Il giorno in cui sono morto per la seconda volta fuori dalla finestra c’era un martedì di metà marzo. Mi dissi che sarebbe stato un buon giorno per morire, quello. Nuvoloso, noioso, inutile. Nel mondo reale la gente lavorava, s’incazzava, pensava alla cena e ai figli che tornavano da scuola. Non avrebbero fatto caso a me. Non sarei finito sui titoli dei giornali locali, né tra i discorsi dei matti alla stazione. Quando qualcuno si buttava sotto a un treno, per loro era un giorno di festa. Avevano un argomento per attaccare bottone coi pendolari. Io non ci chiacchieravo mai e non frequentavo più la stazione. Non ne sarei stato in grado. Abitavo nella mia prigione. La porta era chiusa a chiave. Mi bastava la finestra. Chi ha bisogno di uscire, quando ha una finestra? Osservato da lì, in cattività, il mondo era sopportabile. Vedevo gli alberi del giardino nascere e morire con le stagioni, l’acqua mutare di stato. Diventavo insensibile a simili passaggi. Di notte dormivo di rado. Comunque, non sognavo. Non mi spiaccicherò sotto un regionale veloce, mi ripetevo. I matti della stazione non biascicheranno di me.

Poi venne un giorno in cui nemmeno la medicina fu abbastanza forte da sconfiggere la noia. Ne prendevo una che mi faceva viaggiare. C’erano altri mondi oltre la mia prigione. Ogni volta esploravo un po’ più a fondo. Mi fermavo sempre presso un cancello. Non lo raggiungevo mai. Sarebbe stato inutile. Il guardiano non mi avrebbe fatto passare. Al di là, i tamburi mi richiamavano alla guerra.

Il giorno in cui sono morto per la seconda volta mi alzai dal letto e pensai che sarebbe stato un buon giorno per morire, quello. Passai mezza giornata a perdere tempo. Fuori dalla finestra non succedeva nulla. Gli alberi erano ancora spogli. Si fermava qualche uccellino bruno, ogni tanto, ma filava subito via come se avesse cose più importanti da fare. Forse cantava, ma dietro i vetri spessi io non lo sentivo. Lo invidiavo, quel figlio di puttana svolazzante. Era in grado di passare da un ramo all’altro per tutto il giorno senza crepare di noia come me. Il punto più alto della sua giornata? Becchettare dal terreno un verme mezzo congelato. Se non pregavo che il gatto dei vicini se lo mangiasse, era perché quel diavolo dalla coda paffuta lo invidiavo ancora di più.
Consumai la colazione da solo, geloso. Era il mio pasto preferito. Nessuno poteva entrare nella mia prigione. Quel mattino il postino non bussò alla porta e il telefono non squillò. Io non rispondevo mai, in nessuno dei due casi, ma lo interpretai come un buon segno.

Quando ingollai la medicina, decisi che sarei andato più lontano. Più a fondo. Più a lungo. Il mio corpo sarebbe rimasto sepolto lì, steso sul tappeto sotto la libreria, nel luogo che gli apparteneva.  La porta sarebbe rimasta chiusa. Nessun matto della stazione avrebbe chiacchierato di me. Lanciai uno sguardo allo schermo del computer, aperto su una pagina bianca. Lo stendino vuoto, lì a fianco, pareva uno scheletro. I volumi della libreria sembravano sporgersi per venirmi incontro. Un’intera colonna di filosofi barbosi, acquistati in libreria solo per strappare un’occhiata ammirata alla commessa. Mai letti. A parte quei due o tre, compagni fidati. Occhieggiavano con una certa insistenza. Non vi avrei portato con me, amici. Partii.

Ero innamorato pazzo della ragazza che mi accompagnava. Viaggiavamo in treno, al centro di un’autostrada. Al posto delle stazioni, ci fermavamo negli autogrill. Gli impiegati tiravano addosso alle carrozze panini a prezzi più alti del dovuto. Si appiccicavano ai finestrini. Il pane era appena tostato.
Lei aveva i capelli rossi. Se li districava con un pettine d’ossa mentre mi diceva “oltre il cancello, gli antichi dèi cadono come mosche. Dobbiamo andare anche noi”. Non trovai nulla da obiettare. Mi sentivo il cuore battere forte. Le presi la mano e la sentii tremare. Sedevamo accanto, ci dividevamo un paio di cuffie. Al posto di una canzone trasmettevano i colpi di tamburo. Ci chiamavano alla nostra destinazione. La voce di lei mi parlava chiara. Amavo quella voce. Mi faceva pensare al sesso. “C’è una guerra oltre il cancello. Stiamo perdendo. I nuovi dèi ci soppianteranno se non vinciamo”. Il treno sprofondò nel terreno e proseguì la corsa. Tremavo anch’io. Avrei varcato la soglia del cancello, infine; anche solo per combattere una guerra che ero destinato a perdere.
“Perché non usi parole più forbite?” mi chiese. Mi accusava con l’indice. Io avrei voluto leccarlo, mangiarlo. Poi mi si sedette sulle gambe, a cavalcioni. Le punte dei nasi si sfiorarono. Quando provai a baciarla, si tirò indietro. Mi colpì sulla fronte con lo spigolo di un libro. Poi un altro, e un altro ancora. Riconobbi le copertine, c’era sopra la polvere della mia stanza. “Se tu ne avessi letto qualcuno in più, forse oggi scriveresti meglio”. La guardavo negli occhi mentre mi parlava. Li aveva verdi, come i miei, ma i suoi erano smeraldo e i miei fondo di bottiglia. Ero grato ai pantaloni che contenevano la mia erezione. Odiavo il fatto che si stesse arrabbiando con me. Provai a farla ridere con una faccia buffa, ma non funzionò. Un signore elegante passò nella carrozza e si scusò con un colpo di tosse. Non aveva la testa. Teneva però in mano un ombrello. Lo aprì e scappò via. Scavalcò due pozzanghere, e alla terza si inabissò.
Contavo i colpi di tamburo. Il numero centootto infranse il finestrino e noi scendemmo dal treno in corsa. I pezzi di vetro mi si conficcarono nella pelle. Avevo fatto da scudo a lei. Tuttavia, non sanguinavo. Lei non mi ringraziò.

Nella stanza c’erano mille e una statua, tutte uguali, alte quanto un uomo. Sembravano un esercito a ranghi serrati. Ne guardai una da vicino. Spalancò la bocca e gli occhi irosi. Io saltai indietro, ma il suo urlo fu muto. Impietrito nella terracotta, un volto mostruoso e linguacciuto. Divino. “Sono i nostri nemici?” chiesi. “Così brutti. Tremendi”.
“Siamo noi, questi” mi rispose lei. “I nuovi dèi sono più belli, più buoni”. Una signora incappucciata pregava in ginocchio. “Buon compleanno”, sussurrava. Ce ne andammo senza disturbarla.
I generali del nemico mi sbarrarono la strada. Giallo, rosso, blu, bianco. Erano quattro. La loro pelle brillante mi accecava. Mi disorientava. Non ero abituato a quei colori, né a quelle lingue biforcute puntate contro di me. Ogni volta che sbattevo le palpebre li trovavo più vicini.
“Non guardarli” mi disse lei. “Non ti servono gli occhi  per arrivare al cancello”. Aveva ragione. Scavai con le dita fino a estrarli, poi li riposi in una tasca. Camminavo spedito anche con le orbite vuote. I colpi dei tamburi da guerra mi guidavano. Poi lei mi prese per mano. “Al posto dove siamo diretti, si arriva solo smarrendo la strada”. Mi sembrò la frase di un libro da quattro soldi, ma l’amavo per questo. L’amavo così tanto che avrei dato l’anima per lei. In effetti, lo feci. Mi fermai a un angolo della strada e la vomitai tra le mie mani. Era tiepida, e scalciava un pochino. Lei non la volle. La depositai a terra e me la lasciai indietro. Passò un branco di cavalli dietro i nostri passi, a maciullarla e frantumarla con gli zoccoli.

Eravamo di fronte al cancello, e io vedevo di nuovo. Credo fosse per via del suono dei tamburi. Così rotondo, forte, grasso. Disegnava i contorni delle cose al posto dei miei occhi. Come succede ai pipistrelli, pensai. Mi orientavo tra macchie e onde, collose come olio. Il guardiano mi sbarrava l’entrata. Aveva barba grigia e sguardo infuocato. Teneva in mano un remo. Mi colpì sulla tempia e io caddi. La terra sussultava ai colpi dei tamburi. Appena al di là della soglia la guerra che ero destinato a perdere. Aspettavano solo me per obliterare gli dèi antichi. Mi alzai, e il guardiano mi colpì di nuovo. Tutt’intorno alla sala – non l’avevo notato – correva un affresco. Alla mia vista ritrovata appariva un brulicare di puntini, ma presto quelli si coagularono in un racconto. Il mio. Le scene s’inseguivano come in un arazzo. Conoscevo ogni storia e ogni personaggio. La ragazza dai capelli rossi non era più accanto a me. S’era impigliata lì, tra quelle trame dipinte. “Vedi quella?” dissi al guardiano. “Giulia. Mi si sedette sulle gambe, in autobus, dopo una sosta all’autogrill. Voleva baciarmi. Io non capii. Ci ripensai dopo qualche mese, me n’ero innamorato. Ora si è sposata con uno che va in moto”. Tutta la mia vita in pochi colpi di pennello. Quella che avevo chiuso fuori dalla finestra. Tutte le mie occasioni mancate, tutti i miei fallimenti migliori. Fantasmi. Quando soffri di depressione, impari a chiamare ognuno di essi col proprio nome. Modellai le parole sul ritmo dei tamburi e proseguii. “Lì c’è quella volta in cui uscii di casa senza ombrello. Pioveva. Alla terza pozzanghera decisi di tornare indietro. Era una scusa per non presentarmi a quel colloquio di lavoro. Eppure mi ero vestito elegante. Vedi dietro di me, che mi inabisso? Quel coro di schiavi incatenati, sono tutti quelli a cui ho mentito. Poi c’è quella volta in cui non mi sono nemmeno alzato dal letto. Finsi di non sentire la sveglia. Restai sotto le coperte a guardare un documentario sui cavalli. Dopo c’è la mia scena preferita. Montagne di libri che mi seppelliscono. Tutti quelli che non ho mai letto. Le lingue che non ho studiato. Quella pagina vuota è il libro che non ho mai scritto. E lì c’è quando sono morto la prima volta. Quel tatuaggio coi vetri rotti sulla pelle, per vedere che effetto faceva”.
Il guardiano m’interruppe. La sua voce tuonava più potente dei tamburi. “Non hai più nulla da scoprire a questo livello di coscienza. Ancora un’ultima cosa, e potrai passare. Lo senti questo suono?”
I tamburi. Certo. La guerra. Il guardiano mi stava facendo perdere tempo. Udivo quei tamburi dall’inizio del viaggio, sempre più forti. Anche nella mia prigione, a volte. Prima di dormire, mentre facevo colazione. Com’era possibile? Avevano intrecciato un nido nelle mie orecchie? Appena mi posi la domanda, i suoni divennero più acuti. Bip. Secchi. Bip. Nessun rimbombo di pelli, nessuna mano che batteva. Bip bip bip. Mio padre aveva la barba più lunga del solito, in ospedale. Non potevo saperlo, in realtà, perché non andai mai a trovarlo. Bip. Mi chiedevo se mi avrebbe riconosciuto, se mi avrebbe rivolto un’ultima occhiata di fuoco. Un ultimo schiaffo con quel suo palmo nodoso. Prima di morire, mi dissero, prima che la macchina smettesse di fare bip, si premurò di far sapere a tutti che mi perdonava.
Mio padre si fece da parte e aprì il cancello per me. Non udivo più i tamburi. Che guerra avrei trovato, là sotto? Quali dèi mi aspettavano per divorarmi? “Vai”, mi disse. “Ma non sottovalutare tua madre. L’hai vista prima, che pregava per te”.

Nessuno sceglie di nascere, nessuno sceglie questo mondo piuttosto che un altro. È una madre che sceglie per te. Mia madre spalancò la porta della prigione mentre io varcavo il cancello. Mi sarei dovuto decidere a cambiare la serratura. Mi raccolse per la collottola a metà del tuffo, come fa una mamma gatta coi gattini. Naufragai sul mio tappeto. Sotto i miei libri. Accanto al mio computer. L’unica persona che mi rimane ha scelto di farmi nascere due volte. Reiterare l’errore. Mi chiedo con quale diritto. Mi chiedo se faccia differenza. Mi chiedo se ne valga la pena. “Buon compleanno, tesoro”, mi sussurrava. Quando mi accompagnò fuori dalla porta doveva essersi alzato il sole, perché l’aria mi carbonizzò la pelle.

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In copertina: Dirty White di IamSlowe