Ho rubato una macchina e adesso me ne sto al tavolo a bere Ceres Royal mentre le casse diffondono One Day di Asaf Avidan. Gli occhi mi slittano via, si piegano a terra. Questa canzone mi sta sul cazzo, perché la adoro. Qui dentro qualcuno si lascia portar via come me dalla corrente del suono, chi sa dove. Ho il cervello che mi scivola tra i tavolini. Lo sguardo che corre in continuazione. Un giorno saremo vecchi, dice. Un cazzo, penso, ora come ora non mi so vedere da vecchio. Ora come ora, nessuno invecchia.
Immagino il mio cervello impermeabile alle emozioni, vedo la mia ragazza che mi ha mollato prima del compleanno mentre dice che a trent’anni è troppo che son senza un lavoro fisso, che non mi può presentare a sua madre in queste condizioni, che non esco con gli amici, che sono un asociale di merda e che son troppo dietro a stronzate che non mi portano soldi. Penso al lavoro alle feste ai viaggi agli amici e ai soldi, tanti soldi. Penso che un giorno sarò vecchio, come dice la canzone, poi recupero gli occhi dall’angolo in fondo dove si erano andati a nascondere e li ricaccio sul tavolino: voglio essere normale. Voglio l’immagine standard. Voglio. Un giorno saremo vecchi, continua la canzone. Un cazzo.
Fisso il pacchetto di Marlboro. Fisso la mia mano che lo sfiora. Fisso le dita che cercano una sigaretta. Bevo la birra. La musica che galleggia nell’aria anche quando è finita. Ma dove cazzo sto andando, penso. Forse quello che è successo è un caso. Forse. Fatto sta che non ci credo, al caso, e non credo al destino e non credo ai segni. Muso Basso non è un segno. Forse pure Jason, non lo è. E questo pub di merda, e la mia cazzo di vita.
La macchina è parcheggiata fuori. E non me ne fotte: ordino un’altra birra e faccio il punto della situazione.
Stamani preparo un paio di panini. Cercare lavoro è un lavoro. Non retribuito, ma che ti fa venire fame. Prendo e infilo in borsa. Scendo. Accendo. Dodici anni di macchina.

Vado. Pochi chilometri e puff, accorto per caso: la ventola s’era accesa a palla tipo elicottero. Fammi controllare cazzo c’ha, mi son detto. Parcheggiato. Alzato il cofano. Olio okay. Ma per scrupolo controllo il radiatore: vuoto da farci l’eco. Liquido?, yuh hu? Per fortuna viaggio con una latta d’olio e una tanichetta per il radiatore. Riempio col refrigerante. Altri cinque chilometri. Alzo il cofano nel parcheggio: motore che fuma, grida che sta morendo di sete o non lo so. Carro attrezzi. Cento euro in nero fino all’autofficina: testa forata. Motore da cambiare. Liquido svanito. Liquido cattivo, tanto cattivo: colpa sua. La mano d’opera, dice, e il resto, son più di duemila euro. Ragiona, ragiona mi dico. Il cervello che comincia a scoccare scosse elettriche. Impulsi a vuoto. Duemila e rotti euro che, poco da fare, non ho. Mantieni il sangue freddo, mi dico. Mantieni. Il. Sangue. Freddo. Gli occhi che corrono lungo la strada, che si fermano in quel bar, che fanno una rapina, e che tornano coi soldi in una busta bianca. Inspira. Lo sguardo che scivola via di nuovo stavolta sul palazzone di fronte che riluce sotto i raggi del sole respinti dai vetri e mi sembrerebbe pure circonfuso di santità, se mi offrisse un lavoro. Cazzo. Espira. Non li ho. Porco di quel cane. Chiamare Jason. Deve soldi. Te li trovo, dico oh, se li trovo, davvero, tranquillo che li trovo. Okay? Okay, dice.
Quando Jason arriva, salto sull’auto e lui schizza via.
«Sei un amico,» dico.
«Non rompere,» fa.
«Cazzo, duemila euro,» dico, «motore da cambiare,» aggiungo.
Silenzio.
Jason mi deve in totale qualcosa come quattromila euro, che regolarmente dimentica di darmi. Mi molla un centino quando capita. Ho detto la cifra che mi serve per un motivo, è quasi la metà di quello che devo avere da lui. Quindi non ha scuse. Sono duemila in meno di quelli che mi deve.
L’abitacolo si gonfia di pensieri che sembra per esplodere. Sto per dirgli che lui i soldi me li deve da un po’, quando si pianta davanti questo cagnolino che ci fa inchiodare. Ci guarda per un secondo, gli occhietti scintillanti come stelline, e scappa via di zampette. Non lo so che cazzo mi prende. Quegli occhi mi si piantano nel cervello. Non lo so. Sempre piaciuti, i cani.
Ma.
Ma quello. Be’, quello lo avevo già visto da qualche parte. Quel cane. Mi sembrava di averlo visto. Mi ha fatto tenerezza perché ho pensato che fosse stato abbandonato.
Tiro un urlo a Jason:
«Seguilo!»
«Cosa?» fa lui.
«Dai, cazzo!»
«Ma perché?»
«Perché cazzo è il cane di un mio amico, sbrigati!» Mento.
Jason fa inversione. Sbuffa. E precisa: «Guarda che c’ho una cena, tra poco,» dice. «Qua, qua!» grido sporgendomi dal finestrino. Forse poche centinaia di metri e il cane lo vedo iniettarsi in una sterrata buia al margine della Statale, nero com’era.
«Là!»
«Dove?»
«Là!»
Sgommata.
Quando lo raggiungiamo, il bastardino s’impala a una quindicina di metri puntando la macchina. Il muso basso sulla terra come se c’avesse un peso dietro al collo che gli tira giù la testa. È proprio giù. Sembra proprio giù moralmente. Jason alza il freno a mano e dice: «C’ho la cena, cazzo». Dalla tasca sfilo un tramezzino.
«Cazzo fai? » Dice J.
«Lo faccio avvicinare.»
Scendo.
Intanto che scarto, Jason tiene d’occhio me e io tengo d’occhio Muso Basso. Jason continua a guardare l’orologio, poi accende una sigaretta. Ho già visto quel cane, mi dico. Ma dove cazzo non lo so. Il collare. La scritta del collare forse mi aiuta.
Riprendo a scartare lentamente.
Volto la testa in là tanto per fare il disinvolto. Muso Basso un po’ più avanti. Lancio un bel boccone vicino a lui.
Il brandello atterra.
Il cane che non se lo caga, che sta così, col muso basso. Basso come un idrovolante che struscia sull’acqua senza atterrare. Un altro. Rimbalza lontano. Muso basso che non lo caga e non mi guarda neppure. Deve averle prese, mi dico. L’aria che tira nella direzione opposta. Lancio ancora.
«Cazzo, muoviti!» dice Jason.
«Aspetta!» Sussurro.
«Cazzo…»
Il cane che adesso ci guarda.
Stiamo immobili. Tutti e due. Tutti e tre. Immobili. I nostri occhi che sciamano uno sopra l’altro scontrandosi come mosche prima della pioggia.
«Dai… cazzo…» dice Jason.
«Zitto!» sussurro.
Jason che sbuffa.
Quando il vento gira, il cane solleva un poco il muso e a un certo punto estrae la linguetta e lecca il naso. Attendo che l’aria raccolga gli odori e li serva belli freschi al cane. Lo vedo che allarga le narici, le punta come sensori verso il bastoncino, e il bianco degli occhietti comincia a roteare sopra quel naso. Ho già visto quel cane, cazzo. Le due narici che palpitano nell’aria.
Muso Basso ci osserva.
«Devo andare!» dice Jason, «c’ho la cena!»
«Ho finito, ho finito!» sibilo.
Lo spazio tra me e il cane è costellato di porzioni di tramezzino. L’aria ha pasturato gli odori. Il cane che le segue col naso una dopo l’altra. Altro tramezzino: faccio un bel rumorino con la carta e una serie di lanci a semicerchio coi pezzi belli grossi e, a un tratto, allunga il collo con gli occhi che ruotano lì vicino. Punta il cannone olfattivo protendendo il busto e barcollando leggermente. Poi osserva me. Voglio dire, negli occhi. Sento che mi sta guardando e pensa a qualcosa, ho la sensazione di vederlo sorridere, che mi stia ringraziando. Le quattro zampette inchiodate a terra come i paletti di un gazebo pericolante. E poi: zam!: estrae la lingua e la fa saltare in bocca con una briciola. E mastica. «Qui!» dico. «Qui! ntz ntz ntz… qui!»
Jason si agita.
«Ssshhhhhh!»
Il cane che osserva immobile.
J. dice di andare. Il cane che lo osserva e incomincia a ringhiare. «Stagli lontano,» dice J., «minimo c’ha la rabbia». Ma io so che non ha la rabbia. Ha le zampe magre di muscoli, il pelo consumato, polveroso, le orecchie accartocciate come piccoli tappeti pelosi appena centrifugati stesi ad asciugare ai lati del muso. Ma non ha la rabbia. A un tratto, una zampetta si scardina dal terreno. Ne lancio ancora. Lo faccio per cavalcare il ritmo, mantenerlo e, zampetta rinsecchita dopo zampetta rinsecchita, Muso Basso sta arrivando, con cautela, afferra un altro boccone. Poi ancora un altro. E intanto si avvicina.
«Muoviti!» Urla J.
Osservo il collare, un affare rosso coi caratteri d’argento sgretolati sopra che non si leggeva nulla. «Cazzo, dai andiamo,» fa Jason, «muoviti!»
«Ssshhh!»
Jason mi getta un’occhiata scura, e riaccende il motore.
Sto frugando in tasca per cercare un altro tramezzino quando mi accorgo che il cane si è già spazzolato quasi tutti i bocconi ed è molto vicino ma sento che l’auto fa un brusco scatto in avanti e «No!» grido, mentre il cane spaventato già se la sta dando a zig zag verso la Statale.
Scomparso.
«Andiamo!» decide J.
Continuo a fissare la siepe sperando che ne riemerga qualcosa da un momento all’altro.
Jason che mi tamburella dall’orologio del cruscotto.
Jason che mi fissa e tamburella più forte.
Jason che deve andare.

L’auto gratta la terra cogli pneumatici verso la statale. In quel fiume di metallo caldo il cane non si vede più. Non so neppure quante volte continuo a sporgermi dal finestrino, finché mi ritrovo parcheggiato al suo negozio. Ho le gambe che formicolano. Scendo. Le distendo. Osservo i jeans strappati, sciupati e mi vengono in mente le zampe di Muso Basso graffiate, bruciate. Le orecchie rattrappite.

Mi attacco al muro fuori. Jason girella a cercare la sua ragazza. Mi stacco dal muro, sbilenco, barcollo a destra e a sinistra. Mi sento le orecchie allungate, il lobo penzoloni.
Di tanto in tanto Jason esce in perlustrazione,  guarda di continuo in giro, come se avesse da fare, ma non fa nulla, in pratica. Faccio finta di niente, ma penso che se volevamo potevamo cercarlo ancora una mezz’ora. Forse sono innervosito dal suo tamburellare sul cruscotto come se non gliene fregasse un cazzo di Muso Basso. Jason intanto sembra assonnato, le palpebre abbassate come la saracinesca del suo negozio all’ora chiusura. Si gira una sigaretta e si poggia al muro con me. Sto aspettando che mi paghi quel che deve pagarmi. Ma sembra prendere tempo. Sembra essersi dimenticato che sono lì per quello. Mi concentro sulle pietre del pavimento come fossero le pagine di una rivista. Ne conto una trentina.
Jason fuma.
Forse sono arrabbiato con Jason. Muso Basso lo potevamo trovare. Intorno, poster sgualciti come le orecchie di Muso Basso. Raccontano le proprietà del fumo, mostrano un polmone marcio appeso alla parete proprio dove sta Jason. Mi aspetto che si muova, che mi dia i miei fottuti soldi. Ma cazzo lui sorride. Come se non ricordasse perché mi è passato a prendere. Il suo sorriso è accompagnato dal fumo della sigaretta. E mi immagino i suoi polmoni. Subito dopo mi frugo nelle tasche. Le dita che brancolano in cerca di qualcosa come quelle narici che scansionavano l’aria. Una gomma, qualcosa, una caramella. Nulla. Ho voglia. Non ho voglia. Invece ho voglia e non ho nulla. E ricordo che ho smesso di fumare più di tre mesi fa per via della mia ragazza. Vaffanculo.
Sulla panchina a ridosso della porta, noto un coniglio. Lo avevo percepito, ma non mi ero veramente accorto che fosse lì mentre Jason girellava. Sembrava finto. Forse era finto. Ma io pensavo a Muso Basso. Come si può tenere un coniglio e voler abbandonare un cane? Sono nervoso. Voglio i miei soldi. Voglio levarmi dai coglioni.
«Jason!» urlo.
Lui si volta. Stava leggendo una rivista, e non mi ero neppure accorto che l’aveva presa.
Jason è questo ragazzo che gestisce il negozio di strumenti musicali vicino al mio monolocale: affitta sale prove, fa piccoli lavoretti di riparazione. La presa al monolocale l’ha riparata lui: gli ho fatto un caffè mentre spelava fili e sono andato a trovarlo qualche volta. E poi gli ho venduto la mia batteria. Ora la suona un tizio grasso che sta qua vicino. Per racimolare qualche extra lancio dalla mongolfiera la zavorra: mobili, libri, vestiti. Jason raccoglie tutto quel che lancio e lo trasforma in denaro.
Prende in braccio il coniglio e intanto si fa fuori almeno un quarto di birra con due lunghi sorsi, poi mi guarda: gli è piaciuto, al tizio, dice. Te l’ho venduto. E mi molla addosso il coniglio. Quindi corre a prendere una confezione da sei di Beck’s. Sono intimidito dagli occhi tiepidi dell’animale puntati su di me come fari neri. Lo accarezzo, gli sussurro qualche parola e lui rilassa il pelo pezzato di nero. Gli sorrido. Quando torna Jason brindiamo:
«Alla tua,» dice.
«Cin!»
Prendo un sorso mentre J. trasferisce il coniglio dalle mie alle sue braccia facendosi fuori il resto della bottiglia e ci rimettiamo ad accarezzare l’animale.
«Tieniti qualcosa,» dico.
J. beve scuotendo la testa mentre regge il coniglio con l’altro braccio. Poi fruga nel tascapane vicino alla panchina e sfila una busta. La fisso. Vedo la mia macchina riparata. Vedo un paio di jeans nuovi. Si passa la lingua sulle labbra mentre la apre, bella gonfia di banconote. Le conta e annuisce mentre la tiepida luce autunnale si riversa di taglio sulle nostre guance. Quando me la passa la metto in tasca e rilasso finalmente i muscoli. Cazzo.
Ci scoliamo diverse birre mentre il sole si inabissa all’orizzonte perdendo luminosità. Scorre la mano dolcemente sul pelo morbido del coniglio, mi fa venire in mente un padre che si prende cura di suo figlio. Osservo. Okay, è un bravo ragazzo, decido. Mi ha dato i soldi per la macchina. Beviamo ancora finché la luna piena incomincia ad accendersi come una lampadina a basso consumo: guardiamo entrambi quella lampadina. La stiamo ancora guardando quando Jason mi fa notare che c’è un viso lì sopra ma non capisco cosa intenda dire.
Mi concentro.
«Lo vedi?» insiste, puntando il collo della bottiglia verso il cielo.
«È vero…»
Annuisce. «Tu pensi a quel cane.»
Silenzio.
Il cielo è arancione e liscio. È venato soltanto dalla riga bianca di un aereo. Jason incolla gli occhi sulla scia. Fuma e dice che non è condensa quella scia e io lo sto a sentire e intanto osservo il fumo della sigaretta salire fino alla luna bianca. A un tratto scrolla la cenere in avanti, la faccia nascosta dietro una tendina di dreadlocks:
«Noi mangiamo qui, stasera, ti fermi?»
Passo le dita sul pelo del coniglio, lentamente: «Okay.». Così rimedio pure una cena, mi dico. Di tornare a casa, col cazzo. Riprendo ad accarezzare l’animale. Ha il pelo molto morbido. E mi osserva come se si sentisse al sicuro. Lo guardo, e gli sorrido. Poi lo bacio sulla fronte. Ci guardiamo come fossimo allo specchio, io e il coniglio. Jason estrae dal tascapane un cubetto di fumo. Poi sfila un pacchetto stropicciato di Marlboro dal giaccone e me lo porge:
«Era in una delle borse che avevi lasciato.»
Me lo rigiro tra le mani:
«Hai l’accendino?»
Una Opel sgangherata parcheggia sul vialetto. Un ragazzone in tuta da lavoro comincia a scaricare sacchetti dal bagagliaio e dice: «li attacco qui» pizzicando il cavo per gli annunci come la corda di un violoncello.
Jason appende gli annunci importanti fuori dal negozio: scrive tutto su un foglio che attacca al cavo. «Hai un coltello?» chiede il Ragazzone a J., Jason allora entra in negozio e ricompare con un coltellino appena lavato.
Ragazzone sistema le bottiglie d’acqua sul tavolo, io faccio saltare il tappo di un altro paio di birre.
«Hai mica delle bacchette?» chiedo.
Jason posa il coniglio in uno scatolone, e torna con un astuccio pieno.
«Prendi quelle che vuoi.»
Quando tutto è ordinato all’ingresso, il Ragazzone si dirige verso lo scatolone, accarezza l’animale raggomitolato su un fianco che respira come il gatto meccanico, quello che avevo regalato a mio nipote l’anno scorso: alza e abbassa lento lo stomaco, ritmicamente. Il Ragazzone lo solleva per il collo e dice: «Okay…» quindi bacia l’animale sul pelo, lo posa nella scatola e lo incappuccia con un sacchetto nero. Poi si allontana gettando lo sguardo ovunque. Il coniglio ha la testa nascosta dalla plastica: contrae lo stomaco come se stesse correndo i cento metri. Cristo, mi sta mettendo ansia e non assomiglia affatto al gatto meccanico. Il gatto meccanico respira lentamente, ti mette tranquillità. Questo pare stia soffocando. Idiota, penso, ma che cazzo fai?
Quando mi avvicino per liberargli la testa, Ragazzone torna con un grosso tubo di metallo scuro che sembra essere una porzione di impalcatura arrugginita. Jason allora si avvicina e gli sussurra sul collo. Osservo immobile. Il cappuccio che si gonfia e si sgonfia velocemente. La piccola testa immobile. Il ragazzo che lucida il metallo.
Ma non dico nulla. Cerco di spostare l’attenzione accendendo un’altra sigaretta.
La pelliccia della bestiola freme come sotto a un acquazzone. Prendo le bacchette e porto via il culo. La birra in mano, sto entrando dalla porta d’ingresso, mentre la spranga si alza perpendicolare. Mi volto di scatto. Devo rimanere voltato, mi dico. Non azzardarti a guardare, entra e basta. Mi irrigidisco. In quel momento vedo il metallo scendere come una mazza di buio puro.  Resto in attesa, come se il destinatario di quel fendente fossi io. No. Per un secondo sono davvero io. Ma è come se mi preparassi a ricevere il colpo da dentro. Chiudo rapidamente gli occhi e mi stringo penosamente nelle spalle. Per difendermi dal rumore tento di tapparmi le orecchie col cervello pensando alla musica. Ma il tonfo invade i timpani come una cannonata. Sussulto.
Sento rovistare nel sacchetto. È finita, mi dico. Andata. Rilascio i muscoli. Rilascio anidride carbonica alla birra. Ma non mi sento affatto meglio. Riapro gli occhi.
«Ho detto sul collo!» grida Jason.
Merda
Silenzio.
La sbarra che si riposiziona perpendicolare. Mi dirigo velocemente verso una batteria qualsiasi, all’interno, dove spero di non vedere, ma quando la trovo c’è una vetrata. Loro proprio davanti. Il tubo adesso è energia in potenza. Mi immobilizzo ancora. Una potente ondata vibra le pareti di vetro fino dentro al cervello. E di nuovo quel colpo lo sento dentro.
Ingoio birra, cerco di depositare alcool nello stomaco il più velocemente possibile. Bevi, bevi.
Immagino una canzone rock, la uso per sovrastare il rumore dei colpi. Comincio a picchiare sul rullante e a pedalare sulla cassa e vado avanti così due o tre minuti. Poi mi appoggio su me stesso. Le orecchie che riprendono man mano confidenza col silenzio. Il mio respiro affannoso. Il coniglio che respira dentro di me. I fendenti che gli piovono in testa. I fendenti che mi piovono dentro. Sento rimbombare qualcosa. Sbatto gli occhi. Mi accorgo che è tutto nella mente, è tutto nella mente. Ripongo le bacchette, raccolgo la Beck’s, ed esco.
«Tra poco ci siamo…» scandisce Jason.
«La griglia è quasi pronta» sorride la sua ragazza.
Non rispondo.
Lascio vagare lo sguardo in silenzio. Il gatto meccanico che fa le fusa. Il gatto rilassante. Il coniglio ansioso. Io ansioso. La ragazza di Jason che sta tagliando le carote e le cipolle seduta sulla panchina. Sorride, mentre io vedo soltanto le gocce di sangue sul pavimento e intorno al tavolo, sulla porzione della panchina libera. La ragazza ancora sorride e io vedo sul suo braccio piccoli schizzi rossi. Lei sorride, mentre il legno pallido se li mangia, gli schizzi, assorbendoli nelle fibre. Jason che arriva con una spugnetta insaponata da passare sul sangue del tavolino. Sorridono. Mentre il ventre mi prende a pugni. La spugnetta sotto al rubinetto che lascia fluire via una schiuma rosa.
Il coniglio è appeso all’ingiù dal filo degli annunci. Il Ragazzone gli sta sfilando la pelliccia dalle caviglie come fosse il soprabito di una signora. Il coltellino che ora sembra ricoperto di ruggine rossa, il ventre dell’animale che gli guizza l’ultimo getto d’urina in faccia. Lui che incide con violenza il collo finché la testa si stacca in mano. La sigaretta che arde da un angolo della bocca. Quindi si rivolge verso di me sorridente. Istintivamente abbozzo qualcosa di simile a un sorriso anche io. Ma il mio è un gesto morto, i muscoli che artigliano le guance da soli. Io non ci sono. Zero sentimento. Io sono appeso a quel filo. Le interiora che vengono adagiate in una bacinella di plastica. I polmoni lucidi, sani. L’odore di sangue che aderisce alle narici.
Jason cerca di sciogliere del fumo nel palmo. La canna aperta col tabacco sul tavolino. La canna, le sue viscere. Il coniglio, le sue viscere. Occhi sbarrati come grandi biglie nere.
Jason chiude la canna. Il Ragazzone simultaneamente svuota le interiora nel sacchetto. Niente più viscere di nessun tipo: il coniglio è vuoto; la canna è pronta. La testa mozzata affonda in una bacinella dove galleggiano verdure ripulite. L’odore di fumo aleggia intorno al tavolo dolciastro come una torta in forno.
Mi siedo sulla panchina e sfilo di tasca la busta. Almeno con questi domani ci ripiglio l’auto. Mi sento vuoto. Sviscerato.
Apro la busta e conto i soldi: cento, duecento… quattrocento, cinquecento. Punto. Cazzo, cinquecento. Cinquecento del cazzo.
«Apparecchiamo?» canticchia Jason dietro di me, sfregandosi le mani.
Infilo tutto nella busta e schizzo fuori pensando ‘fanculo, ‘fanculo cinquecento ‘fanculo Jason, ‘fanculo coniglio, ‘fanculo. O forse l’ho urlato e basta.
Quando arrivo alla macchina di Jason, metto in moto e l’auto avanza. Jason e gli altri che mi guardano. Io che premo sul gas e sgommo via. Gli occhi del cervello ancora piantati su quel torace che si alza e si abbassa. Poi sulla busta. Alza, abbassa. Piena, vuota. Vivo, morto. Circuito aperto, circuito chiuso.
Circuito chiuso.
Al primo stop m’infilo una gomma e osservo il cielo masticando: il sole è scomparso. La luna galleggia tonda e diffonde la luce come un occhio di bue galattico. Idiota!, urlo nell’abitacolo. Nel retrovisore una macchina lampeggia: rispondo con un cenno della mano. Forse sono scuse o forse è un ‘fanculo fatto male. L’auto che m’aggira lentamente con dei colpetti di clacson. Spengo il cruscotto e prendo un respiro. Apro la portiera fingendo un guasto mentre la vettura si allontana silenziosa scomparendo lungo la statale.
Sopra di me il faro lunare è al massimo. Accendo un sigaretta, fumo addossato alla portiera mentre una scia luminosa invade la statale: fanali che scivolano sull’asfalto.
Comincia a fare freddo.
Il cellulare squilla. Lo raccolgo dal sedile del passeggero mentre lampeggia il nome di Jason: acceso, spento. Fumo ancora un po’, mi dico, il tempo di una sigaretta. Il cellulare che continua a lampeggiare, chiudo gli occhi e li riapro: la statale è una scia colorata. Quella scia diventa un fiume. Quel fiume ha un suono. Scroscia. In quel momento mi viene in mente Muso Basso. Chi sa se se l’è cavata. Almeno ha mangiato un po’, mi dico. Oggi non muore di fame. Oggi non muore. E lo guardo. Lo guardo di fronte a me sovrapporsi alla statale. La mia mente piantata nei suoi occhi.
Tu sei una persona, sento risuonare nel cervello con una voce diversa dalla mia. Lo sguardo di Muso basso imbrigliato nella mia mente. Tu sei una persona, ripete le voce dentro di me. Il silenzio che svuota l’aria. Acceso/spento. Vivo/morto. Piena/ vuota.
E non so il perché, ma l’unica cosa cui riesco a pensare adesso è che devo trovare quel cane. Cazzo, non lo so perché. Forse perché voglio che diventi vecchio. Almeno lui. Forse, voglio solo portarlo con me, e vederlo invecchiare. Non lo so. Non so neppure perché m’è venuta sete. M’è venuta sete, di quella cazzo di Ceres.