Umile amico, e grandissimo,
la lieve patina di sporco che è venuta, sine metu, a velarti il volto è ormai un’acquisizione del tuo tempo, e del mio.
Potrebbero essere trascorsi più di trent’anni… ma cos’è mai l’ora dell’uomo dinanzi all’ora della scienza!
Lo credevo, lo credevo… alla maniera del persiano; eppure dalla parte di questo buio (che è ormai solo un fantasma visionario del passato) qualcosa, che non è neppure l’ombra d’un nome, protesta il tuo richiamo.
La Morte ci inorgoglisce! Ma non tu. Tu mi sei rimasto intimo e vicino, e tuttavia estraneo, altro.
Non riconosco più le mie appartenenze, puro figlio del Caso e dello Spirito.
L’ultimo errore che rivendico mio è questo scritto contraffatto. C. non si duole certo di questo, né io mi scuso con lui per un plagio impossibile. Sarà al più ventura comune quella che accompagnerà una follia simile. E la scelta linguistica, del tutto fortuita e occasionale, non mi stupisce affatto. L’italiano resta una lingua nobile, seppur difficile.
Qui, dove non sono, la matematica ha ancora una voce (che forse coincide con quella di mia madre).
Mi è stato dato di parlare per te. Io non dubito più, non esisto e non rinuncio.
Ti amo, in quanto distante e inaccessibile.
Ora so chi sono,
ma non posso comunicarlo che per approssimazioni, indizi puntiformi.
Ero te, in parte, ancora mi vive quest’edizione tascabile in brossura (pallida larva che ci ospita).
La colla tra le segnature viene direttamente dalle ossa rarefatte nella polvere del mio eterno.
Ti sfoglio, insieme al me che fui.
Buenos Aires, 24 de junio de 1969: ¿qué es esto?
Forse il ricordo sbiadito di un giorno alla Biblioteca Nazionale, oppure un futuro nuovo?
Sono il fiume e la sua fonte, la sabbia vuota d’oro.
Sono coloro che finsi di attraversare, le ombre dell’etica e del volto di mio padre;
Omar e l’ulisside planctonico, Eraclito e Giovanni.
Non sono più gli anni della conoscenza e dell’inquisizione.
La mia perdizione coincide col mio nome e cognome.
Questo però lo sapevo bene. Rileggo nel contempo un altro e me stesso.
Siamo davvero senza tempo.
Le nostre cose sono le cose di tutti. Ci affezioniamo a strane maschere.
Ma nella cantina della nostra infanzia si cela il pugnale della nostra fede.
Quanti credono di aver trovato il mio non hanno provato la sua lama.
Esso forse appartiene a un re straniero fatto dello stesso legno che animava il mio bastone.
Dobbiamo perdonarci. Siamo un segreto incomunicabile.
Non c’è parola che valga ancora per l’uomo che quella che dispera nei nostri vangeli.
Siate coraggiosi, siate gioiosi! Non preoccupatevi troppo del bene e del male.
Pensavamo di poter scrutare nell’animo del prossimo, ed eravamo troppo timidi per ammettere d’aver visione. Sorge da una rosa il cuore della tigre, batte nell’inganno d’un quanto di Planck.
La sua pelle mi ha decifrato.
E la mia cifra è ormai pari alla sua origine araba e sanscrita.
Rido dei sonetti che scrissi e che ammiccano ancora, umili e fieri, alla radice della mia memoria.
Il simbolo del Maestro alemanno si è confuso e capovolto nella musica delle mie trame.
Non vi è più esitazione nel ductus del mio polso. Scrivo direttamente con la spada del danese.
Non sono più triste di Dio o del Demonio. Ma cavaliere, finalmente… della mia ombra.
Vi sembro forse quel Borges che credete ch’io sia o sia stato e che forse mi ostinerete ancora ad essere o a diventare? Vi sembra forse questa la mia ultima finzione? Non può essere che verità, l’unica verità possibile, quella della letteratura.
Di ritorno sui miei passi, ho ridisegnato quel cieco labirinto senza porte che era il mio destino.
Ora, che non è nessuna ora, sono anche il toro e il filo, la pietra e il territorio, la fuga vittoriosa e il contrappunto mostro-uomo. Sono finalmente folle, come un latino, non più foglia di ginkgo.
Risuonino viepiù giusti per me questi versi di C., come per Israele:
S’infinge al fuoco pallido
L’immortale
Io non posso spiegarli, ma posso evocarli in ogni lettore. Ecco, non serve altro.
Dico questo e mi commuovo. Ma chi può impedirmi di parlare, o di piangere da uomo, un’ultima volta, la bellezza di Buenos Aires?
Ti ho sempre amata, ti ho sempre cantata e trasfigurata.
Sei ancora e sarai sempre Tu, da questo mio quinto libro di versi, forse il più etico, il mio orgoglio estetico (suona buffo detto da quell’io che non credeva alle estetiche, che non amava i propri versi).
Lo dico col cuore d’un bambino senza morte.
Sei il nome dell’avo scritto col sangue sul muro della Recoleta;
Sei la verità dei maestri e degli amici, il Racconto in antica sassone;
Sei la Piazza dell’incontro e gli scorci immemoriali d’una volta;
Sei il tramonto rosso che si specchia sulle case basse e l’inganno rosa degli specchi femminili;
Sei l’albero che si fa nave, il porto insieme al suo mare;
Sei le mani e gli occhi di mia moglie, e di mia sorella, sei mia madre;
Sei una melodia lontana… di milongas;
Sei Whitman e Stevenson, Kipling e Schopenhauer, Le mille e una notte e le saghe d’Islanda;
Sei il volto mio e quello di Cristo confusi in un poema;
Sei le strade e le stanze e la biblioteca di mio padre;
Sei la polvere dei gauchos e l’acciaio dei compadritos;
Sei calle Tucumán e non sei più niente.
Eppure, un frammento di questa voce estinta si dispiega con sincerità tra le pagine di quegli anni affollati di viaggi, di incontri e di scoperte.
Non avevo mai pensato a un progetto poetico unitario prima.
Come ho scritto anche altrove, fu proprio la cecità a restituirmi il dono della poesia.
Così divenni un artefice puro, essenziale, mi affidavo alla memoria e alla metrica classica.
A distanza di molti anni, posso dire che quella fu una scelta felice.
Inoltre, grazie alla frequentazione delle varie mistiche e filosofie orientali, ho potuto ricavare un’immagine diversa e più completa del mondo, complementare a quella occidentale.
Il mio destino deriva da quello dei miei padri, coincide in parte con il loro, ed io non ho fatto altro che accettare con serenità i miei limiti e le mie ombre, le mie tenebre.