La narrazione dei fatti inizia in medias res (con l’eccezione di un breve paragrafo sul Kilimangiaro, da non dimenticare nel corso della lettura): Harry, scrittore in crisi, una gamba in cancrena a causa di una taglio non disinfettato accuratamente, e la moglie Helen (il suo nome appare solo verso la fine del racconto) sono in viaggio in Africa, nella valle del Kilimangiaro, per un safari di caccia (situazione simile a quella di La breve vita felice di Francis Macomber sempre ne I quarantanove racconti[1], anche se con altri risvolti di trama e struttura). Harry e Helen sono in attesa di un aereo (o in alternativa di un autocarro) che li venga a prendere e li porti in ospedale, perché la gamba sia curata, anche se non ci sono molte speranze. Intorno a loro, infatti, si raggruppano già avvoltoi, segno evidente di ciò che accadrà e che pianta più a fondo dentro Harry e sua moglie la consapevolezza della morte:

«Tu non morirai.»
«Non fare la stupida. Sto già morendo. Chiedi a quei bastardi.»
Guardò nel punto in cui se ne stavano accovacciati gli uccelli, grossi e immondi, con la testa nuda affondata tra le penne della gobba. Un quarto scese planando, per correre sulle zampe veloci e poi andare lentamente dondolandosi verso gli altri.

Hemingway fin dall’inizio ci pone di fatto questa evidenza e nell’attesa che si compia, cioè diventi ancora più evidente, da un lato nasconde e cerca di stornarne l’arrivo (compito ingrato affidato alle speranze infondate di Helen) e dall’altro fornisce alcune immagini (gli avvoltoi, e più avanti la iena, quasi allegorie sprezzanti com’è tipico di Hemingway) che in fondo sono la chiave di lettura nascosta, taciuta – cifra in qualche modo dell’intera raccolta di racconti.
Questa certezza di fine, cui Harry non può sottrarsi, provoca verso Helen e sé stesso reazioni diverse, che a loro volta trovano nel testo due forme che non portano a una conciliazione, sebbene si intersechino: il dialogo in senso stretto e il dialogo interiore per mezzo del ricordo e del rimpianto[2]. Ora, il carattere di inconciliabilità è il topos di entrambe le forme dialogiche, eppure da questo scontro tra il ricordo/rimpianto delle cose lasciate incompiute, non scritte, e il dialogo serrato con la moglie nasce l’astuzia narrativa di questo racconto.
Come in La breve vita felice di Francis Macomber c’è qualcosa che viene sottratto alla narrazione, ma se in questo racconto è il piano segreto (il motivo) della moglie che vuole sbarazzarsi del marito, in Le nevi del Kilimangiaro è un momento della narrazione. Gli indizi, di cui dicevo prima, però non sono solo nelle figure allegoriche, ma ci sono momenti del dialogo con la moglie e dei suoi ricordi, dove la contraddizione tra svelare e nascondere è un mezzo che continuamente allude ad altro. Il fatto è che in un primo momento si è portati a credere che si tratti di un tassello (di narrazione) nelle vicende personali tra Harry e Helen, come in questo caso:

«Puttana» disse lui. «Puttana con la grana. Senti? È una poesia. Ora sono pieno di poesia. Di marcio e di poesia. Di poesia marcia.»
«Piantala, Harry, perché adesso devi trasformarti in un demonio?»
«Non voglio lasciarmi dietro nulla» disse l’uomo. «Non mi piace lasciarmi dietro delle cose.»

Oppure dell’insoddisfazione di avere condotto l’ultimo periodo della sua vita nell’inettitudine, avendo tralasciato la scrittura, dedito alla mondanità medio-borghese, in cui l’aveva introdotto Helen e di cui si lamenta stupidamente, incolpando Helen a nome di tutta la classe:

Ecco una storia che aveva accantonato per scriverla più avanti. Ne sapeva di buone di quei posti, almeno venti, e non ne aveva mai scritta una. Perché?

«Diglielo tu perché» disse.
«Perché cosa, tesoro?»
«Perché niente.»

Tutti questi, però, sono motivi inutili, sono finzioni, di fronte alla inesorabilità della morte. – Nel secondo brano citato si avverte inoltre l’intersecazione del dialogo interiore e quello diretto. – Lo snodo narrativo è un altro ancora e senza questo, in fondo, tutto quanto detto fino ad ora sarebbe – come forse è – pleonastico.
Prima, però, di arrivare a questo svincolo, bisogna tornare ancora sulla morte (l’unico fatto che occorre nel racconto) e sulla sua ultima rappresentazione:

Aveva appena sentito la morte ripassare.
«Sai, l’unica cosa che non ho mai perso è la curiosità» le disse.
«Tu non hai mai perso niente. Sei l’uomo più completo che io abbia mai conosciuto.»
«Cristo» disse lui. «Come sono ignoranti, le donne. Cos’è? Il tuo intuito?»
Perché, proprio allora, la morte era venuta a posare la testa ai piedi della branda e lui poteva sentirne il fiato.
«Non credere a quella storia del teschio e della falce» le disse. «Possono essere, altrettanto facilmente, due poliziotti in biciletta, o un uccello. O può avere il grugno grosso, come quello di una iena.»
Adesso si era avvicinata, ma non aveva più forma. Occupava solo spazio.
«Dille di andarsene.»
Non se ne andò. Anzi, venne più vicino.
«Hai un alito pestifero» le disse lui. «Bastarda puzzolente.»[3]

A questo punto, Harry stanco e quasi morente si addormenta. Ciò che viene narrato dopo – spezzando di fatto il finale in due – pare avere l’ambiguità del sogno, nasconde una verità piuttosto apollinea, che si sottende alla storia: non dire tutto, ma quanto basta – inganno del Citerone (o del Kilimangiaro).
Hemingway da subito ha puntato sulla tensione ritmica (quasi jazzistica) ottenuta con l’intreccio dei dialoghi, portandoli a collidere, a mischiarsi, ma prima della fina rallenta, riprende fiato. Dov’è l’inizio – pare che voglia dire –, è anche la fine. Nella frazione di tempo – che intercorre tra il sogno e la morte di Harry – Hemingway traccia la visione iniziale, aerea, dell’arrivo verso la valle del Kilimangiaro. Ed è chiaro a quel punto che anche il Kilimangiaro rientra a far parte del gioco di rimandi (allegorie), si figura nella sua bianchezza come una sorta di antinferno, l’ultimo luogo prima della fine, dell’oblio.
Questa visione – scritta anche con maggiore lirismo, rispetto alla spietatezza di alcuni dialoghi e a una vena nichilistica, che caratterizzano la scrittura di tutto il racconto – per ciò che si dice e, certo, per il luogo che occupa nella narrazione, ricompatta la storia. Tutto è chiaro:

Quindi cominciarono a cabrare, e pareva che andassero a est, e poi fu buio ed erano in mezzo a un temporale, con la pioggia così fitta che sembrava di volare attraverso una cascata, e poi ne uscirono e Compie voltò la testa e sorrise e punto il dito e là, davanti a loro, tutto quello che lui poté vedere, vasta come il mondo intero, grande, alta e di un bianco incredibile nel sole, era la vetta quadrata del Kilimangiaro. E allora seppe che era là che stava andando.

Il fatto notevole è che Hemingway, pure rallentando la corsa verso la morte di Harry, non spezza il tono, il ritmo, al contrario il taglio accentua l’attesa, la visione restituisce quel tassello mancante, cui prima ho accennato.
Il finale è una scena intensa, eppure concisa, immediata. In poche righe accade quasi più di quanto succede in tutto il racconto. Ed è quasi irritante la bellezza delle ultime parole.



[1] Mondadori, 2013 – Ristampa

[2] Le due parti sono distinte nel testo dall’uso del corsivo per il dialogo interiore.

[3] È chiaro anche qui l’incrocio (non segnalato dal corsivo) tra i due dialoghi.