Fratello minore. Sorte, amori e pagine di Peter B. (2018, Arkadia editore, collana Senza rotta, a cura di Marino Magliani e Luigi Preziosi) è la biografia, libera e al contempo letterale, di Peter Brasch (Cottbus, 1955 – Berlino, 2001), un autore poco noto in Germania, il suo paese, e sconosciuto in Italia. L’ha scritta Stefano Zangrando – studioso, critico letterario, traduttore e insegnante nato a Bolzano (e a Berlino, perché se ci riconoscessero la cittadinanza anche nei luoghi dei nostri affetti e delle nostre predilezioni, avremmo tutti il diritto di scegliere almeno un’altra città per i nostri natali).
Peter B. nasce in una cittadina nel sud-est del Brandeburgo durante uno dei periodi peggiori per la Germania socialista: sono anni in cui si fa ampio uso dei carrarmati sovietici e dei collaboratori informali della StaSi, per tenere a bada il malcontento sociale causato dalla riduzione dei salari nel biennio precedente. Di origini ebree, il padre, dopo un periodo trascorso in Inghilterra per fuggire dal nazismo, nel 1946 torna in Germania, trasferendosi con la moglie e la madre nella zona di occupazione sovietica. Da allora inizia la sua carriera di funzionario, “fino a far parte, dagli anni sessanta, del comitato centrale del Partito socialista unitario, e, al culmine della carriera, […] diventare viceministro della cultura della DDR” (p. 32). Peter è il fratello del poeta e regista Thomas Brasch, molto più celebre, espatriato nell’Ovest negli anni settanta. Entrambi alcolizzati, hanno vissuto in aperto contrasto con la figura del padre fino alla fine dei loro giorni.
In Fratello minore, la narrazione procede attraverso il montaggio di testimonianze, racconti, conversazioni, lettere, materiali biografici, gemellaggi letterari post mortem, traduzioni di fonti primarie, scritte (alcuni brevi testi dello stesso Peter B.), e di fonti secondarie, orali (le testimonianze delle donne che lo hanno amato), che si intrecciano al qui e ora di un altro scrittore, un italiano ragionevolmente indiziato di essere l’autore stesso del libro, Zangrando, lettore-detective-scrittore che girovaga per le vie di Berlino domandandosi quale sia la ragione del suo interesse per questa figura minore ed eccentrica delle lettere tedesche, un esule europeo del nostro secolo, morto sul proprio letto, nudo e di traverso.
La sua voce, quella dello scrittore italiano, una delle tante che si alternano nel romanzo, è in prima persona ed è onnisciente, ma solo nella misura in cui segue un movimento contrario rispetto all’onniscienza canonica. Non ha, infatti, il potere di osservare dall’alto – la facoltà e l’esercizio di una conoscenza potenzialmente infinita degli eventi e delle situazioni – bensì possiede la capacità di sondare l’interno, con incredula e rinnovata meraviglia. Esplora una soggettività che ritiene affine, quella di Peter B., per poi restituirne solo gli elementi necessari alla costruzione di un’erudita fenomenologia di un’esistenza vissuta portando quasi al parossismo la possibilità del dissolvimento: “Vedi, in questo flirt con la dimenticanza ti stai già esercitando a dissolverti” (p. 25).
L’avvicendarsi di voci traccia il volto di un protagonista, Peter B., che è in contumacia, perché non è presente quando la narrazione si sviluppa dopo la sua morte, e non lo è nemmeno quando si raccontano gli anni in cui era in vita. Il flusso di informazioni, infatti, si muove su due direttrici sovrapposte, le testimonianze delle persone che gli erano vicine e la presa in carico di queste voci da parte della voce di Zangrando, che, nel trasformarle in materia narrativa, narra rivolgendosi a un tu, Peter B., il quale, in questo modo, si converte in destinatario. In seguito, questo tu diventa la seconda persona di un soliloquio che il lettore-detective-scrittore intratterrà con se stesso.
Come tutti i detective, egli si affida ai racconti delle donne per ricostruire il profilo dell’indiziato (sospettato di essere reo, senza saperlo, di un’affinità elettiva che tormenta Zangrando), un uomo di mezza età che ha passato la vita a boicottare sistematicamente se stesso.
Peter B. ricorda i personaggi di Roberto Bolaño, tutte figure del desiderio, nei loro paradossali atti d’amore estremi verso la letteratura e, in modo indiretto, verso chi sceglie di dedicare il tempo a essa, un tempo sempre a perdere, rubato colpevolmente alla contingenza degli affetti, per qualcosa che eccede, supera il soggetto, e che quest’ultimo non sa o non vuole nominare.
La parte centrale del libro, dove il ritmo cambia, è concitato, quasi a volere seguire un cuore che batte più veloce, è dedicata alle donne: “Loro” è il titolo della sezione. Sono Lena, Katja, Anne, Marion, Petra,… bevono marzemino e parlano sul palco di un teatro per un pubblico assente, la sala è infatti vuota, il sipario abbassato. Ecco l’assenza, di nuovo, così importante per la sottotraccia invisibile e segreta del libro.
Nella parte centrale della sezione centrale, l’intermezzo, c’è lei, Margit, che, reticente – “Voi parlereste ai quattro venti del vostro amore più grande? (p. 106)” –, prova comunque a raccontare, e noi la ringraziamo per lo sforzo, perché “Il segreto di un essere umano si cela sempre nel suo modo di amare” (p. 80). Parla seduta, con le gambe a penzoloni sul bordo del palco, racconta dell’alcolismo – “non è un passatempo serale, […]. Peter era malato, come lo era suo fratello” (p. 111) – e di una relazione, la loro, che, invece di esaurirsi, è evaporata al contatto con l’esperienza dell’eccesso e con la pulsione di morte di Peter – “È triste, lo so, ma alla vita non piace dare una seconda possibilità. Se lo fa, di solito è per suggerirci una direzione diversa (p. 113)”.
Il termine “buco”, che ritorna spesso accostato alla città di Berlino – una città fatta di ricordi, di cavità, (“[…] tanti [sono i] vuoti che puntellano il tessuto cittadino, per lo più resti di guerra”, p. 20), così come di “pertugi libertari” (p. 48) – il palco vuoto, le altre donne che si dileguano quando Margit inizia a parlare, sono tutti indizi di un processo sottaciuto durante il quale l’assenza diventa figura retorica, si fa Lacuna, per citare l’affascinante saggio sul non detto di Nicola Gardini. Quella di Peter B. è dunque la storia di una reticenza assurta a principio esistenziale, e in questo la sua coerenza è a dir poco commovente, dolorosa.
La reticenza “rimanda a una dimensione empirica più ampia di quella documentata dalla scrittura” (Gardini, p. 49), quindi tutte le voci narranti, e il lettore con esse, sono chiamati in causa nell’esegesi dell’intera vita di una persona che si è sistematicamente sottratta al proprio presente per gettarsi nell’alcol e nella fantasmagoria. Peter B. è stato vittima di uno sradicamento doppio: la profonda insofferenza verso i modi intimidatori e inibitori del regime della DDR (il suo era il sogno, coltivato da molti, di una “DDR alternativa”) e il rifiuto del capitalismo aggressivo della fase successiva alla caduta del Muro lo hanno condannato alla condizione del dissidente interno.
Così come ci viene raccontata da Zangrando, la vita di Brasch sembra essere stata retta dall’inesorabile legge dell’obsolescenza autopianificata. La sua breve parabola esistenziale è stata un sistema di dispersione i cui diversi elementi hanno reagito e si sono evoluti come un tutto verso una consunzione, corporea ma non spirituale, coerente con il destino dello scenario in cui si è mosso, Berlino Est. Quest’ultima è stata un’accogliente misera dimora (Schön hausen è il titolo del suo primo romanzo) per il figlio di chi ha contribuito attivamente a edificare il realsocialismo, che scelse di vivere, per opposizione, dentro le strutture immaginifiche del teatro e della letteratura, in cui per fortuna è possibile persino demolire l’idea stessa di identità: “Nessun uomo è identico a uno Stato” (p. 11-12), ebbe a dire nel 1991 chiamato ad intervenire in un talk-show della rete tedesco-orientale del Brandeburgo.
Seguendo il tempo interiore del viaggio, che è anche un viaggio nel tempo, nella storia europea, Zangrando si immischia in faccende estranee che tuttavia gli competono. In questo senso, Peter B. è fratello e figura speculare di Zangrando sul piano della percezione di uno sradicamento che è prima di tutto esistenziale: Zangrando, uno scrittore di confine, a cui l’Italia sembra sempre un po’ una casa d’altri, appartiene alla città per vocazione; Brasch è indissolubilmente legato al suo Paese, ma per autosottrazione, perché per cercare di sopravvivere a esso, ne ha invece ricalcato la sorte, una tragica capitolazione.
Le pagine di Fratello minore sono limpide seppur complesse, perché presentano un articolato lavoro di ricerca formale e contenutistica senza virtuosismi autocompiacenti, in cui la scrittura biografica, così letterale ed esposta, nella sua libera parzialità, è un’autobiografia per interposta persona.
Zangrando non cade mai nei due pericoli più grandi.
Il primo: il ventriloquio, vale a dire la riproduzione posticcia dei movimenti dell’interiorità di Brasch, credendo di potersi accaparrare i suoi pensieri. Il contrario, semmai: “l’osservazione è una disciplina, proprio come l’astinenza” (p. 23). Zangrando si astiene dalla fallace, perché impossibile, appropriazione della soggettività altrui, infatti qui l’interiorità di Peter B. ètutta esterna, emerge dai testi inediti e dalla frequentazione dei suoi amici.
Il secondo: la mistificazione della biografia maledetta. La gioventù, e non solo, di Peter B., non è stata bruciata dalla sregolatezza, bensì dalla Storia; come lo fu – con le debite distanze che lo studio della Storia stessa impone – quella generazione di poeti russi che, nati negli anni 1880-1890, morirono suicidi, assassinati o azzittiti dalle tenebre del periodo postrivoluzionario. Vale la pena una piccola digressione, per ricordare che Vladislav F. Chodasevič ha prestato loro la voce affinché diventassero immortali nel suo capolavoro Necropoli (Некрополь, 1939), una testimonianza unica di un’epoca irripetibile, in cui ci si dovette arrendere troppo prematuramente.
Anche il Peter B. di Stefano Zangrando, come i simbolisti russi appena citati, è stato, per coazione, seppur in un’altra epoca e in un’altra terra, orfano di un potenziale emancipatorio interrotto proprio durante la sua realizzazione, quando i nobili intenti di “quel qualcosa che si è detto Socialismo” (Franco Fortini) si sono rovesciati nel loro opposto e quando la lotta di classe si è trasformata in ossessione verso ogni sospetta devianza antirivoluzionaria.
Questa brutale distorsione è ben rappresentata nel romanzo dalla figura del padre, ma Peter B. non ha nemmeno avuto il tempo di rimuginare sui loro pesanti conflitti che è arrivata la Wende, quella riunificazione del Paese che in verità odorava di annessione:
“«Non si può dire: questi erano i cattivi, questi i buoni, solo perché una delle due parti non esiste più. È facile prendere a calci un cadavere, non può più dire nulla.» E da un’altra parte scrive che nella DDR gli pareva sempre che potesse «solo andar meglio», mentre oggi, gli sembra, «può solo andar peggio.» Pellegrino fra mondi, tentenni a queste parole. Ma convivici, tu, con una biografia e una storia spezzate in due. E dove il secondo capitolo si arroga il monopolio interpretativo sul primo” (p. 143).
Gli elementi narrativi (il pellegrinaggio di Zangrando nei luoghi di Brasch, la trama amorosa, i racconti interpolati) convivono con il bisogno di includere nel testo la formalizzazione del tema della ricerca letteraria. Nel pedinamento in contumacia dell’autore tedesco c’è infatti la messa in scena di qualcosa dal significato più ampio: la difesa di un metodo basato tanto sulle ragioni della narrazione quanto sull’imprescindibilità dello studio dei testi e del loro inserimento, da parte dello scrittore, che ora diventa scrittore-critico, in un contesto storico e sociale diverso.
Come insegna Romano Luperini, non si tratta solo di mettere in campo competenze. Infatti, qui si tratta anche di operare una diversa sistemazione dei materiali conoscendone bene le potenzialità e muovendosi dentro i limiti di tale operazione estetica in bilico tra l’archivio e la sovrascrittura. Tali limiti vanno piegati alla risistemazione messa in atto, garantendo altresì la fedeltà ai dati oggettivi e alla filologia. Un’operazione, questa, senz’altro più ardua quando si tratta dell’opera di autori minori come Peter Brasch, perché il materiale in possesso dello scrittore-studioso, e questa è l’ultima flessione che qui si vuole proporre del nome, è esiguo e non è stato già studiato e trattato da altri.
Tuttavia, proprio per questo motivo, il valore di ciò che è stato elaborato e prodotto aumenta, anzi, la novità dell’interpretazione e della riarticolazione offerte ambisce a un’efficacia da paradigma, anche e soprattutto alla luce del dialogo che inevitabilmente si apre tra ogni romanzo pubblicato e l’epoca che lo riceve.
Un lavoro intellettuale di questo tipo si staglia nel panorama culturale nazionale odierno come un atto d’amore e di resistenza contro i modi autoritaristici generalizzati che impongono una gerarchia di valori al cui vertice ci sono l’arroganza, la prevaricazione e il disprezzo degli altri, perché le pagine di Fratello minore affermano il valore di un’ospitalità che è doppia, reciproca: Berlino accoglie lo scrittore-detective, quest’ultimo accoglie nel suo libro i frutti dell’indagine. E il fatto stesso di accogliere, di dare alloggio nella propria casa, è prerogativa della lingua, essa appartiene a tutti coloro che la edificano quotidianamente con l’esercizio, lo studio e l’invenzione, anche se, a volte, per edificare qualcosa, è necessario smantellare, distruggere, distruggersi, affinché qualcuno possa venire a mettere insieme i frammenti che trova, così da prendere su di sé anche il destino altrui.
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In copertina: Caio Mario Garrubba, Berlino 1961.