I.
C’era quello che non parlava a nessuno metà steso a terra e schiena al divano. Non era noto ai più come chi non deve niente a nessuno, niente in senso quasi assoluto. Teneva chino il capo per controllare il bisturi stretto a mano destra guantata ferma. Incideva appena sotto il torace. La testa non presentava oscillazioni ed era già un sintomo. Dalla carne recisa non gorgogliava sangue ed era un altro sintomo. Deposto il bisturi, tolto il guanto di lattice, infilava lentamente la mano con il palmo rivolto in alto e questa mano spariva nel corpo troppo magro e spariva il polso e in un modo impossibile da scrivere e possibile da immaginare spariva anche parte dell’avambraccio per muoversi nella gabbia toracica. La spalla si muoveva e così il braccio e presumibilmente la mano fino alla punta delle dita per un lasso di tempo breve a noi e lungo per lui data la situazione. Chi cerca qualcosa con tutto il suo corpo in un posto ai limiti del remoto perché appena del tutto raggiungibile di solito tende alla ricerca anche il viso, c’è proprio un’espressione facciale che esprime la fatica fisica di una ricerca che coinvolge tutto fino alla punta dei piedi: un digrignare dei denti, un corrugarsi delle sopracciglia, un alzarsi di zigomi; tutto questo non lo riguardava. Solo il capo reclinato. Infine alzò lo sguardo alla parete mentre ritirava la mano da dentro di sé e solo a quel punto tradì l’ingestibile solennità del momento. Lo fece con un urlo, non di quelli che scuotono né di quelli che infiammano. Un urlo anch’esso difficile da descrivere e tuttavia anche difficile da immaginare. Chi può figurarsi tono e energia e effetto dell’urlo di chi si scopre mancante dell’organo centrale?
II.
L’appartamento comunicante era luminoso, colorato, vivacemente arredato, questo sì provvisto di balcone e cioè aperto a tutti nel modo discreto e familiare dei luoghi convivibili. L’opposto dell’altro che stentava una finestra.
Se la Vita potesse eleggere un luogo privilegiato, eccolo.
C’era quella che parlava a tutti, dagli umani ai vegetali, che di tanto in tanto usciva fuori al balcone per attività casalinghe come portare i panni ad asciugare o prendere cose alla bisogna.
In un momento, uscì con una boccia di vetro di quelle per i pesci. Conteneva acqua e il mollusco rosso vivente al centro degli umani che però, nella boccia, appariva incolore al punto da non intorbidare l’acqua.
Quella che parlava a tutti poggiava la boccia su un tavolino e si sedeva di fronte a essa, rivolta a tutto ciò che è fuori.
I due appartamenti comunicanti erano in cima a un grattacielo di tal misura che da terra lo si vedeva oltrepassare le nuvole per raggiungere dimensioni sconosciute.
Afferrata la boccia a due mani, mutata espressione dalla serenità al dolore, stillò lacrime che prima di raggiungere l’acqua della boccia brillavano al sole tanto da gettare bagliori tra le nuvole che raggiungevano tutto quanto stava in terra dispensando ciò che più è vicino a una vivifica felicità. Sotto quel grattacielo c’era uno spiazzo di erba e cemento in cui le persone comuni portavano i propri cari di ogni tipo, dagli umani alle piante, e aspettavano che quelle sottili luminose e calde folgori cogliessero i pochi cari per trapassarne gli involucri e lambirne gli umori. Tutti dicono che il contatto degli umori coi bagliori producesse una sensazione come di solletico dentro.
Tornando in cima, quella che parlava a tutti lacrimava nella boccia e così quel mollusco prendeva colore rosso chiaro e si muoveva e tanto da sembrare un pesce palla gonfio di salute che brioso volteggia nello spazio e supera il limite del limite della boccia di vetro gettando sguardi sulla trasparenza e vedendo tutto quanto gli è solo fisicamente irraggiungibile.
Chiuse le palpebre e asciugate le lacrime con uno straccio da cucina, quella che parlava a tutti tornava in casa con la boccia e nei pochi istanti di passaggio il mollusco andava a fondo del vetro e perdeva colore.
III.
Un giorno quello che non parlava a nessuno bussò alla porta sulla parete che faceva toccare i due appartamenti. La donna che parlava a tutti aprì e non disse niente.
«Dammelo, ne ho bisogno».
Quella che parlava a tutti non rispose. Presumiamo non si possa dire niente a quello che non parla a nessuno, motivo per cui non ci stupiamo che quella che parlava a tutti non parlasse a quello che non parla a nessuno. Solo aprì l’anta di un mobile dell’ingresso, prese la boccia di vetro e la poggiò su un tavolo, al centro.
Quella che parlava a tutti e quello che non parlava a nessuno presero posto allo stesso tavolo, opposti l’una all’altro, di mezzo la boccia di vetro.
«Posso?»
Lei lo guardò al colmo di una disperazione inespressa. Lui la guardò, ma cosa può capire quello che non parla a nessuno anche al più eloquente degli sguardi gettatogli in faccia dalla più comunicativa e significativa degli esseri sotto e sopra le nuvole? Allungò il braccio e calò la mano guantata nell’acqua di lacrime di quella che parlava a tutti e afferrò il mollusco e lo cacciò fuori dall’acqua di lacrime di quella che parlava a tutti e non percepiva niente se non il peso che aumentava e aumentava e aumentava tanto che fece appena in tempo a buttarselo nel corpo, il mollusco.
Quella che parlava a tutti si coprì gli occhi.
Quello che non parlava a nessuno si sentì dal centro del petto spingersi a terra, e allora tremava tutto e arrossava tutto e le vene della fronte pulsavano ma solo per l’intenzione di scoppiare e divaricò le labbra e urlò per quel poco che sapeva urlare e a crollo imminente quella che parlava a tutti le porse la boccia dell’acqua di lacrime.
Lui bevve e si fece di nuovo leggero.
Lei tenne gli occhi chiusi e si tuffò nel suo mondo dentro, caldo e immenso e impossibile da dare anche al più spazioso degli esseri.
Il pavimento, frattanto, si allagava di liquido purpureo. Non bastava a raggiungere il balcone e piovere.
*****
Immagine: Maurits Cornelis Escher, Vincolo d’unione, 1956.