[Merano, maggio 1920]
Cara signora Milena[1] (già questa intestazione mi risulta fastidiosa, ma è uno di quegli appigli in questo mondo incerto a cui i malati possono aggrapparsi e, se anche a loro tali appigli risultano fastidiosi, non c’è ancora segno di guarigione), non ho mai vissuto tra il popolo tedesco è la lingua di mia madre[2] e pertanto mi viene naturale, ma il ceco mi sta molto più a cuore, per questo la sua lettera fa a pezzi alcune delle mie insicurezze, e io la vedo nitidamente, i movimenti del suo corpo, delle mani, così veloci, così decisi, è quasi un incontro, e tuttavia, se voglio sollevare lo sguardo sul suo viso, allora nel bel mezzo della lettera scoppia un incendio – che storia! – e io non vedo altro che fiamme.
Ciò potrebbe far venire voglia di credere alla legge della sua vita, come lei l’ha esposta. Che lei non voglia essere compatita a causa della legge sotto la quale pretende di trovarsi, si capisce, certo, perché l’enunciazione della legge non è altro che pura superbia e presunzione (já jsem ten který platí[3]), e non c’è bisogno di discutere ulteriormente le prove che lei ha dato per la legge, le si può solo baciare la mano in silenzio. Per quanto mi riguarda, io credo sì alla sua legge, solo che non credo che essa rimanga sulla sua vita in modo così puramente terribile e distinto, è solo una conoscenza, ma una conoscenza lungo il tragitto, e il tragitto è infinito.
Ma se non si sa questo, per l’intelletto di un uomo limitato alle cose terrene è spaventoso vederla nel forno surriscaldato in cui lei vive. Per una volta voglio parlare di me. Se vogliamo considerare tutto all’incirca come un compito di scuola, lei possedeva tre alternative nei miei confronti. Ad esempio, avrebbe potuto non dirmi assolutamente nulla di sé, e allora mi avrebbe tolto la gioia di conoscerla e, cosa ancora più grande, la gioia di mettermi alla prova. Quindi poteva tenermelo precluso. Poi avrebbe potuto tacere qualcosa o avrebbe potuto abbellirla e potrebbe ancora farlo eppure, nella situazione attuale, lo percepirei ma non lo direi, e mi farebbe male il doppio. Quindi non può fare neanche questo. Rimane solo la terza possibilità: cercare di salvare un poco se stessa. Una piccola possibilità si rivela nelle sue lettere. Spesso leggo di quiete e stabilità, spesso anche di altro e, alla fine: «reelní hrůza»[4].
Quello che dice sul suo stato di salute (il mio è buono, solo il sonno è cattivo nell’aria di montagna) non mi basta. Non trovo la diagnosi del dottore eccessivamente vantaggiosa, perlopiù essa non è né vantaggiosa né svantaggiosa, solo il suo comportamento deciderà come interpretarla. Certo, i medici sono stupidi; anzi, non sono più stupidi delle altre persone ma le loro pretese sono ridicole; comunque, bisogna fare i conti col fatto che, dal momento in cui si inizia ad aver rapporti con loro, diventano ancora più stupidi, e ciò che il medico richiede momentaneamente non è né molto stupido né impossibile. Impossibile è che lei si ammali veramente, questa impossibilità deve rimanere tale. In cosa è cambiata la sua vita da quando ha parlato con il medico, questa è la domanda principale.
Ho ancora alcune domande secondarie che lei mi concederà: perché e da quando non ha soldi? È in contatto con i suoi parenti? (Lo credo bene perché una volta lei mi ha dato un indirizzo da cui riceveva regolarmente pacchi, o la cosa è finita?) Perché, come mi scrive, prima frequentava molta gente a Vienna e ora più nessuno?
Non vuole mandarmi i suoi romanzi di appendice, quindi non ha fiducia in me, che io sappia inserire al posto giusto tali appendici nell’immagine che mi faccio di lei. Va bene, e allora anch’io sono arrabbiato con lei su questo punto, il che del resto non è una disgrazia, e va bene e così siamo pari se in un angolo del mio cuore c’è un poco di rabbia pronta per lei.
Suo FranzK
[1] Tradotto da F. Kafka, Briefe an Milena, erweiterte und neu geordnete Ausgabe, herausgegeben von Jürgen Born und Michael Müller, Frankfurt am Main: Fischer Taschenbuch Verlag, 2015¹⁵.
[2]Muttersprache, lett. «lingua madre». Ma qui la parola significa «lingua della madre», giacché la madre di Kafka preferiva parlare tedesco che ceco, a differenza del padre. [NdT]
[3]Io sono colui che paga.
[4]Un vero orrore.