I feel blue. In lingua del sì si dice appocundria.
La musica è l’illusione per eccellenza, il seme stesso dell’illusione – la sua natura non-alfabetica, senza-io. La musica e l’élan vital (l’élan vital e lo spleen).
Pino Daniele lo sciamano. Questa capacità di fondere io e noi, dramma individuale e collettivo. Come in questo pezzo suonato a Taranto nel 1982 (“Pino sei la voce del Sud”):
La cosa più importante è “‘o sentimento“. Pino Daniele, negli anni dei successi pop, non si è “venduto”- è un fatto di intensità. Quella forza performativa non può durare sempre, non nel corpo dello stesso individuo. La grandezza di Pino Daniele lo sciamano non sta nella sua perizia di esecutore, di compositore o di scrittore, nemmeno nella compresenza delle parti, ma nel motore più sotto. L’inizio della fine allora, la fine dello sciamano, è già in Ferry Boat del 1985.
Diciamolo senza vergogna: questo motore, il motore dello sciamano, in parte è solo Napoli. In qualche modo, Napoli è L’isola che non c’è, con la grande differenza che Napoli è stata. Questo essere stata rende la mancanza diversa: il suo dominio è la memoria, non l’immaginazione. Napoli = I got the blues. Anche Odisseo era napoletano.
Eppure in questo live del 1988 stai ancor’ tropp’ bbell’. Il groove cambia e Pino Daniele sembra Prince – attacca con un vocalizzo dai richiami arabi, Prince of Arabia.
Il corpo. Pino Daniele non è Fabrizio De André – Fabrizio De André non è uno sciamano, se non nei suoi sogni bagnati (alcuni dei quali divenuti canzoni). Questo performer-sciamano dall’inizio dei ’90 ha avuto un piede nella tomba. Pino Daniele non si è venduto, ha fatto quello che poteva nella sua condizione di sciamano mezzo morto.
(E pur cca’, stiv’ ancor’ tropp’ bell’)
Resta la tristezza – l’appocundria – di vedere Pino Daniele recitare se stesso vent’anni dopo, senza forze, con un piede nellla tomba – lo spleen del surrogato e della ripetizione. Questo spleen però è principalmente negli occhi dello spettatore – uno spettatore mai abbastanza avvezzo all’ironia tragica. Ma poi chi cazzo crede di essere ‘sto spettatore?
Bestiario. Cu tutt’ ‘o bben’ – Eros, Jovanotti, Irene Grandi, so’ gent’ addo va. Il successo ha “cambiato” Pino Daniele? Che domanda bigotta. Al massimo, il successo ha ingannato Pino Daniele. (E qui ancora: i limiti dell’approccio per cui “‘a cosa cchiù importante è o sentimento“. Se il punto è lo sciamano nella musica, il fuori di sé – abbandona allora le parole e la forma canzone, fai ‘a musica. Ma chi sarei io per inoltrare queste richieste post-mortem?)
De André, che non era uno sciamano e a un certo punto invidiava Vasco Rossi per la sua assenza di freni inibitori e la sua capacità di vomitare per strada davanti a vecchi, mamme e bambini – De André non è stato “cambiato o ingannato” dal successo. De André e “o sentimento” amici mai. Non costringetemi a usare Hegel per spiegare il rischio del getto forsennato, fuori di sé. La perdizione. Com’è bella, la morte, quando arriva.
Controbestiario: e scoll’ ‘nfront’.
Invito al viaggio. I pezzi più unici di Pino Daniele, quelli per cui da qua all’estinzione dell’homo sapiens c’anna fa semp ‘o bucchin, quelli in cui testo e musica parlano lo stesso codice – l’idolo di ogni espressione artistica, la fusione di forma e contenuto. Due su tutti: Ma che te ne fotte e Tarumbò. Vedo venire fuori una genealogia, un filo che porta alla possibilità di concepimento di questi pezzi – nella generazione dei Titani io ci metto: Chillo è nu buonu guaglione e Il mare.
Poi viene il quattuor ca scass’: A me me piace ‘o blues, Yes I know my way, Tutta n’ata storia, Keep on movin’ (legate, a coppie, da lacci compositivi, come parti gemellari).
Il pezzo più bello di Pino Daniele è Bella ‘mbriana.
E dall ‘nfacc’ senza t’ ferma’. Il solco, la traccia, il lascito: il segno è più forte, più importante di colui che lo emette.
I got the blues:
la memoria
è più crudele
della morte