Un uomo sente puzza di morte – causa infarto – e la sua percezione del tempo muta (“ma tutto scorre attorno a me. Tutto fluisce e rientra, continuamente, e io ho cinquanta anni ma anche trentasei e anche cinque, e questo pensiero mi fa venire i brividi”, pp. 78-9), si fa velocità (“la velocità è una delle cose migliori della vita, è un trionfo sulla morte, anche se provvisorio”, p. 84), frenesia, corsa in auto (è appassionato di fuoriserie). È Franco Scelsit, uno scrittore cinquantenne di Milano che per scelta vive con madre e fratello; grazie alla pubblicazione di thriller sotto pseudonimo non ha problemi economici e di tanto in tanto può concedersi, da grande autore quale si ritiene, un romanzo “serio” (in quanto tale, poco letto). Scelsit ama la vita in maniera sconsiderata e inappagante.
“La scarsità di serotonina e l’eccedenza nell’uso delle benzodiazepine mi avevano portato a un passo dalla follia. La depressione è come una corazza di dolore, talvolta. Altre volte, è il contrario. Ti fa vibrare l’interno della pelle per venti gelidi, fino a ucciderti.”
Siamo alla prima pagina e subito veniamo immessi nei recessi della malattia mentale di un uomo che, come tanti, non riesce a trovare una propria stabilità emotiva e sociale, e con la medesima rabbia céliniana affronta gli impegni conseguenti all’infarto (la riabilitazione, gli incontri con altri infartuati) e le occasioni che gli riserva il mestiere di scrivere, stretto tra un cinismo senile e una morbosa nostalgia verso il passato.
«Nostalgia» è il termine chiave. Scelsit ricorda di continuo gli anni Ottanta, gli anni dell’abbondanza; non c’è nulla di peggio che sopravvivere a una giovinezza felice, sembra dirci indirettamente. Alla constatazione di un processo storico che ha visto, dagli Ottanta in poi, l’Italia e Milano crollare, si oppone la personale constatazione di un blocco, di un’incapacità a venire fuori da quei gorghi luminescenti e annacquati che sono stati “l’inizio della fine”, a tal punto da lasciarsi andare a una battuta che svela l’immobilità dietro la fuga impossibile del protagonista: “il mio immaginario è incastrato laggiù” (p. 21).
La “fuga impossibile”, altra formula chiave del romanzo – fuga da una famiglia che lo opprime e lo rassicura, fuga da una città che odia e che non riesce a lasciare, fuga da una realtà nauseante, da una sessualità anaffettiva, dai ricordi –, nella seconda parte del libro si fa vertiginosa discesa nella malattia, ma discesa consapevole e per questo priva di cupezza o eccessiva morbosità. Scelsit ha delle visioni eppure rifiuta di affidarsi a uno psichiatra, come volesse andare in fondo a se stesso per poter rinascere, ‘come’, sembra facile trovare risposte a una caduta che, per chi ha vissuto o solo intravisto quegli anni accecanti, ha un forte potenziale empatico: la caduta del viveur italiano che non sa più scendere dalle montagne russe degli anni Ottanta, e continua la corsa, in discesa, consapevole che prima o poi tutto finisce. C’è dell’altro: c’è Scelsit, un uomo sarcastico e disperato, a tratti arreso, a tratti furioso, consapevole che il segreto della vita è continuare a correre, e che il segreto della morte è guardarsi troppo alle spalle: a lui riescono bene entrambe le cose.
Franz Krauspenhaar
Grandi momenti
Castel di Sangro (AQ), Neo, 2016
pp. 160