Sono una donna del lutto, ebbi un uomo al mio fianco, un valoroso soldato. Preferirei dire di averlo perso in guerra, in una gloriosa battaglia, ma disonorerei la sua memoria e la mia se lo facessi. Oggi, che di tali tempi infausti ben poco è rimasto – sono trascorsi anni oppure decenni –, solo una cosa alberga in me, impressa come un marchio: la memoria della disgrazia che mi colse. Tutto il mio corpo è asciutto, secche le dita e la pelle del volto, arido il cuore e il ventre, eppure ho forza vitale a sufficienza per narrare le mie vicissitudini per l’ennesima volta.
La campagna iniziò d’estate, la conquista fu facile e la resa incondizionata. Sembrava tutto nell’ordine naturale delle cose: l’assoggettamento della popolazione locale e l’imposizione delle condizioni dei vincitori sui vinti. Fu però commesso un grave errore, ovvero non si tenne in conto l’insorgere della maledizione che spazzò via peccatori e innocenti.
La voce della sciagura mi arrivò quando già non avevo più notizie di Tucidide, mio marito, né più lettere né telegrammi.
Ogni giorno mi facevo leggere i dispacci sperando che il male se ne andasse, invece la situazione precipitò in fretta.
All’inizio si mormorò che colpevoli fossero gli invasori, accusati di aver inquinato le cisterne mediante veleni chimici. In realtà, il morbo era comparso per la prima volta in Etiopia, al di là dell’Egitto, diffondendosi a ritmo impressionante in tutti i territori affacciati sul mare. Nella speranza di trovare assistenza, la gente dalle campagne cominciò a riversarsi nelle città, in baracche soffocanti o in luoghi pubblici, per strada o sotto i ponti, ma ciò non fece altro che produrre un gran numero di sfollati. La malattia, inoltre, pur colpendo solo gli uomini, uccise anche gli uccelli e i quadrupedi che si erano cibati delle povere spoglie. In breve, le acque imputridirono, l’aria divenne tossica, i bestiami e i raccolti furono distrutti.
Non si riuscirono a individuare cure efficaci e non ci fu nessuna guarigione. In pratica, i medici non ci capivano niente, la malattia era al di sopra della loro scienza. Solo i sintomi del contagio erano noti: in un primo momento il malato era assalito da forti vampe di calore al capo accompagnate da arsura e spossatezza; subito dopo cominciavano a manifestarsi in tutto il corpo escrescenze terrificanti. Poi il male aggrediva gli intestini provocando una violenta diarrea. La cosa più sinistra di tutte era la cecità che, allo stadio terminale, avvolgeva il malato in un biancore lattiginoso, quasi a volerlo preservare dalla vista orrenda del proprio corpo. Quest’ultimo elemento non era mai stato riscontrato in nessun’altra patologia e non si comprendeva se fosse un sintomo fisico oppure un’allucinazione.
Tutti in patria speravamo in una ritirata dei nostri soldati ma, fino ad autunno inoltrato, non arrivò alcun comunicato. Era già inverno quando si venne a sapere che le attività belliche erano cessate. Nella prima settimana dal contagio il corpo di spedizione iniziale fu ridotto a un terzo delle milizie; in capo a pochi mesi fu decimato. Ovunque la gente moriva come mosche; furti, rapine, violenze e omicidi erano all’ordine del giorno.
Le compagnie superstiti, prive di munizioni e senza più scorte alimentari, si raccoglievano in avamposti allestiti sulle macerie di casolari in abbandono o vecchi capisaldi nemici. Ormai l’unica soluzione possibile rimaneva la ritirata. La scelta più sensata era percorrere le vie d’acqua o, meglio ancora, i sentieri boschivi paralleli a questi, dato che le strade cittadine erano infestate dai ciechi che, pazzi di sete, si tendevano disperatamente alle fontane e si voltolavano strisciando per terra.
Visto che da noi non si era ancora avuto nessun caso né decesso misterioso, stentavo a credere fino in fondo alle versioni ufficiali e temevo che la verità fosse tenuta nascosta. Finché un giorno il parroco non affisse sulla piazza del paese stralci di cronache in cui si vedevano uomini e donne agonizzanti, coi volti scarnificati, in fuga, senza più indumenti addosso, e cadaveri ammucchiati alla rinfusa.
Queste immagini mi prostrarono profondamente e non potei far altro che aggrapparmi a una fede che si fece via via sempre più salda.
Mi condussi così, speranzosa e disperata a un tempo, sin quando non avvenne un fatto assolutamente prodigioso. Era già marzo, il sole mattutino splendeva tra i monti, l’aria ingentilita dal soffio di scirocco. Me ne andai al fiume a lavare i panni, come unica compagnia i miei affanni. Sentivo sotto i piedi scalzi l’erba soffice, i sassolini viscidi e l’acqua fresca che mi sfiorava i talloni. Nella serena contemplazione del paesaggio mi sentivo parte dell’universo, nient’altro che uno degli elementi naturali del creato, senza maggiore né minore importanza degli altri. Abbassai le palpebre e, guidata dalla corrente, feci qualche passo. Mi trovavo in acque non più profonde delle mie ginocchia quando sentii un suono assordante, come il boato prodotto da un tuono. Pensai fosse una vettura o un velivolo, aprii gli occhi, mi guardai attorno ma non scorsi nulla, a parte una barchetta attraccata sulla sponda opposta. Poi vidi e, allora, temetti d’impazzire: a non più di un metro di distanza dal punto in cui mi trovavo, un mulinello delle dimensioni di una ruota di carro ribolliva e vorticava in cerchi schiumosi, sollevando in aria una coltre biancastra di vapore acqueo. Terrorizzata, mi voltai verso la riva e cominciai a correre. Non so quanto tempo impiegai a raggiungere quel tratto di argine riparato dalla vegetazione al cui suolo mi gettai ancora tremante. Avevo gli indumenti bagnati e i capelli fradici; strinsi le braccia al petto e scoppiai a piangere. Proprio in quel momento udii un sussurro, un flebile respiro da animale ferito. Mi voltai e scoprii una tetra sagoma acquattata tra i cespugli.
Era un uomo magrissimo, senza capelli e con la pelle del volto coperta da una fioritura di bubboni sanguinolenti. Lo copriva un lungo pastrano che lasciava nude le gambe livide e piene di ulcere. Fissava nel vuoto con occhi magnificamente grandi: era cieco oppure fuori di senno. Il male che tanto avevo temuto si mostrava a me in tutta la sua prorompente forza. Sfiorai coi fianchi i giunchi che oscillavano stancamente in balia del vento e mi avvicinai al malato. Ma lui allungò la mano, come a dire «Non avvicinarti». Nonostante la distanza che frapponevo tra me e lui, lo stesso riuscii ad avvertire il suo alito fetido. Sarei dovuta scappar via, eppure qualcosa, lo strano magnetismo esercitato dal suo sguardo, mi immobilizzò. A un tratto tirò fuori la lingua e sputò un piccolo fiotto di sangue, poi disse: «Il nemico è preso, sconfitto!»
La smorfia che gli solcava le guance tradì l’enorme sforzo che il parlare gli costava. Dopo queste parole fece una pausa, poi, forse eccitato dalla mia presenza, scattò in avanti e con voce roca urlò: «Odi il rombo dei cannoni?»
Uno starnuto e una raffica di colpi di tosse lo interruppero atrocemente. Non avevo modo di aiutarlo per cui attesi che si riavesse; infine proruppe: «Tucidide è fuggito! Trovatelo, presto!»
Rabbrividii. Che significava questo? Forse Tucidide era ancora vivo? Oppure quell’uomo era un suo compagno d’armi? Ebbi l’istinto di avventarmi sul moribondo e chiedergli del mio uomo, ma la sua estrema debolezza mi dissuase dal farlo. Era meglio non affaticarlo e lasciare che le parole sgorgassero spontaneamente seguendo il flusso irregolare delle emozioni e dei ricordi. Scrutavo quella triste figura con un’assurda speranza, cercando di cogliere ogni minima espressione, l’orecchio teso a scovare conferme. A un tratto la fronte dell’uomo si distese conferendo allo sguardo una tale placidità che quasi temetti la sua ora fosse giunta. Invece quello parlò ancora: «Proiettili sibilano sinistri; crollano palazzi, cattedrali, ponti. Il pozzo ribolle, brucia la torre, la gola, la gloria, i giorni migliori, la giovinezza. Avanzo al freddo, la marcia penosa, tra rovi e vegetali maledetti. Attenti ai ciechi! Si aggirano famelici tra fango e sepolcri, come avvoltoi si avventano sui reduci: strappano a morsi carne e ossa, spiluccano cervella, staccano occhi dalle orbite. Intanto i fiumi straripano, s’ingrossano del sangue dei morti. A nulla valgono i proclami di morte, nessun dio verrà a raccogliere le suppliche. Meglio imprecare, rendere l’anima, barattarla in cambio della morte. Io non ho più cuore, né mani, né occhi. Ho un’unica speranza: che la notte mi doni l’immagine adorata del volto di mia moglie.»
Ero come rapita, incatenata all’eloquio sconnesso eppure chiarissimo. Il sogno evocato da quel fantasma era un incubo a me fin troppo noto. Che pena il lento riaffiorare degli antichi lineamenti, il riconoscimento della cara fisionomia occultata dall’imputridimento. Non avevo più dubbi, mio marito tornava a me dall’inferno. Esaltata dal mio convincimento, mi gettai ai suoi piedi, coprii le sue gambe con la mia veste e strillai: «Mi riconosci?»
Le pupille di Tucidide brillarono ancora un attimo prima che il suo stomaco fosse squarciato da ondate di nausee accompagnate da spasmi tremendi. Probabilmente era sprofondato nella demenza, perso tra le ombre generate dalla sua mente febbricitante. Non ho cuore di descrivere la virulenza con cui l’attacco finale della malattia si rivelò in quel momento, ma dirò che fu più maligno di quanto le difese in mio possesso non tollerassero. Non racconterò nemmeno cosa ne fu di lui in seguito a quell’incontro, sebbene il rimorso mi faccia ancora avvampare. Ritornai in quel luogo solo una volta, per accertarmi della fine delle sue sofferenze. Ma la vera tragedia fu la vita che venne dopo e che, tuttora, non vuole fuggire dal mio corpo. Probabilmente la mia anima è rimasta aggrappata a Tucidide e il chiarore cieco che da allora illumina in eterno i miei ricordi, non è altro che la giusta condanna di quel male di cui sono l’unica sopravvissuta.