Fiaba Bianca di Antonio Moresco è un capolavoro!
La recensione finisce qui.
Adesso un po’ di aneddotica, qualche doveroso ma inadeguato tentativo di spiegare perché questo romanzo è un capolavoro eludendo il rischio di fare spoiler, e una sostanziosa porzione di sinceri rimproveri indirizzata a un arido mondo delle lettere che in questo momento sembrerebbe non avere più il cuore per intercettare nemmeno la commovente bellezza di Alice nel paese delle meraviglie o Le avventure di Pinocchio.
Conosco così a fondo tutta l’opera di Antonio Moresco e amo così tanto ogni suo libro che dovrei essere l’ultima persona al mondo a farsi cogliere di sorpresa da lui. Eppure… Sembra quasi un esperimento: prendiamo una cavia bella grossa, esponiamola per anni a dosi massicce di narrativa e saggistica prodotte da Moresco e poi stiamo a guardare come reagisce a questa fiaba che lo scrittore mantovano ha dedicato alla nipotina Bianca.
E la mia reazione è di totale sbalordimento misto a entusiasmo, misto a gratitudine, mista ad ammirazione, e a tutto un assortimento di sensazioni che in molteplici sfumature mi fanno attraversare una sterminata gamma di stati d’animo che mi proiettano a velocità vertiginose dall’intenerimento malinconico al più anfetaminico e orgasmico spasmo di meraviglia.
Chiunque si fosse rassegnato all’idea che la parola scritta sia inevitabilmente destinata a perdere colpi nella furibonda burrasca di dati e stimoli in cui viviamo, chiunque si fosse lasciato prendere dallo sconforto per la quantità e la qualità limitate di narrazioni che un essere umano può escogitare a vantaggio dei propri simili, chiunque si fosse lasciato abbattere dalla tipica ondata di pessimismo che porta a non confidare più nell’opportunità di essere ancora testimoni dell’apparizione di qualcosa di semplice e bello, dovrebbe sciogliere le briglie e lanciarsi a capofitto in questa folle avventura insieme a nonno Stucco e alla piccola Bianca.
C’è pure, tra le righe, un’illuminante lezione di scrittura: amate qualcuno come un nonno può amare una nipotina di nove anni e smettete di avere paura, scatenatevi, imperversate, scoperchiate lo scrigno in cui tenete rinchiuse le vostre energie creative e le vostre insicurezze inconfessabili, edificate o magari distruggete, se è questa la vostra più intima vocazione, insomma sentitevi liberi di scrivere ciò che vi pare perché se amate abbastanza il bambino che vi leggerà − e tutti gli scrittori parlano ai bambini, non c’è lettore che non sia un bambino, e tutta la letteratura è letteratura per l’infanzia, ammettiamolo una buona volta – non ci sarà parola o frase o fantasticheria fuori posto, e forse le storie potranno ricominciare a salvare quelli che le leggono in modi sempre più imprevedibili e sbilenchi e generosi e spericolati.
Mi accorgo che a forza di parlare di questo libro non me ne fotte più niente di mettermi a sbraitare contro il mondo delle lettere. Faccio come Nanni Moretti in Aprile quando decide di buttar via tutti i ritagli di giornale che conserva perché li trova irritanti e di custodire soltanto le cose belle. Quindi all’inizio ho detto una bugia e me ne scuso: niente rimproveri. Niente polemiche: cazzi loro se si vogliono negare questa esperienza, anche se una tenue traccia di polemica ben argomentata dovrebbe per lo meno evidenziare che il lavoro di un critico consiste proprio nell’impedire ai lettori di negarsi esperienze come Fiaba Bianca, nel disegnare con cura le mappe che ci aiutino a scovare e disseppellire questi tesori.
Ma sono sicuro che una volta entrati in contatto ravvicinato con questo romanzo potente e insolito e toccante ed esilarante capirete che è anche capace di azzerare ogni istinto da attaccabrighe, di estirpare, almeno per qualche ora, quella stupida inclinazione a farci del male l’un l’altro che noi adulti proprio non ci vogliamo impegnare a correggere.
Infine considerate che nell’impeto ho pure scordato di menzionare le illustrazioni della grande fumettista canadese Nina Bunjevac: l’incontro tra lei e Moresco sembra architettato da un vecchio sceneggiatore sentimentale…
Qui per la verità mi sarei pure fermato ma la mia ragazza ha letto questa specie di recensione delirante subito dopo aver finito Fiaba Bianca ed è rimasta delusa. Io ero sicuro di essermi lasciato trascinare dall’entusiasmo, dall’enfasi, di aver esagerato nel giudizio positivo, invece secondo lei non sono stato all’altezza: non sono riuscito a trasmettere quanto è bello il libro di Moresco, non sono riuscito a far sentire il suono di una scrittura generata in evidente stato di grazia, non sono riuscito a restituire la dolcezza del rapporto così personale e così universale tra il nonno e la nipote, non sono riuscito a mettere in risalto la furia e l’ardimentosa inventiva che attraversano ogni fibra di questo capolavoro.
C’è poi un amico scrittore al quale avevo chiesto di ospitare questa recensione sul suo blog e che con grande tatto mi ha mandato questa mail: “Per me è stata una lettura bella, ma è proprio il contrario, come tipologia, delle recensioni che pubblichiamo. Se tu hai voglia di aggiungerci argomenti e analisi, io ti rileggo con piacere (ma forse il punto di un testo del genere è proprio evitare quell’approccio argomentativo − non so, dimmi tu).”
Io gli ho risposto così: “In realtà non so nemmeno se la so scrivere una recensione come si deve. Qui c’era solo la messinscena di una battaglia tra l’entusiasmo per Fiaba Bianca e la delusione per la mancata accoglienza da parte della critica: alla fine ovviamente ha vinto l’entusiasmo.
Poi credo che tu abbia colto il punto perché ho volutamente evitato un approccio argomentativo dato che non vorrei togliere nemmeno una virgola di sorpresa a chi leggerà il romanzo di Moresco dando coordinate sulla trama, sullo stile, o provando a smontare il congegno. Questo è uno di quei libri che fanno saltare tutte le categorie interpretative: è un po’ autobiografia di un nonno, un po’ fantasy o addirittura metafantasy, un po’ pamphlet contro il mondo adulto, un po’ classico ma allucinato esempio di letteratura per ragazzi, un po’ lettera d’addio preventiva che solo un malato terminale particolarmente lucido riuscirebbe a mettere insieme… Forse erano queste le cose che dovevo scrivere? Però temo che svelino troppo e proprio non volevo.”
Un po’ me la sono presa, devo ammettere che ancora faccio fatica a porgere l’altra guancia di fronte alle critiche, però poi sono stato invaso da un’insolita serenità zen probabilmente infusa dal libro di Moresco e ho accettato la sfida di provare a dire un altro paio di cose che nel timore di rovinare la sorpresa al lettore mi ero lasciato sfuggire.
A un certo punto di Fiaba Bianca ruzzolerete all’interno di una fiaba nerissima, dentro lo stomaco buio del male: attraverserete il più oscuro dei buchi neri, vi smarrirete nella grotta di Montesinos, verrete risucchiati da un gorgo mefitico, inghiottiti “come un tortellino di Bologna” – parola di Geppetto − dal gigantesco Pesce-cane.
E proprio lì, intrappolati nelle sabbie mobili di tutto il peggio del peggio che la grandissima letteratura con i suoi miseri strumentini alfabetici si intestardisce a tematizzare e combattere, avverrà qualcosa di più grande e indicibile, oltrepasserete un confine, o forse lo abiterete, lo cavalcherete, vi verrà concessa una brevissima scorribanda nei vasti territori dell’increato, un assaggio dei Giochi dell’eternità, in una dimensione che è insieme mistica, metafisica e maledettamente concreta.
Non saprei dire se Moresco se n’è reso conto ma è riuscito a fare qualcosa che pure uno come lui, che non si era mai fermato di fronte a niente, non aveva mai fatto: ha cartografato il male, ci ha spiaccicati tutti sulla cartina dell’abisso tendendoci un agguato narrativo sapientemente orchestrato e poi ci ha offerto un talismano per uscirne vivi, insegnandoci che scienza e magia, religione e tattica, creatività e corporeità sono tutte frecce spendibili quando gli eventi precipitano, che ragionare per antinomie è sempre un inganno pericoloso, che per salvarci la pelle dobbiamo lasciarci soccorrere senza pregiudizi da Sogno, Malinconia e Passione.
Un’ultima postilla non può che riguardare l’aspetto più commovente del libro: il suo statuto di lettera d’addio.
Sono decenni che litigo con amici, con appassionati, con detrattori, sul valore dei libri di Antonio Moresco, ma se c’è una cosa di cui sono certo è che non è mai esistito uno scrittore così bravo a fondere autobiografia e visione, a maneggiare con naturalezza, come se fossero aspetti dello stesso identico materiale, la realtà e la fantasticheria. Non è una scommessa troppo azzardata ipotizzare che nei prossimi anni l’aggettivo “moreschiano” possa entrare a far parte del gergo degli studiosi di letteratura, dei critici, dei comunissimi lettori come me.
Bene, nella parte finale di Fiaba Bianca, a fiaba conclusa, l’autore de Gli esordi, traboccante memoriale kafkiano, e de Gli increati, mastodontico fantasy proustiano, si concede il lusso di comporre le pagine più intime e personali che abbia mai scritto, portandoci come fantasmi in visita a casa sua, tra i suoi affetti segreti, facendoci gustare le pietanze cucinate da sua moglie Renata, andando a toccare elementi così minimi e volatili che sono rimasto a bocca aperta, in lacrime, per l’incanto e la riconoscenza.
Il romanzo è ancora vivo e vegeto: questo qui è stato pubblicato da pochi mesi, il 22 maggio 2018.
P.S. Le critiche alla prima stesura di questa recensione non sono arrivate solo dalla mia ragazza e dal mio amico scrittore. Rassegnato ormai a lasciarla inedita l’avevo spedita anche allo stesso Moresco ed ero sicuro che almeno a lui – con il senno annebbiato dalla mia raffica di elogi – sarebbe piaciuta. Invece… Come gli altri stava complottando contro di me. Ha detto che quando ci eravamo sentiti al telefono, quando a caldo e a voce gli avevo confidato le mie prime impressioni su Fiaba Bianca, gli era sembrato che avessi colto alcuni aspetti interessanti che poi non ho saputo approfondire nel testo che ho scritto. Stando a lui durante quella telefonata il sottoscritto aveva prodotto due o tre intuizioni sinceramente degne di nota. Il dramma è che io non solo non ricordo cosa ci siamo detti al telefono, ma che per una volta, in maniera del tutto involontaria, mi devono essere scappate un paio di frasi intelligenti − pronunciate tra l’altro al cospetto di una delle pochissime persone al mondo del cui giudizio mi importa davvero − e non me ne sono nemmeno accorto.
Questa versione definitiva incorpora anche il fantasma di una conversazione telefonica ormai dimenticata per sempre.