente le condizioni, ma anche la natura dello spazio al quale ci riferiamo: innanzitutto assistiamo a una discretizzazione – o quantizzazione – che l’autore tenta di rendere con la scelta di mettere in piedi – nella seconda parte del libro – un vero e proprio raccoglitore di punti di vista, che separano – e così evidenziano – lo scorrere del tempo della storia. In uno spazio di questo tipo accorpa poi i due modi di esistere della luce: un’onda, una funzione di probabilità come lo è questo senso di incompiutezza perenne che sembra pervadere ogni singolo personaggio prenda la parola nel corso dei Detective Selvaggi, che la necessità di specificare – tradotta nella speranza di raggiungere una risposta concreta – fa collassare e poi scomparire: come nell’evento tragico della scomparsa di Cesárea Tinajero, che taglia le gambe alla speranza di ottenere una risposta definitiva, o quantomeno una risposta misurabile, perché noi siamo fatti di materia simile a quella della luce e quando la provi a toccare l’onda che è la luce collassa in una particella e poi sparisce per sempre.