Guardando a Voragine attraverso le parole di Massimo Cacciari «Dopo l’ultimo giorno».
Queste pagine su Voragine, il romanzo di Andrea Esposito (il Saggiatore, 2018), non sono una recensione né un saggio. Cosa che richiederebbe una minuziosa analisi critica della forma raffinatissima di questo testo, oltre che uno studio accurato dei riferimenti che in esso sono contenuti. Ciò che desidero qui è presentare al lettore quest’opera attraverso un percorso di specchi. Poiché credo, innanzi tutto, di non essere in grado né di avere la voglia di addentrarmi in un lavoro tale ma, prima ancora, sostengo la presuntuosa opinione che un’operazione di questo tipo sia del tutto sterile, in questo caso, e che non possa in alcun modo restituire al lettore accorto la potenza mistica che Voragine racchiude. Vale a dire l’aspetto per me più importante e l’unico al quale in questa sede mi preme dare risalto.
Pertanto, per farlo, ho scelto di utilizzare le parole che Massimo Cacciari dedica all’opera di Samuel Beckett nel suo saggio «Dopo l’ultimo giorno», frammento conclusivo di quel lungo ragionamento che è Hamletica (Adelphi, 2009). Giacché «mi è sembrato di cogliere […] inaspettati e inquietanti rapporti, che ho cercato qui di chiarire e sviluppare» a modo mio.
In questo libro Cacciari segue un filo immaginario che parte dalla figura di Amleto e, passando per il K. del Castello, arriva ai fantasmagorici personaggi smarriti nel vuoto beckettiano. «Il percorso è quello dal to do, dall’agire che ancora sembra poter ‘decidere’ […] a quello esausto, e perciò stesso inesauribile di Beckett». Di cui trovo che quello di Esposito sia il naturale inestinguibile prolungamento.
«”Il mondo stava per finire” […] L’artista dell’ultimo giorno ne è cosciente e trattiene la mano. La sua opera tende allora a diventare un indugio. Egli cerca. La sua opera diviene uno sperimentare. Ma l’indugio nell’experiri non può durare eternamente, se non trasformandosi in fine e negando così se stesso. L’attesa della decisione rimane nell’orizzonte della decisione e della sua idea si alimenta. Sull’artista dell’ultimo giorno incombe la necessità della scelta: o ‘purificare’ l’immagine fino al punto che questa, cessando di essere la «rivale illecita di ciò che esiste», appaia un mondo in se stessa, oppure «spegnere ogni fonte di luce» e condurre ogni parola al perfetto silenzio». Qui Massimo Cacciari, per parlare dell’opera di Beckett, prende l’aire descrivendo uno dei Racconti in sogno in cui Bonnefoy immagina «l’artista dell’ultimo giorno». Il cui compito fondamentalmente è quello di ‘farla finita’, di giungere alla fine. Beckett si pone «oltre l’artista dell’ultimo giorno» ci dice Cacciari. «E per lui significa: oltre Joyce». In poche parole, la sua istanza è: non è più possibile rappresentare alcunché. «Il mondo di prima è passato insieme alle parole che ne erano le immagini, che lo ‘tradivano’ in immagini. Questo non è più rappresentabile – e le parole ne devono esprimere proprio l’irrapresentabilità, fino a trasformarsi in voci, frammenti di voci, suoni più che voci, gesti più che suoni».
«E ora è l’uomo congelato a ripetere quello che dice l’uomo sepolto. Descrive il buio. Nel buio vede le forme delle ombre. Le urla fuori e l’uomo congelato le ripete e le distorce nello spazio vuoto. E ho chiesto alla voce: Che vogliono dire le cose che mi dici. E la voce ha detto che sono le cose che vede e che stanno succedendo. E perché le dici a me. E la voce non ha risposto».
Voragine è ambientato a Roma – è stato detto e ridetto ed è senz’altro vero – ma è una Roma che non è più nulla. È il buio. Appena prima dell’ultimo giorno. Succedono delle cose, c’è un protagonista che incontra dei personaggi. Ha un padre e un fratello. Un cane. C’è un cieco, ci sono ponti e macerie. C’è anche un capitolo, «Assedio», in cui viene descritta la fine di ogni cosa. L’inizio della fine, il momento in cui nasce la narrazione. C’è cibo, disperazione, compassione. Ci sono tutti gli elementi di un romanzo.
Il fatto è che tutto ciò è appena un accenno di esistenza, un riverbero del mondo prima dell’ultimo giorno. «Nudo corpo di quelle cose innominabili, strappate via da ogni discorso».
Tutto ciò è solo silenzio che fa eco nel vuoto.
«Tende le orecchie per ascoltare il primo cenno del treno ma non sente nulla e il suono di niente che ha sostituito il vento riempie l’aria intorno a lui. Resta in piedi in una solitudine tremenda e senza scopo e scolta i suoni di niente che si assiepano intorno e dentro di lui. Ascolto il vuoto sfibrante farsi pieno di silenzio e lasciarlo lì dove nessuno scenderà a prenderlo mai».
«Condurre ogni parola al perfetto silenzio» questo è quanto riesce a fare Esposito. Tornare alla fase dell’attesa.
«Egli cerca».
Si ha sempre la sensazione, leggendo Voragine, che tutto accada e non accada. Le cose si muovono ma in un’immobilità assoluta, un vuoto che porta il nome di «fine di ogni cosa». In un silenzio totale e avvolgente che è in fondo l’unica cosa che resta, l’ultimo lascito delle sue parole, il significato stesso della storia che ci racconta.
«Conosco una storia, dice a nessuno. Un uomo ha fame. Qualcosa lo mangia. Lo mangia da dentro. Non vuole sfamarle. Le cose di dentro. Si cuce la bocca. E io ho chiesto alla voce: Che vogliono dire le cose che mi dici. E la voce non ha risposto».
«Il suo linguaggio dovrà ‘cancellarsi’ fino al punto di trasformarsi in suono, imprecazione, gesto, atto senza parole. Ciò che è innominabile si potrà così mostrare. Beckett ‘assume’ la stessa facies di Wittgenstein».
Mi viene in mente una bellissima definizione del Tractatus di Wittgenstein, che lo configura come una lunga scala a pioli – dove ogni piolo corrisponde a una delle sue sentenze assolute e definitive – ed essa è costruita in modo tale che, arrivato all’ultimo piolo, il coraggioso lettore si ritrovi in assenza della scala stessa. Non a caso l’ultimo piolo corrisponde al famoso aforisma: «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», che mostra proprio l’innominabile di cui stiamo parlando, «ciò di cui non si può parlare», ciò a cui la voce di Voragine non può rispondere. E a cui, non rispondendo, risponde definitivamente.
«Non sente urla e non sente passi. Non c’è nessuno intorno mentre torna a casa. Come se la donna e la figlia avessero portato via anche la gente nascosta nei letti dentro le loro case. Una platea invisibile gli dà le spalle mentre si allontana e viene inghiottita dal buio vorticoso».
«Questo ritmo è quello della totale immanenza. La figura spogliata di ogni ‘ulteriorità’, le figure reciprocamente incatenate dal loro stesso conversare, inchiodate sulla via». Queste sono le figure di Esposito, le figure di Voragine. A malapena tratteggiate, spettri fumosi, non sono davvero fatte di carne, pietra, legno, sangue. Piangono e si disperano ma non esistono realmente. Non hanno un’esistenza vera e propria. E, come in Amleto, nel Castello, o in Molloy, «ancora una volta è il clown, il fool ad avere l’ultima parola». E se per Shakespeare era Amleto, per Kafka era K. e per Beckett era Molloy; per Esposito è Giovanni.
«Dice tutto al vuoto. Fa silenzio ancora e poi riprende a voce ancora più bassa ma sforzandosi di articolare i suoni per farsi capire. E adesso non può sentirmi e non lo sa ma io rispondo. Anche se non ho voce gli parlo dal mio vuoto.
Noi parliamo per non essere inghiottiti dal buio. Poi tacciamo e aspettiamo il buio».
«Ma l’ultima parola è sans, senza se stessa, senza soggetto, verbo, predicato; ignora l’accusativo. Corrisponde a Lessness – e non a Losigkeit, come il termine venne tradotto in tedesco dallo stesso Beckett; Lessness non ha per nulla il senso dello scioglimento, della soluzione, della possibilità di staccarsi-da, di de-cidersi. Lessness è il venir meno di tutto questo». Così Giovanni resta nella condizione del nulla, del Lessness, appunto, del Senza. Il fool di Esposito rimane sospeso dove
«Non ci sono più giorni e il tempo cola come acqua in un abisso.
Il tempo non ha più peso né fine. La notte identica a se stessa e solo il freddo che cresce. Il suo corpo è come un vegetale o come una roccia. La sua vita organica procede senza ritmo. Anch’essa cade nella notte e la attraversa spegnendosi. Ha sempre meno bisogno di dormire. Non prova dolore. Non si ammala. È solo ed è a casa. Coincide perfettamente con il suo tempo senza tempo».
Eppure, rimane ancora qualcosa, in lontananza.
«Anche questa fine non finisce e non finendo finisce».
Esattamente come in Beckett e in Wittgenstein. È nelle ultime due pagine di questo libro – che non riporto qui perché desidero lasciare all’attento lettore il piacere di scoprirle per suo conto – che Esposito scrive il suo ultimo piolo, quello che lascia senza scala, nel vuoto, sospesi sull’abisso. «Qui e qui soltanto può custodirsi l’idea dell’impossibile felicità – qui, aspirando questo vuoto, se ne può conoscere (sapere) la traccia».
In queste due magniloquenti pagine si esprime tutto il significato del vuoto che lasciano le parole di Esposito. In queste due pagine è racchiuso il significato dell’indicibile wittgensteiniano. Il senso dell’invisibile.
Invitiamo l’accorto lettore a gustarsele con attenzione, come un’esperienza, un momento di possibile apertura all’impossibile. Essendo sicuri che egli potrà ricordarsi, in quelle righe, che quando tutto finisce, tutto ha inizio, oltre le parole, oltre noi stessi. Dove l’ego non esiste più. Dove avvengono la nascita e la morte. Nel luogo in cui siamo così profondamente da non essere più niente.
«Il resto è irraggiungibile Silenzio».
Foto di Martha Micali.
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Tutte le citazioni riportate all’interno del testo (eccetto dove indicato) provengono da Hamletica (Adelphi, 2009) di Massimo Cacciari.
Tutte le citazioni poste all’esterno del testo provengono da Voragine (il Saggiatore, 2018) di Andrea Esposito.