di Antonio Galimany
traduzione di Alfredo Zucchi
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Gli esecutori contano le perforazioni. La notte avanza senza contrattempi e la mezza luna è un fuoco debole che illumina appena la campagna senza contorni – un piano statico e nudo, privo di ogni artificio. Questo tratto intercambiabile della geografia in cui si muovono non gli permette mai ricordare dove l’hanno fatto l’ultima volta. Sono abituati a viverlo come un inizio perpetuo.
Contare le perforazioni è la parte più fastidiosa del procedimento. Oggi hanno lasciato sparare la recluta, e gli fanno pure fare la conta. Cadendo, il corpo ha fatto una strana contorsione e torso e gambe sono finiti in senso opposto: il torso di spalle al cielo e alla mezza luna. Con un calcio la recluta mette il corpo prono. Commette un primo errore, forse l’unico: se la mitraglia si è fatta strada dalla schiena, conveniva invertire la posizione delle gambe, non del torso. Così fa, però il calcio non è sufficiente, come sembra concludere dopo aver calcolato la forza del piede con un paio di colpi per aria. Quindi si aiuta con le mani: la destra fa leva sulla spalla destra, la sinistra spinge il ginocchio destro. La manovra – il tornare indietro, la rettificazione in cui deve incorrere – deve fargli vergogna, infatti si insulta a alta voce, chiamandosi per nome. Uno tra i veterani nota la negligenza, però lo lascia fare senza dire niente. È ansia, non imperizia. Poi ha sparato bene, e nel gruppo circola certa aspettativa.
Ieri, nella giurisdizione vicina hanno stabilito un nuovo primato: quarataquattro perforazioni. Un numero al limite dell’inverosimile eppure certificato, sembra, dall’autopsia. Non è abituale attendere la conferma medica per validare il primato di turno. Come in una partita di golf tra amici, l’onestà nel registrare i punteggi è il comportamento trasparente che le parti coinvolte danno per scontato. Tuttavia circostanze straordinarie – un primato che si pone quattordici perforazioni al di sopra del precedente – modificano la vigenza dell’onorabilità ed esigono un altro tipo di verifiche. In più, è la prima volta che il primato accade così vicino a loro: gli esecutori sembrano entusiasmati per la possibilità che la fortuna si sposti per proprietà transitiva.
Col tempo, si è normalizzato un certo protocollo. Si richiede alla vittima che corra in linea retta, gli si offrono dieci secondi di grazia. Uno tra gli esecutori conta a voce alta, e al sentire otto, il tiratore scarica sulla vittima la raffica d’occasione. Può anche capitare al sette; o nove. Mai dieci, perchè la vittima – è un dato provato – si ferma e il primo sparo inevitabilmente la fa fuori. Neppure però prima del sei, sarebbe disonesto: la vittima è ancora troppo vicina. Il tiratore spara finchè le due mani toccano a terra: un criterio imperfetto che obbliga ad una attenzione estrema e induce in errore. Per quanto in nessun procedimento ci siano osservatori esterni, il rispetto del protocollo si presume ampiamente generalizzato. Se la vittima sopravvive alla scarica, il tiratore interrompe l’agonia con un ultimo colpo alla nuca, che però non conta come perforazione.
Oggi non ci sono stati spari complementari. La recluta conta le perforazioni con una sigaretta spenta come punteruolo. Gli esecutori lo circondano in semicerchio e uno di loro – Soria – parla per disfare il silenzio che si è imposto alla fine degli spari. Un paio di veterani ne indovinano la vena aneddotica e rapidamente rompono la simmetria del semicerchio: si allontanano verso le auto ferme, i cui fari alti illuminano la scena. Soria evoca la monotonia del procedimento, quando il gioco non esisteva: fermare l’auto senza spegnere i motori, mettere la vittima in ginocchio e sparare un colpo alla nuca con una pistola di piccolo calibro. “Un proiettile, uno solo”, dice Soria e scoppia a ridere, a lungo. Finge; però ride soltanto perchè nessuno finge con lui.
Un paio di esecutori assistono la recluta come da indicazione di Soria. Tolgono ciò che resta della camicia della vittima e gettano acqua sulla schiena per lavare via il sangue ed ottenere un panorama più chiaro delle perforazioni. La recluta non parla, e neppure conta. Per prima cosa sommerge la sigaretta spenta in uno dei buchi per misurarne la profondità della perforazione che sceglie. Poi segnala con il punteruolo una perforazione sulla scapola destra. Appena sotto l’orifizio ha scoperto un piccolo tatuaggio. Con la sigaretta spenta, ora ripercorre sulla pelle i tratti del ragno tatuato in nero: il proiettile ha colpito vicino però il disegno è sopravvissuto, intatto. Soria applaude un paio di volte per richiamare l’attenzione della recluta e farlo uscire dal trance in cui è andato a finire. Gli esecutori che lo assistono, accovacciati con lui, a turno gli battono sulle spalle per indicargli che gli danno il cambio.
La recluta si mette in piedi e Soria lo introduce nel semicerchio. Prolunga la divagazione di circostanza, però sembra più concentrato sull’apparenza quasi fragile della recluta in uno dei vertici del semicerchio. Non ha referenze precise su di lui. Il suo dossier è esemplare e questi dossier – quelli esemplari – sono sempre una pagina bianca. Non capisce perchè lo abbiano trasferito nella sua giurisdizione – quattrocento chilometri a sud della Capitale, ottomila abitanti, vittime di terzo e quart’ordine: uno dei tanti buchi neri della Provincia. Poi hanno appena scoperto che spara a meraviglia e un talento del genere non se lo lascierebbero scappare in città. Però dalla Capitale arrivano ordini, non spiegazioni.
Quindi Soria cambia preoccupazione. Le quarantaquattro perforazioni della será prima lo inquietano e questa inquietudine riesce, alla fine, a risvegliare certo interesse tra gli esecutori del semicerchio. Parla di quanto sia difficile battere primati in Provincia: poco allenamento, armi scadenti e scarse risorse. Poi ci sono meno vittime, e i vuoti temporali tra un procedimento e l’altro sono arrivati a prolungarsi per mesi. “Non è facile”, dice Soria: “Non è per niente facile”.
Omette ogni riferimento alla strategia che porta avanti per fare fronte alla scarsità: la fabbricazione di vittime. Deve suppore che la recluta lo sappia perchè, per quanto non l’abbia confessato tra gli uomini della sua squadriglia, è una pratica che ha importato dalla città: anche lì, da un po’ di tempo, le vittime si sono ridotte drasticamente, e il meccanismo della fabbricaione è stato l’unica alternativa possibile per prolungare la vigenza dei procedimenti. Ha addirittura riprodotto, all’interno della sua giurisdizione, la sentenza di giustificazione che sentì dire al suo superiore della Capitale: “Gli errori confermano le certezze”. Trasformata in motto all’interno della squadriglia, la frase ora pende, incorniciata, nell’ufficio di Soria.
A margine del semicerchio, un esecutore dispone un tavolo piegabile, una lampada portatile e una macchina da scrivere. Comincia a battere. La recluta, che è scivolata fuori dal semicerchio, si sporge e legge come l’esecutore stenografo scrive quello che non è accaduto. Osa segnalare un’imprecisione nella ricostruzione, però l’esecutore stenografo lo interrompe a metà senza prestargli grande attenzione. “Sono solo carte”, gli risponde scollegato, senza staccare le dita dai tasti. “E le carte ormai non le legge nessuno”. Dei due esecutori che hanno dato il cambio alla recluta, uno solo fa la conta; l’altro raccoglie le cartucce dei proiettili e le classifica – la piena coincidenza di cartucce e perforazioni è un altro indizio per certificare il conteggio. Un ultimo esecutore, estraneo al conclave del semicerchio, mette in moto un furgone e lo avvicina, a marcia indietro e con le porte aperte, al corpo della vittima.
Soria si sforza di elaborare ipotesi alternative riguardo ai fatti della giurisdizione vicina ed il nuovo primato, nella speranza, forse, di contenere la diáspora che soffre il semicerchio che ha costituito intorno alla vittima e all’esecutore addetto alla conta. Ammette di non riuscire a spiegarsi come l’uomo della squadriglia di Morello sia stato capace di produrre in una vittima quarantaquattro perforazioni. “Tra noi non c’è talento” dice ripetendo agli uomini della sua squadriglia ciò che una volta sentì dire di sè stesso. “Quanto poco talento” gli disse quel superiore della Capitale che finì per introdurlo alla strategia della fabbricazione dopo che Soria lo fece formlemente parte della sua inquietudine per l’assenza di vittime. Soria volle sapere quando cominciarono a applicare il metodo della fabbricazione. E seppe che, in qualche modo, la strategia aveva sempre fatto parte dei procedimenti. “Gli errori confermano le certezze; vada, ora, e faccia ciò che deve”, gli disse il superiore della Capitale mentre lo salutava. Soria tornò sollevato alla sua giurisdizione: i procedimenti non sarebbero finiti.
Gli esecutori nel semicerchio mimano la sfiducia di Soria e passano in rassegna gli implicati per provare ad immaginarsi un colpevole individuale – l’esecutore addetto alla conta, Morello, il tiratore. Soria, invece, specula su un altro trasferimento repentino dalla città – simile a quello della matricola –; è la sua versione più elaborata della cosa. E aggiunge poco altro, però insiste sulla sua ipotesi: non c’è, nella squadriglia di Morello, uomo capace di tale prodezza.
“Ventinove”, grida l’esecutore addetto alla conta – una perforazione in meno del record che ieri quelli della giurisdizione vicina hanno battuto. La recluta annuisce, marziale, però gli altri appaludono disordinati. La recluta non lo sa, però nella squadriglia non sono mai andati oltre le diciotto perforazioni. Gente senza talento. Soria batte con le mani sulla schiena della recluta, contravvenendo anche lui ad ogni rigore di forma. Poi mormora la sua nuova ossessione: qurantaquattro perforazioni.
Il semicerchio si disarticola. Gli esecutori accovacciati – chi addetto alla conta e chi alla raccolta – si occupano del corpo della vittima e lo trasferiscono sulla barella metallica che l’esecutore autista ha lasciato a due passi da loro. Insieme, poi, i tre lo introducono nel furgone e chiudono le porte. L’esecutore stenografo smonta la scrivania di campagna, sebbene abbia lasciato il verbale a metà – e così, a metà, lo allunga a Soria, che lo arrotola con disinteresse per posarlo in una delle tasche posteriori del pantalone. Raggruppati in blocco compatto, gli esecutori vanno verso le auto con cui sono venuti.
Prima di aprire lo sportello che gli corresponde, Soria si ferma di botto – i tacchi degli stivali di colpo sommersi nella terra umida; un applauso sordo che obbliga tutti a voltarsi verso di lui. “Devono essere stati due tiratori”, dice: “Quei figli di troia hanno imbrogliato”. Ride; allunga una seconda volta la risata che finge in solitudine e si allarga per estendersi senza ostacoli sulla campagna senza contorni. Avranno anche dimenticato dove l’hanno fatto oggi, la prossima volta.
Bello questo racconto.
Condivido il suo pacato giudizio, visir (inoltre mi chiedevo: ma lei allo specchio legge scrittura destrorsa?)
ovvio infatti sono vittima di potenti mal di testa che curo con abbandanti quantità di hashish: Perfoahr
perfoahr!