La storia del nome – o più apertamente dei nomi – è una cosa falsa, così falsa che neanche tutto il postmodernismo, ammesso che esista, può rendercela digeribile. (Figuriamoci poi qua, a Vacca Pezzata – che luogo è mai questo? – dove le cose cambiano e scorrono così velocemente, che un giorno non si chiama come il giorno appena trascorso. Dove le cose sono almeno doppie, e per ciascuna coppia un solo nome è molto poco). Però, se tra noi ci fosse una mente abituata a scartare tra due possibilità (nome o senza-nome), per giungere a una decisione, direbbe che è il caso di mettere da parte i nomi, se proprio sono così scomodi – e minano la saluto del pensiero. E eliminare di conseguenza le sconfortanti domande “Chi sei?” e “Come ti chiami?”. Così chiunque non potrebbe essere altro che una sola persona, un individuo perfetto che non ci sarebbe bisogno di chiamare, perché sarebbe riconoscibile tra mille altri senza-nome, eppure così unici e diversi. E sarebbero messe da parte anche tutte le contraddizioni. Eppure non possiamo fare a meno di queste, tanto meno del dolce inganno che si portano dietro come l’ombra.
Ne faccio una questione personale. Se io fossi Alonso Quijano starei scrivendomi addosso, dicendomi addirittura che sono il Buono (come da titolo). Ma non lo sono, sebbene in qualche modo lo sia. In qualche modo: forse è questo il nodo? La forma, il modo – e detto altrimenti la scrittura? “Chi sei?”, “Come ti chiami?” sono domande che, applicate al discorso orale, lasciano oggi il tempo che trovano, ma restano cardinali nella scrittura. Non è una questione di identità psicologica – che è solo arabesco; è una questione di identificazione fisiologica. Per intenderci, in litteris, una cosa è Alonso Quijano/Don Chisciotte, altra cosa è il carattere cavaliere errante, la forma comune, psicologica, il senza-nome. Restando nel circolo chisciottesco, quando nell’ultimo capitolo (che sarà oggetto di traduzione della nostra Francesca Regni per il prossimo numero, in lavorazione, di O Metis) Alonso Quijano, detto il buono, muore, che cosa resta di lui se non i nomi (non certo l’erranza), con i quali anche tutti gli altri lo compiangono, pur avendolo lungamente deriso prima?
E dunque leggiamo:
Ciò visto il curato, chiese al notaro che gli attestasse come Alonso Chisciano il Buono, chiamato comunemente don Chisciotte della Mancia, era passato da questa presente vita e morto di morte naturale. E chiedeva, disse, tale attestzione perché non si desse il caso che qualche altro autore diverso da Cide Hamete Benengeli l’avesse a fare resuscitare falsamente e avesse a scrivere interminabili storie delle sue imprese. Così finì il Fantasioso Nobiluomo della Mancia, il borgo del quale Cide Hamete non volle precisare, per lasciare che tutte le città e borghi della Mancia si contrastassero fra di loro il diritto di adottarselo o di pretenderlo per proprio figlio come le sette città della Grecia si contrastarono Omero.
Don Chisciotte della Mancia, BUR, 2008