Compadres,
come già accaduto altre volte (qui e qui ad esempio) mi viene di condividere con voi certe illuminazioni notturne. In certi casi queste illuminazioni sembrano cose scontate, evidenze. Eppure c’è chi ha detto che “una tautologia non è solo una tautologia”.
Allora, per riprendere il discorso sulla scrittura e sul romanzo (una cosa che ho accennato in un intervento recente sul blog del nostro amico Andrea Meregalli) vi devo raccontare un paio di fatti. Dice Cortázar, il Cortázar cha ha cominciato a lavorare a Rayuela (lettera a Jean Barnabé, Giugno 59):
Un racconto è una struttura, però ora devo destrutturarmi per cercare di raggiungere, non so come, un’altra struttura più reale e veritiera; un racconto è un sistema chiuso e perfetto, il serpente che si morde la coda; e io voglio farla finita con i sistemi e l’orologeria per cercare di scendere al laboratorio centrale e partecipare della radice che prescinde dall’ordine e dai sistemi.
Prendiamo questa opposizione racconto-romanzo (forma breve-forma estesa; forma chiusa-forma aperta) e allarghiamola. Mettiamola a reagire con un’altra opposizione, ancora più fondamentale: quella tra critica (saggistica finanche scientifica) e invenzione letteraria (prosa o poesia poco importa qui). In questa seconda opposizione l’elemento fondamentale è il come-volevasi-dimostrare: quella tensione alla soluzione razionale, alla chiusura del cerchio propria della scrittura critica, alla dimostrazione di qualcosa.
Ecco, dall’incrocio di queste due opposizioni, mi pare (questa è l’illuminazione notturna) viene fuori l’essenza del romanzesco.
Il romanzo, nella sua essenza, non ha fine, non può finire – è la forma aperta, non-dimostrativa per eccellenza. Quando pure un romanzo finisce, la sua fine non dimostra niente. Il romanzo perfetto, in questo senso, è Il castello.
Un’altra cosa viene fuori: l’attitudine romanzesca nella scrittura non è neutra. Al contrario, è un modo del pensiero, un ethos: vuol dire non tentare più la soluzione e la definizione, non darsi più risposte, non dimostrare mai niente, lasciare tutte le porte aperte, sguazzare nel dubbio. No, non il dubbio cartesiano né il non-sapere socratico. Volevo dire sguazzare in un magma che precede la parola.
(Non è mica magia, oh! C’è un area del cervello, il nostro caro cervello uguale uguale da migliaia di anni, adibita alla cosa, allo ” sguazzar m’è dolce in questo mare” – ma non ditelo in giro se no poi dice che si perde la magia, la ilusión della letteratura, e allora saremmo costretti a chiederci a cosa serve, dove va, chi è, da dove viene. It’s Friday, compadres, take it easy).