Perché Esiodo tratta due volte il mito di Pandora?
Questo che segue è un tentativo di risposta.
Le narrazioni si caratterizzano formalmente degli stessi elementi: la creazione di Pandora avviene in modo simile tanto nella Teogonia quanto nelle Opere e giorni. Il fango – o la terra – con cui viene plasmata la parthenos (la vergine o la giovane); il ruolo degli dèi che partecipano alla creazione, Efesto, Atena e Ermes su tutti, sotto la supervisione di Zeus. Tuttavia, i due racconti differiscono in alcuni punti, anche se più che una differenza sostanziale e, si potrebbe dire, di fine, il racconto delle Opere e giorni fornisce una chiave di lettura, che nella Teogonia non c’è, poiché Esiodo chiude il racconto in linea col carattere genealogico dell’opera: la nascita della stirpe delle donne.
Conviene fare un passo indietro nelle Opere e giorni, per tentare una risposta alla domanda iniziale.
Esistono due Contese, dice Esiodo subito dopo l’invocazione alle Muse (non dimentichiamo che Esiodo è il primo poeta della cosiddetta tradizione occidentale a nominare se stesso in un’opera poetica). Insomma, due Contese: una che produce cose buone, l’altra che induce al male. Non è difficile intuire quale delle due Esiodo suggerisca al fratello Perse, che ha ottenuto da giudici corrotti parte dell’eredità di Esiodo. E sui giudici così chiosa il poeta di Ascra – parole di iniziato, che ricordano il taumaturgo cretese Epimenide (e che non sono il solo rimando): Stolti, perché non sanno quanto più grande è la metà dell’intero, né quanta grande ricchezza ci sia nella malva e nell’asfodelo.
Com’è, dunque, che le due Contese si legano a questo mito? – È giusto notare anche come Esiodo utilizzi il mito a dimostrazione di una visione del mondo, fatto che diverrà secoli dopo in Platone un metodo, una techné, arte del pensiero. – Prometeo ha ingannato Zeus, e l’inganno si trasforma in ritualità, poiché Zeus che conosce pensieri prudenti accetta ironicamente che si tenti di ingannarlo, tanto che Esiodo dice: è da allora che agli immortali sulla terra la stirpe degli uomini brucia bianche ossa sugli altari che profumano. Però, a inganno si risponde con un altro inganno, e ancora prima con la forza, che risulta inutile contro chi ha ritorti pensieri. In Zeus l’astuzia o l’intelligenza prudente, la metis, si manifesta sempre in ultimo, pur essendo la prima delle sue innumerevoli forze. È la Contesa d’intelligenza a chi inganna meglio e lascia il solco più profondo e fecondo, ciò che maggiormente stuzzica Zeus nella sua diatriba con Prometeo. E il solco fecondo è proprio Pandora, la giovane aidoie, piena di pudore.
Restiamo ancora nella Contesa Zeus-Prometeo. Per tre volte nella Teogonia, e nelle stesse posizioni del verso, Esiodo utilizza la formula dolies technès (l’arte dell’inganno) nel precisare su che piano si svolga la diatriba tra Zeus e Prometeo. E nonostante il titano riesca comunque a ottenere il fuoco per gli uomini, non può niente contro l’astuzia finale del dio, la creazione della donna, il dono tremendo che gli uomini stingeranno a sé amando e soffrendo d’amore.
Pandora, il cui nome non compare nella Teogonia bensì nelle Opere e giorni, appare al titano meno scaltro, quell’Epimeteo che, sebbene avvertito dal fratello di non accettare alcun dono dagli dèi, è ammaliato subito dall’apparizione della giovane Pandora. Neanche del vaso si fa menzione nella Teogonia, né di un dono che è più infame e subdolo della stessa charis (la grazia, la bellezza): la parola. Molti filologi, tra cui Vernant e Kerényi, si sono soffermati più sull’aspetto di continuità semiotica del mito (Pandora come prima donna, e tutto l’armamentario piuttosto misogino di Esiodo) che su un dettaglio così importante come l’ultimo dono di Ermes. In questo il racconto delle Opere e giorni getta una luce diversa sul mito di Pandora: il fatto genealogico è in fondo fine a se stesso, fa parte di una serie di eventi, a partire dai quali si giunge al presente; con il dono della voce Esiodo offre un’ulteriore sfumatura all’inganno di Zeus, un’altra chiave di lettura, più profonda e dolorosa della stessa vecchiaia, che è genealogicamente il male per eccellenza della cultura greca (tutti se ne dolgono, da Achille ad Alessandro Magno). Se quest’ultima affligge contemporaneamente uomo e donna, mettendoli sullo stesso piano, è la voce che crea uno scarto tra i due (Esiodo, in quanto poeta già dimostra di che cosa è capace la voce nell’uomo), il suono delle parole della donna che occulta il silenzio dei mali sfuggiti dal vaso in cui essi erano rinchiusi, tutti i mali eccetto la speranza, il male non libero, l’unico al quale si dà voce. Ed è proprio in questo dettaglio che i due miti si diversificano: là dove la charis della Teogonia, la giovinezza esuberante, sembrava potesse rappresentare l’immagine dell’inganno più temendo, nelle Opere e giorni anche la grazia e la bellezza risultano infine corruttibili, mentre la voce inafferrabile, che fuoriesce non trattenuta dal recinto dei denti, per dirla con Omero, è l’informe rappresentazione di ciò che rende Pandora non soltanto un gastèr (un ventre, una sacca) mai sazio e insieme fecondo e prolifico, ma la oppone all’uomo in quell’equilibrio dei contrari, che giustifica ogni cosa, che fa sì che esistano due Contese – e che il doppio si moltiplichi infinitamente.
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Esiodo, Teogonia vv 535-593
E infatti, quando gli dèi e gli uomini mortali dirimevano la loro contesa
a Mecone, allora con animo ben intenzionato un grosso bue,
dopo averlo diviso in porzioni, [Prometeo] sacrificò ingannando la mente di Zeus.
Così da una parte carni e interiora ricche di grasso
pose in una pelle, nascosta nello stomaco del bue.
Dall’altra parte invece bianche ossa di bue, perché l’inganno è un’arte[1],
dispose con ordine, nascoste nel bianco grasso.
E allora a lui parlò il padre degli uomini e degli dèi:
«Figlio di Iapeto, illustre tra tutti i signori,
caro, con quanta ingiustizia dividesti le parti!»
Così disse Zeus che conosce eterni pensieri, sbeffeggiandolo,
ma gli rispose Prometeo dai ritorti pensieri:
«Zeus nobilissimo, il più grande degli dèi eterni,
tra queste parti scegli quella verso la quale l’animo nel petto ti spinge».
Così disse meditando inganni, ma Zeus che conosce infiniti pensieri
riconobbe e non ignorò il raggiro; meditava nell’animo mali
per gli uomini mortali e aveva intenzione di compierli.
Allora con entrambe le mani avvolse il bianco grasso,
si adirò nei precordi (in cuore), la collera raggiunse il suo animo,
non appena vide le bianche ossa del bue frutto dell’arte dell’inganno:
è da allora che agli immortali sulla terra la stirpe degli uomini
brucia bianche ossa sugli altari che profumano.
Duramente irato gli disse Zeus che raduna le nubi:
«Figlio di Iapeto, che sopra tutti conosci pensieri astuti,
caro, per niente ho dimenticato la tua abilità nell’inganno.»
Così disse adirato Zeus che conosce infiniti pensieri.
Da allora ricordandosi sempre di questo raggiro
non concesse ai frassini la forza del fuoco infaticabile
per gli uomini mortali che abitano sulla terra;
ma di nuovo lo ingannò l’abile figlio di Iapeto
rubando il bagliore del fuoco che si vede da lontano, infaticabile,
in una ferula cava; allora fu colpito nel profondo dell’animo
Zeus altotonante e il suo benevolo cuore bruciò d’ira
appena vide tra gli uomini il bagliore lungisplendente del fuoco.
In luogo del fuoco, allora, preparò un male per gli uomini:
infatti (pertanto) l’illustre Zoppo plasmò dalla terra
un’immagine simile a una ragazza piena di pudore per volontà del Cronide;
la adornò la dea glaucopide Atena di una cintura
su una veste argentea; dalla testa scendeva un velo
lavorato artisticamente dalle sue mani, meraviglia a vedersi
[e intorno corone di fiori d’erba appena fiorita,
amabili, pose sulla sua testa Pallade Atena];
e intorno alla testa le sistemò un diadema d’oro,
che aveva creato l’illustre Zoppo
lavorandolo con le sue mani, per compiacere il padre Zeus.
Nel diadema aveva inciso, meraviglia a vedersi,
molte belve terribili quante la terra e il mare nutrono;
e di queste molte ne incise, la grazia ondeggiava sopra tutte,
meravigliose, simili agli animali dotati di voce.
E dopo che plasmò il bel male in luogo del bene,
la condusse là dov’erano gli altri, dèi e uomini,
fiera dell’ornamento della Glaucopide, figlia del Padre tremendo;
e lo stupore prese gli dèi immortali e i mortali uomini,
quando videro l’inganno per eccellenza, senza speranza per gli uomini.
Infatti da lei discende la stirpe delle più feconde donne,
[infatti da li discende la stirpe nefasta e la razza delle donne]
grande sciagura per i mortali, con gli uomini le donne condividono la terra,
compagne non della rovinosa Povertà, ma della Sazietà.
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Esiodo, Opere e giorni vv. 42-59; 77-82; 100-105
Infatti gli dei tengono nascosto agli uomini il sostentamento;
all’opposto potresti lavorare per un solo giorno così facilmente,
che per un anno non ne avresti necessità anche restando nell’ozio:
allora subito potresti appendere il timone sul fumo,
e perderesti le fatiche dei buoi e dei muli operosi.
Ma Zesu lo nascose, irato nel suo petto,
poiché lo ingannò Prometeo dai ritorti pensieri.
Quindi meditò contro gli uomini tristi sofferenze:
nascose il fuoco; eppure di nuovo l’abile figlio di Iapeto
lo rubò per gli uomini a Zeus molto prudente
in una ferula cava, di nascosto a Zeus che ama il fulmine.
A lui allora si rivolse irato Zeus che raduna le nubi:
«Figlio di Iapeto, che sopra tutti conosci pensieri astuti,
gioisci dopo avermi rubato il fuoco e ingannato la mia mente,
ma per te stesso e per gli uomini che verranno ho in serbo[2] una grande sventura.
In luogo del fuoco darò un male, del quale tutti
possano compiacersi, circondando d’affetto la loro stessa disgrazia.»
Così disse, e poi rise il padre degli uomini e degli dèi.
[…]
E infine nel suo petto il messaggero Argifonte
menzogne e discorsi ingannevoli e un carattere dissimulatore
pose per volere di Zeus che tuona profondo; e dentro una voce
suscitò il messaggero degli dèi, e chiamò questa donna
Pandora, poiché tutti coloro che abitano le case d’Olimpo
le donarono un dono, sofferenza per gli uomini laboriosi.
[…]
Mentre le altre infinite tristezze vagano tra gli uomini:
per questa ragione è piena la terra di mali, pieno il mare;
e le malattie fra gli uomini, alcune di giorno, altre di notte,
si aggirano da sole, portando mali ai mortali
in silenzio, poiché le privò della voce Zeus molto prudente.
Così non è possibile ingannare la mente di Zeus.
[1] Ho tradotto la formula dolies technes adattandola ogni volta al contesto in cui questa viene usata, poiché è a mio avviso la chiave di lettura dell’interro passo.
[2] Per il carattere agonistico del dialogo e dell’intera vicenda, ho preferito rendere qui più esplicita l’intenzione di Zeus introducendo una prima persona, in luogo del più consueto verbo impersonale in terza.