Il cuore mi sprofonda all’insù. La guida è morta da un numero incalcolabile di minuti ed io non faccio altro che guardare il delta celeste in alto, attraverso gradazioni di verde. Erba e felce, foresta e smeraldo. È il manto di una nuova specie di giaguaro, azzurro con macchie verdognole, pronto a inseguire le scimmie ululanti e acrobatiche sui rami.
Sono scimmie, anche se non le vedo. Zittiscono gli uccelli dalle piume giallo-scarlatto (di cui ignoro le forme) facendo strusciare i rami delle piante e imponendo un vento placido alla fragranza tenera e verticale delle foglie, all’odore verde degli arbusti recisi.
Niente verrà alterato dal corpo della mia guida, un giovane ricercatore indio non originario di questi luoghi, nel suo lezzo difforme di carcassa.
Ciò non toglie che ho sbagliato, non era il momento: il dedalo di alberi blocca braccia e piedi e mi sento piegare lo stomaco sotto il peso delle fronde immense. Il campo è vicino, a qualche chilometro, ma anche abbastanza lontano da non permettermi di raggiungerlo e sento ogni via errata: sceglierei una direzione se solo riuscissi a liberarmi di quest’umidità sorretta da pilastri di corteccia.
Il fiumiciattolo, l’unica speranza, l’avevamo costeggiato qualche minuto prima, ma non riesco a muovermi: appoggio le mani ad un albero perché ho bisogno che me le scaldi con la sua consistenza ruvida.
L’indio e il suo bel viso lo avevano intuito, la serie innumerevoli di domande per conoscerci era andata oltre, come se fosse un delitto portare una semiautomatica in una giungla. Stava meditando la fuga, lo vedevo poggiare i piedi sull’erba con passo più deciso, studiandomi di sottecchi, cercando una via nel verde dove scomparire, divenire prima forma e poi ricordo tra le note di qualche essenza più alta e fitta. Si è immolato per una persona che conosceva da così poco, deviando la mia vendetta frettolosa e senza preparazione, in questo luogo dove ogni fruscìo è sgomento, dove un semplice bruco può colorarsi di un veleno sgargiante e freddare ogni animale, per quanto enorme. Senza contare i serpenti. Ce ne devono essere di terribili e letali e talmente minuscoli da rendere inutile i miei proiettili.
Indio, dovrei bollirti per mangiarti e fare del tuo grasso un lubrificante per il revolver.
Mi siedo sotto l’albero, ho deciso: passerò qui giorni su giorni, con le spalle appoggiate al legno, cercando di farmi plasmare, divenire prima corteccia e poi fibra e infine risalire in cima tra le foglie, come linfa.
Per fortuna gli uccelli hanno ripreso a vociare, ma non li vedo, sono furbi. Sanno che ho una pistola e si nascondono fra i rami: in una foresta pluviale non si corre il rischio di morire disidratati.
Il caffè e i biscotti hanno esaurito la loro funzione e la mia fame, a sorpresa, è divenuta forsennata. Prima del fiume, c’era un frutto caduto che avevo raccolto per saggiarne la commestibilità, ma l’indio, con la sua figura slanciata, sembrava già allungasse il passo per scomparire. Lanciai il frutto a terra per restare incollato alle spalle della mia guida: se avessi osato fermarlo, comunque, come potevo interpretare la sua riposta? Aveva gli occhi di un uomo sconvolto dal terrore, attento a ogni mio minimo movimento: mi avrebbe fatto mangiare anche del veleno se avesse potuto.
L’idea di bollirlo non era così stupida: di lui so che posso fidarmi se immerso in una pentola.
Intanto il fruscìo dell’erba si impone nello spazio, ma è troppo tardi.
Mi alzo e impugno la pistola.
Arretro… la testa trapezoidale dal terreno ha mostrato già il suo dorso. Procede con calma, non vuole me ma l’indio, sa che il suo corpo a terra è indifeso.
Arretro ancora, ma di qualche passo.
È un anaconda enorme. È qui per la mia guida, con me è gentile, cerca un accordo, una trattativa senza rischio di lotta.
La paura però ha superato vari stadi, sincope da terrore, orripilazione tremante, respiri secchi, fino alla frenesia fulgida di ferocia animale che mi si impossessa: sono passato dal panico della preda a un indefinibile sentimento di rivalsa.
Probabilmente lei (non può che essere una femmina) mi sta parlando, materna e comprensiva nelle sue macchie nere su dorso marrone, sicuramente più chiaro se non fosse per l’opaca pastoia di questo verde che ci frana addosso.
Si muove ancora lenta, non si sente completamente sicura, ma è determinata, ignara della mia pistola.
Potrei sparare in aria e farla fuggire, ma voglio testare la sua ostinazione, osservare come apre le fauci per ingoiare il mio fugace amico, cosa che non credo farà in mia presenza. È troppo educata.
Penso anche che dovrei mettermi mani sul terreno e attaccarla come un giaguaro, difendere la mia preda e sentire il suo morso prima di essere attorniato dalle sue spire nell’attesa di spararle a colpo sicuro. O magari attendere il suo ventre sul mio petto e far fuoco, col proiettile che ci buca entrambi. Morire assieme in un abbraccio, anche se così sarei più sicuro della mia morte che non della sua, e sarebbe poco elegante.
Il serpente si accorge che avanzo. Conto i proiettili della pistola e quelli del caricatore nello zaino. Non ho idea di quanti siano, ma sono tanti.
Per la serpe ne basta uno, perché poi toccherà a un puma, un caimano o un boa, un gufo nella notte o un ocelot o qualsiasi altra bestia.
Accumulerò tutte le mie prede sotto questo scuro igloo verde-aria e scaverò una fossa sotto di loro per nascondermi e prepararmi all’ultimo colpo. Per l’unico animale rimasto vivo.
Ma tu indio, no, tu ne sarai fuori: tu non fai parte di noi, sei solo una stupida esca, un verme, un decomposto di carne e tradimento, un ladro vile di amori altrui.
Punto la pistola verso l’anaconda, alzo gli occhi: il manto azzurro-verde del giaguaro è in movimento.
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La foto di copertina è di Mikenorton (Own work) [CC BY-SA 3.0 or GFDL], via Wikimedia Commons