Quando Claudia tornò a Buenos Aires per dare alla luce Dalma capii cosa significava essere nervoso. Ma quella notte, la notte prima della finale contro la Germania Ovest [Argentina-Germania Ovest, 29 giugno 1986], non riuscivo a dormire. Non mi era mai capitato prima, e non mi sarebbe più successo dopo: il calcio non mi ha mai creato nervosismo… Perché mai avrei dovuto essere nervoso se io sapevo sempre quello che dovevo fare? Il calcio è facile: o tu dribbli l’avversario oppure l’avversario ti porta via la palla. E trent’anni fa ero convinto che non ci fosse un solo avversario in grado di togliermi il pallone.
Malgrado tutto non riuscivo a dormire. Non c’era verso…
Mi giravo e rigiravo nel letto, io e Pedro [Pasculli] ci guardavamo e uscivamo a camminare. Uscivamo e incontravamo Valdano, anche lui come noi, lì nell’«Isola», dove l’unico che dormiva come un angioletto era Trebbiani. Che stronzo! Come facesse a dormire non l’ho mai capito.
Valdano, che era bravo a trovare le parole giuste, diceva che era la paura, el miedo. Lui chiamava miedo escénico quella cosa che non ci lasciava dormire. Ma io non avevo paura. Io volevo che la partita iniziasse subito, immediatamente, il più presto possibile. Non volevo logorarmi nell’attesa. O stancarmi camminando avanti e indietro. Avevamo aspettato tanto quel momento, avevamo lottato tanto per arrivare fino a lì… No, non era paura di perdere. Era paura che il momento di giocare non arrivasse mai. Almeno per me.
(La mano di Dio. Messico ’86. Storia della mia vittoria più grande, trad. it. di Sara Cavarero e Pierpaolo Marchetti, Milano, Mondadori, 2016, p. 174)