Risvegliato da un sussulto del treno, Francesco stropicciò gli occhi insonnoliti e guardò dal finestrino. No, non aveva perso la fermata: il viaggio era ancora lungo.
Fuori sfrecciavano i netti profili argentei degli olivi, troncati a tratti dalle brusche oscurità delle gallerie. Francesco ricordava bene quel tragitto, nonostante fossero passati tanti anni.
Adesso di fronte a lui sedeva un passeggero sulla sessantina, immerso nella lettura di una cronaca locale. Ancora intorpidito, Francesco passò alcuni istanti a fissarlo. Non aveva lineamenti memorabili, ma un’aria di serietà e rigore si diffondeva su tutto il suo volto.
Di lì lasciò vagare lo sguardo sul giornale; piano piano, le sequenze alfabetiche dei titoli varcarono la soglia della coscienza, si organizzarono in significati, e fu allora che a Francesco parve di decifrare un nome: KONRAD ZATLER.
Quando l’altro voltò la pagina, Francesco lesse il titolo per intero: MUORE IMPROVVISAMENTE KONRAD ZATLER, VIRTUOSO DEL PIANOFORTE. Sotto, stampigliato in caratteri più piccoli: Il Comune di Porto Ibisco rende omaggio al suo cittadino onorario.
– Konrad Zatler?!… – non si trattenne.
La prima reazione fu di sconforto. Da musicista quale era, si sentì orfano, e come accadeva ogni volta – perché nell’arte si può rimanere orfani anche parecchie volte – avvertì come una bruciatura la responsabilità del vuoto che si creava. Ma a questo turbamento subentrò presto un sentimento opposto, una sorta di divertito compiacimento per le bizzarrie della sorte. Si scusò con il compagno di viaggio per l’invadenza; disse che conosceva Zatler, che era stato suo allievo, e, caso strano!, stava viaggiando verso Porto Ibisco proprio per sentire il concerto che lui avrebbe dovuto tenere la sera stessa.
L’altro lo scrutò con visibile sforzo di sopracciglia, come pescando nella memoria.
– Un allievo di Zatler, hai detto?
– Non proprio. Partecipai a una sua masterclass. Le teneva sempre lì, a Porto Ibisco. Erano i corsi estivi del Festival Riviera; se lei è della zona, forse il nome le è familiare.
Non solo gli era familiare, ma in breve venne fuori che i due si erano conosciuti. O meglio, non si ricordavano l’uno dell’altro, ma in qualche modo dovevano essersi sfiorati, come tutti coloro che al tempo erano stati coinvolti nel festival. Francesco si stupì a questo nuovo scherzo della fortuna.
L’altro aggiunse: del resto, in questa provincia scaduta, alla fine ci si conosce tutti.
A quel tempo, Virgilio (così si chiamava) svolgeva incarichi organizzativi di diverso genere. Aveva iniziato per amore della causa e della propria terra, e poteva dirsi soddisfatto: la vita del festival era stata breve ma intensa, e molti artisti avevano eletto Porto Ibisco a loro dimora.
– Nagy vive ancora lì. Lo sentono suonare il piano, anche se non fa concerti (ma questo già da vent’anni!). Io adesso abito a Imperia, ma ogni tanto lo vado a trovare.
Il viso rotondo di Apostol Nagy aveva campeggiato a lungo sui giornali. Era stato fondatore e direttore artistico del Festival Riviera, nonché padrone della pregiata etichetta discografica Konsonanz. Riaffiorò alla memoria di Francesco il suo sorriso imperioso, la destrezza sociale da viveur con cui calamitava intorno a sé satelliti vecchi e nuovi.
– E tu, di dove sei? – chiedeva intanto Virgilio.
Francesco rispose di essere anch’egli ligure, sebbene di un’altra zona.
– Strano, allora, che non mi ricordi di te! Anche perché gli allievi li ricordo quasi tutti.
Francesco sorrise. Era quel sorriso amaro che si riserva alle esperienze ormai distaccate nel tempo, ma non ancora nello spirito.
– Io fui allievo solo per una stagione, una decina d’anni fa. E temo di non potermi dire soddisfatto, a differenza sua. Detto sinceramente: se non ci fossi stato, ora mi ritroverei con una carriera ben più degna di quelle che erano le mie possibilità.
Virgilio non perse la compostezza.
– Be’, mi dispiace. Posso solo dire che per voi abbiamo sempre fatto il possibile.
– Non volevo lamentarmi, mi scusi. Ma se ci pensa, per un artista questo è il destino peggiore: poter solo oscillare fra il lamentarsi e il “non mi lamento”, fra l’insuccesso e la mediocrità…
Virgilio lo guardò con un lieve stupore e una punta di diffidenza. Nel frattempo il treno fermò ad Andora, e Francesco osservò i turisti che si raccoglievano confusamente di fronte agli sportelli.
Poi, il paesaggio riprese lentamente il ritmo delle sue metamorfosi. Le abitazioni cominciarono a diradarsi, la vegetazione s’infoltiva; negli interstizi baluginavano angoli di mare terso. Ogni tanto comparivano le macchie compatte di una vigna o di un aranceto. Anche di questi dettagli Francesco serbava ricordi precisi.
– Fa un certo effetto. Sembra non sia cambiato niente.
Dal fondo della memoria dipanava immagini alla rinfusa.
Porto Ibisco aveva l’aspetto di una piccola piramide a strapiombo sul mare, le pendici incise da tratturi e spirali di gradinate.
Il primo giorno, dopo un breve giro del centro Francesco si era sdraiato su un muretto della piazza. L’acuto profumo dei ginepri lo induceva a fantasticare. Per lui era come se i fiori schiudessero armonie, e la silhouette della chiesa si animasse a ritmo di gavotta: e in quel periodo, a dire il vero, tutto intorno a sé emanava musica. Uscito dal nido dorato del Conservatorio, dove era accudito come giovane promessa, sentiva d’un tratto il bisogno urgente di punti di riferimento; nella fisionomia stessa dei luoghi dove andava, cercava inconsciamente gli stimoli alla disciplina e al lavoro indefesso.
Scivolò nel sonno. Ed erano Beethoven, Liszt, Chopin ad accompagnarlo, soffiando insieme alla brezza, gridando l’uno sull’altro in una confusa ridda.
Quando si risvegliò, intorno a lui iniziava a materializzarsi la trama dei luoghi e delle persone del festival. Man mano, le automobili rombavano fin sulla piazza: ne scendevano passeggeri di diversa età e provenienza; cenni, abbracci, vocii di ogni genere riempivano l’aria. Nagy stesso andava incontro ai nuovi arrivati, comparendo in tutta la sua mole dal cancello di una palazzina. Francesco la notò in quel momento: rompeva l’armonia della piazza con un design nuovissimo, di smagliante ricercatezza.
In breve finì inghiottito nel gruppo degli allievi. Individuò quelli di Zatler: era un gruppo piccolo e coeso; tutti avevano già frequentato il corso in precedenza. Guidarono Francesco di nuovo in giro per il centro, gli indicarono i siti principali del festival – l’oratorio destinato alle conferenze e ai concerti, gli alberghi, Palazzo Calvi (l’edificio affittato per le lezioni), e via dicendo. La palazzina che dominava la piazza, spiegarono, apparteneva allo stesso Nagy, che da anni viveva in Liguria. Sui muri i volantini catturavano lo sguardo; gli ultimi dischi Konsonanz, accolti in via eccezionale nelle botteghe artigiane, ammiccavano ai passanti. Selezioni incoerenti di musica classica passavano in loop nelle radio dei bar.
Francesco provò disagio per quella sorta di “rimappatura” che alterava la sua prima impressione del luogo. Strideva troppo il contrasto fra i due livelli: la piccola comunità locale e gli illustri stranieri, gli autisti in livrea e la fiumana di ragazzini che scendevano al mare al tramonto.
In un miscuglio di lingue, gli allievi parlavano di Zatler come di una vecchia conoscenza. Avvertirono Francesco delle sue stravaganze, e al tempo stesso lo rassicurarono (“Imparerai presto”). Sdrammatizzavano i suoi fatti e misfatti con l’indulgenza dell’abitudine. Francesco era urtato da quella piccola Babele di ceti.
– L’incontro con Zatler per me significava moltissimo. Non lo reputavo solamente un grande pianista: di quelli il mondo è pieno. Piuttosto, ero attratto dalla sua sensibilità interpretativa, lo sentivo vicino alle mie corde, e le assicuro che queste affinità in musica sono davvero rare: quando si verificano, sono sempre reciproche. Per questo potevo ben sperare.
Virgilio scrollò le spalle. – Se partivi così, lo credo bene che sei rimasto deluso. Mai convincersi di essere troppo speciali. E a maggior ragione con un tipo difficile come Zatler.
Parlava con diligenza analitica, ci teneva a distinguere il caso generale dal particolare, a illustrare ogni argomento nel dettaglio, accompagnandosi con eloquenti modulazioni dello sguardo. Francesco pensò che doveva essere stato un ottimo organizzatore. Ma provò anche fastidio per tutta quella sicurezza.
– Non credo di essermi sbagliato, anzi – ribatté – Se i rapporti si illividirono, fu proprio per troppa sintonia.
– Anche questa l’ho già sentita. Zatler era un personaggio che alimentava ogni genere di storie. Ognuno dice la sua; quanto a me, non credo meritasse tutta questa attenzione.
Sotto l’incerta presa del ricordo, la sbiadita immagine di Zatler si dileguava sempre. Da lungo tempo Francesco ne aveva archiviato la fisionomia. Ricordava invece la sua affabilità, un’affabilità ancipite, che poteva ugualmente significare ammirazione, disprezzo, indifferenza. Inoltre Zatler, pur parlando perfettamente l’italiano, sembrava viaggiare attraverso canali comunicativi tutti suoi; fraintendeva domande banali, a volte le ignorava del tutto. Non si capiva quanto di provocatorio ci fosse in tutto ciò.
Se Zatler era refrattario a una definizione coerente, Nagy viceversa era privo di ogni mistero. Ubiquitario, smaliziato Argo dai mille occhi, amava osservare e farsi osservare, ostentando una mimica pronta ad assottigliarsi nelle minime sfumature.
Oltre a occuparsi delle questioni finanziarie e del reclutamento degli ospiti del festival, Nagy sorvegliava come poteva il rendimento degli allievi. Per questo, all’apertura dei corsi aveva disposto che ogni studente sostenesse un’audizione, davanti a lui e a tutti i docenti.
Francesco aveva preparato accuratamente la sua scelta di brani, ritagliandola su quelle che sapeva essere le predilezioni di Zatler. Eseguì Beethoven, Chopin, e concluse con il suo cavallo di battaglia, il Mephisto-Walzer n. 4 di Liszt. I docenti sventolarono applausi. Quello di Nagy fu tiepido e distratto, la sua testa assorta da chissà quali altre faccende.
Quando l’indomani Francesco si presentò a lezione, Zatler si complimentò; analizzò a fondo la sua esecuzione, diede mostra di aver apprezzato alcuni dettagli dell’interpretazione di questo o quel brano. Subito dopo, però, aggiunse che molti punti andavano assolutamente migliorati. Tanto per cominciare, il Mephisto-Walzer suonato così non funzionava; giudicava anzi più prudente rimuoverlo del tutto dal programma, perché i pochi giorni del corso non sarebbero bastati. Anche sugli altri brani Zatler appuntò obiezioni: una volta era per la posizione della mano, un’altra volta per l’uso del pedale, spesso – ancora peggio – era un vero e proprio fraintendimento concettuale ciò che gli veniva imputato. Di fatto, gli encomi iniziali furono presto vanificati.
Nel giro di un paio di lezioni Zatler completò l’opera, e Francesco si vide smantellare tutte le sue certezze tecniche. Alla prima frustrazione si aggiunse, dunque, un totale smarrimento riguardo alla strada giusta da prendere. Cercò di alienarsi dai riferimenti che gli erano noti, di riscrivere su quella tabula rasa gli scomodi precetti del maestro, ma il bilancio sembrava non migliorare mai. Soprattutto, lo disorientò il dover rinunciare al Mephisto-Walzer n. 4: non solo perché credeva di eccellere proprio in quel brano, ma anche perché Zatler non gli aveva giustificato la sua decisione.
Provò a interpellare i suoi colleghi, ma l’apparente cameratismo degli inizi era già disfatto in atomi di reciproca diffidenza. Ognuno sapeva di dover stare in guardia, perché il successo era come una piramide, la cui sezione sarebbe inevitabilmente diminuita quanto più ci si fosse arrampicati: Francesco si trovò davanti le loro barricate di ostilità. Ne soffriva. E nella stessa misura, si sentiva soffocare dall’atmosfera pulviscolare di quell’antico Palazzo Calvi, che pativa i segni squallidi di una senilità lasciata a se stessa.
Aveva legato solo con Bruno, un diciassettenne che proveniva da generazioni di musicisti. Ansiosamente egocentrico, ostentava volentieri la sua conoscenza dell’ambiente.
– Hai sbagliato a portare il quarto valzer, all’audizione. O meglio, avresti fatto bene nel caso in cui Zatler avesse avuto un’autonoma testa pensante. Invece, purtroppo lui si fa comandare a bacchetta da Nagy, e Nagy non gradisce che si esegua Liszt al festival. E sai perché? Perché gli ricorda un suo insuccesso. Quando era ancora un concertista, partecipò ripetutamente al Premio Liszt di Skopje, ma non riuscì mai ad arrivare nemmeno in finale. Quindi insomma non è proprio bendisposto, quando qualcuno suona Liszt.
Una scalfittura di roccia, smossa sotto il suo piede, rovinò dal dirupo. I due camminavano lungo la passeggiata alta, dove l’aria era fine e gli arbusti rari e secchi. Quel percorso era uno dei ricordi più belli che Francesco avesse di Porto Ibisco.
– Al posto di quel brano suonerò le Estampes di Debussy – disse Francesco – Difficili. Confesso che sono preoccupato.
– E loro vogliono proprio questo! Tu li hai provocati, anche se non lo sapevi. Come direbbe mio padre, ricordati che sono russi. O meglio, Zatler è russo, l’altro è ungherese, ma poco cambia: sono gente orgogliosa e spesso non lo danno a vedere.
– A proposito, volevo anche chiederti –, Francesco inciampò su un groviglio di sterpi, provocando una fulminea dispersione di lucertole – Questo ambiente, a te, che impressione fa?
– Cioè?
I colori del borgo ingentilivano sotto le dita del tramonto.
– Questa continua fibrillazione, questo senso di pressione… a me sembra che i professori, e in generale quelli che contano, si diano tutti da fare per qualche scopo preciso, che però non capisco.
– Facile: lo scopo è mandare avanti la Konsonanz. Rimpolpano le finanze con gli eventi del festival, e nel frattempo cercano nuovi talenti da lanciare sul mercato. Quello che interessa a loro è la bella facciata, mica il livello effettivo delle lezioni. Prendiamo il nostro Zatler: ecco, lui l’hanno messo lì giusto per fare scena. Secondo te perché è sempre così severo? Te lo dico io: uno, perché gli piace fare il saccente, due, perché non è veramente all’altezza. Se non ci fosse Nagy a portarselo dietro come un animale da compagnia, non sarebbe nessuno, perché come pianista è scadente.
– Ma scusa…
– …che ci faccio io qui? Hai ragione. Ogni estate mi sembra di fiutare il contratto, ritorno, e invece niente. Se va male anche stavolta, giuro che mando tutti a quel paese.
Konrad Zatler, scadente? Francesco dapprima rise fra sé alla spacconata di Bruno; poi tentò di calarsi nei suoi panni. Per il suo repertorio, e per certe particolarità interpretative, Zatler chiamava in causa un uditorio un po’ eslege. Non si trattava di un levigato, impeccabile concertista classico, ma di un outsider. A pensarci, non sorprendeva che in molti non lo condividessero.
Anche la rinuncia al Mephisto-Walzer aveva in realtà una motivazione ben più semplice che non la parabola narrata da Bruno. A prezzo di faticosi sforzi di autocoscienza, Francesco aveva dovuto ammettere che Zatler aveva deciso per il meglio: la sua interpretazione era macchiata dovunque da spropositi di entusiasmo. Appena se n’era reso conto, era tornato tutto docile dal maestro. Non pretendeva certo di reintegrare il brano nel programma del concerto; chiedeva solo che lo aiutasse a ripulirlo, a portarlo a un livello quantomeno accettabile.
…Sì, ma cos’era successo, poi? Zatler si era sentito autorizzato a rincarare le critiche, ed era saltata del tutto l’eventuale logica a esse sottesa. Più Francesco cercava di districare le difficoltà, più il maestro tornava a intorbidare le acque. Dopo le lezioni, Francesco provava sempre la sensazione di aver girato a vuoto per ore in un posto molto vicino alla sua destinazione, senza però averla vista.
In definitiva sì, le contraddizioni erano tante, e Bruno poteva non avere tutti i torti. Ma l’esperienza individuale è l’immagine riflessa che si ottiene quando si getta uno sguardo alla vita. Lo sguardo di Bruno era quello di chi, appannato dall’essenzialità del suo obiettivo, svuotava le cose della loro complessità. C’era da fidarsi?
– Scusi se rido, ma mi accorgo che finora non ho parlato d’altro che di Zatler. Mi crederà ossessionato!
– Normale. – precisò Virgilio. – Te l’ho detto, storie su di lui ne giravano di tutti i colori: e non solo perché fosse un insegnante esigente… sarà stato l’accento straniero, quell’aria sempre triste, il fatto che avesse problemi di salute, non so, ad ogni modo si prestava. Quello che però è vero, è che fu Nagy a lanciare Zatler. Lo sai che ha inciso tutto per la Konsonanz, no? Anche i concerti di questi ultimi anni, glieli ha sempre organizzati lui. Incluso quello di stasera.
Francesco non trattenne un sorriso. Era palese che Virgilio subiva, come tutti, l’esuberante carisma di Nagy. L’acutezza puntigliosa dei suoi occhi era mitigata dai simulacri della vecchia dedizione.
La conversazione continuò a vagare fra svariati ricordi di persone ed episodi. Virgilio chiese a Francesco in quale anno avesse frequentato il corso, si informò sui colleghi che aveva avuto, cercò riferimenti nella propria cronologia interiore. Aveva una memoria limpida ed esatta. Dal momento che era anche incaricato dello smistamento di allievi e ospiti, oltre a ricordare nomi e volti riusciva anche ad associare ad alcuni la stanza d’albergo che avevano occupato.
– Questo era un punto che stava particolarmente a cuore a Nagy, perché ci teneva che ogni musicista che mettesse piede al suo festival se ne andasse via pienamente soddisfatto. In fase organizzativa, mi passavano sotto gli occhi decine di dossier, e c’era una certa logica per fare le assegnazioni delle stanze: dovevo vedere se erano ospiti di prestigio o allievi, di lunga data oppure nuovi, eccetera. Più venivano da lontano, più bella doveva essere la vista dalla finestra, perché poteva essere la loro unica occasione. Poi, spesso insorgevano esigenze culturali, legate alle varie nazionalità; ad esempio, i russi preferivano stanze anche fuori mano, ma più lussuose, quindi alla fine si era deciso di sistemarli tutti in un cinque stelle a dieci minuti dal centro (pure Zatler era lì). Tu sicuramente sarai stato nell’hotel ai piedi del borgo, con gli altri allievi maschi, no? Le femmine, invece, Nagy le voleva rigorosamente nell’albergo in piazza (per poter sbirciare dentro le finestre, dicevano i maligni!). E infine, c’erano le piccole manie di questo o di quello, e bisognava starci dietro; ad esempio chi esigeva una posizione silenziosa, chi voleva stare al piano terra, e così via. Ti ricordi Linda? Ecco, Linda chiedeva un pianoforte apposta per lei, in camera sua. E noi cedevamo sempre.
Linda era una storica frequentatrice dei corsi di Zatler, già avviata a una carriera luminosa. Di lei Francesco non avrebbe saputo misurare né l’età, né la bellezza. Era il talento stesso ad animare i suoi lineamenti, assorbendo i regolari criteri di giudizio. Oltre all’abilità tecnica, possedeva il naturale magnetismo del grande musicista, e raggiungeva inoltre equilibri interpretativi che mettevano d’accordo le opinioni di tutti. Per questo era la persona più chiacchierata del corso, e al tempo stesso la più scontata.
Tanto aggressiva sulla tastiera, Linda era però incapace di qualunque rapporto umano. Sembrava vivesse trincerata in un guscio di timidezza e di riserbo. Si proteggeva con una corteccia di gentilezza; a colpi di sorrisi disarmava l’approccio di chi la interpellava.
– Era evidentemente cresciuta nel solo linguaggio della musica, e in quello solo sapeva esprimersi – sosteneva Francesco.
– No, semplicemente risparmiava le sue energie – replicava Virgilio. – Io l’ho osservata anno dopo anno. Da ragazzina era prepotente, lottava per guadagnarsi l’attenzione esclusiva degli altri. Quando si è sentita sicura del suo ascendente su Zatler, ha continuato i suoi studi tranquilla. Quella sua cortesia impacciata la riservava alle persone che non le interessavano. Ma ti assicuro che se avesse visto la sua carriera minacciata, allora sì che avrebbe tirato fuori gli artigli!
Se è così, allora doveva considerarmi ben insignificante, pensò Francesco. Riconsiderò con nuova amarezza quel vago interesse, quel palpito di curiosità in punta di piedi, che a un certo punto credeva di aver captato da parte di Linda. Pochi episodi, e di natura assolutamente intellettuale, che per anni aveva custodito e lustrato nella sua memoria come un piccolo trofeo. E invece…
Ripensò a quella serata nella taverna del borgo. Linda non cenava mai fuori, fece un’eccezione. Volle portare con sé la sorella Eva; e per una volta si parlò davvero di musica, anziché di tutti gli apparati effimeri costruiti intorno alla musica.
Purtroppo, durò poco. Usciti dal locale, lei prese subito congedo, e Francesco capì che le antiche distanze erano già state restaurate. Ricordò il vago malumore, il suo successivo lasciarsi andare agli sviluppi della serata; senza quasi farci caso si era ritrovato a passeggiare con Eva nelle viuzze lastricate del centro, congestionate di gente e scintillanti di pubblicità del festival. In piazza c’era clima da dopo concerto: gli ultimi strascichi di energia nell’atmosfera, ovunque un affaccendarsi di smontare, sistemare, portar via. Si approntavano nella dimora di Nagy i riti mondani che sigillavano nella pompa le grandi occasioni; per mezzo di eleganti ministri del culto, portantine di squisitezze valicavano il peribolo della palazzina, interdetto a tutti salvo gli ospiti della sera.
Eva, più disinvolta di Linda nella conversazione, era però tutta rapita nell’ammirazione della sorella: parlava solo di lei, e diceva di quanto le fosse grata, perché da lei aveva imparato ad amare la musica; che non provava invidia, nonostante sapesse di non avere il suo talento; che in fondo non si sentiva adeguata a continuare la carriera…
– Non so. In generale, mi inibisce il confrontarmi con persone come voi. Sembra che non abbiate mai dubbi, mentre io ne ho così tanti!
Stessa timidezza, pensò Francesco. Ma allo stesso tempo notò anche cosa faceva contrasto. Il sorriso di Eva era senza dubbio meno difensivo. E quella mente indecisa albergava in un corpo che sembrava non esserlo affatto, anzi si stagliava nettamente in quel paesaggio di ombre cinesi, emergeva dai pungenti profumi della notte.
– No, – Francesco prevenne la domanda di Virgilio – non successe nulla di concreto, ci mancherebbe. Eva tra l’altro era molto carina (la ricorderà anche lei), ma mi diceva poco. Era Linda che mi intrigava, e, intendiamoci, solo come artista, come esempio da seguire. È brutto dover scoprire che la sua stima era in realtà indifferenza.
Fuori dal finestrino sfilava ora tutto un nastro di colori; non mancava più molto alle casette vivaci dei pescatori di Porto Ibisco, alle sature campiture degli orti domestici.
Ogni giorno lunghe ore di studio, poi lezione, e ancora esercizi su esercizi fino a sera. Nei brevi intervalli si fuggiva a respirare la musica della piccola quotidianità: gli anziani seduti contro i muretti, le botteghe, il ruvido dialetto della zona, la natura che scoppiava di salute. Francesco si sporgeva dai finestroni smerigliati di Palazzo Calvi, si liberava dalla claustrofobia dell’oratorio-teatro; accarezzava con le ciglia socchiuse le lontane increspature delle onde, che ogni tanto sospingevano a riva una barca.
La sera, poi, ci si raccoglieva in piazza per i concerti. Una folla mista di locali e di stranieri rivelava con chiarezza la natura doppia, composita, di quel posto. L’esorbitante palazzina di Nagy torreggiava contro la chiesa austera; lui e Zatler si sporgevano da sopra la cimasa, proprio come i nobili di un tempo si affacciavano a messa dalla tribuna di famiglia. “I loro rapporti sono quelli che legano chiunque appartenga a una casta”, pensava Francesco; “ma con questa terra intrattengono la relazione superficiale dello straniero in visita”. E sentiva il brivido di un vantaggio.
Gli ospiti speciali del festival erano gli astri offuscati di quella discontinua costellazione; antichi concertisti, protagonisti di storiche incisioni, che tornavano alla ribalta con un repertorio ormai zoppicante.
Ogni concerto era associato a un seminario pomeridiano aperto ai frequentatori del corso. Per introdurre questi eventi, i docenti sceglievano di volta in volta un allievo, e ciò aumentava ancora di più le tensioni all’interno delle classi. Francesco ebbe un solo turno in quella vetrina; le sue Estampes vissero una breve gloria, anzi una breve caricatura di gloria, dopodiché tutto tornò al suo stato naturale. Bruno fu scelto per introdurre la conferenza successiva. Era salito sulla pedana baldanzoso, e aveva suonato anche lui Debussy, esattamente gli stessi brani, preparati malamente e in fretta (era chiaro) ma con la freschezza e il vigore di un sincero gesto di ossequio. Al termine dell’evento gli si formò intorno una nuvola di congratulanti; lui piroettava frenetico dall’uno all’altro; a Francesco sparò il suo sorriso più brillante.
– Pare che sia la volta buona – gli disse, – mi fanno il contratto. È quasi sicuro.
– Un’incisione di Debussy?
Bruno annuì, Francesco era spiazzato, non capiva se la sua fosse sfacciataggine o assoluta mancanza di tatto. Solo alcuni giorni dopo si azzardò a interrogarlo.
– Sì, certo, è stato ascoltando te che mi è venuta l’idea. Era una vita che non suonavo le Estampes. In questo caso, gli rispose Francesco, avrebbe potuto almeno ringraziarlo.
– Non capisco – Bruno spalancò gli occhi – Non sei certo l’unico pianista ad avere Debussy in repertorio. Io lo volevo studiare da tempo; prima o poi l’avrei fatto.
– Ma proprio nella stessa mia circostanza? A distanza di pochi giorni?
– Senti, direi che i tuoi meriti te li sei già presi. Quanto a me, non potevo certo rinunciare a eseguire Debussy quando in sala c’era Marchand! Lui cura la collana di musica francese per la Konsonanz. Se aspettavo che si muovesse Zatler, stavo fresco.
Francesco tacque al cospetto di quella scaltrezza che gli era estranea. Quando era toccato a lui suonare, l’ospite era Herberta Arnold, anziana cembalista e massima interprete di Bach. Avrebbe potuto tirare fuori dalla paraffina preludi e fughe, anziché un Debussy ispessito dal sedimentarsi dei ripensamenti; ma non ci aveva pensato. E ora Bruno, con le sue competenze raffazzonate, lo guardava da un gradino più alto della piramide, di quella piramide del successo che ricopriva la grezza massa solida di Porto Ibisco, come un Olimpo di cartapesta.
Virgilio era scattato sulle difensive. – Figlio mio, è ben così che va il mondo, no? – diceva. – Tu mi sembri prigioniero di qualche mito romantico. Non si può mica vivere di soli ideali! Scusa se mi scaldo, ma quello che tu liquidi come artificio, apparato effimero e via dicendo, è lavoro. Lavoro sodo. Deve averla combinata proprio grossa, Zatler, per farti ragionare così!
– E arriviamo al punto: paradossalmente, lui era l’unico che si salvava. Nella sua ambiguità c’era dell’onestà intellettuale. Me ne sono accorto studiando Liszt. Ce l’hai presente, il Mephisto-Walzer n. 4? È un brano singolare, anzi neppure un vero e proprio brano, piuttosto uno sketch lasciato incompiuto. Ora, Zatler dava il massimo proprio in pezzi indisciplinati come questo, dove il linguaggio musicale si scollegava, cadeva in frantumi. Aveva delle soluzioni geniali, così:…
Diteggiava il valzer di fronte a Virgilio; la novità di Zatler, disse, era nell’esecuzione irregolare delle terzine del basso, un effetto stranamente sinistro; del resto il pezzo si ispirava al Faust. Francesco ricordava ogni singola nota; era contenuto in una vecchissima incisione, quando ancora Zatler non si era affiliato alla Konsonanz.
– Io volevo che mi istruisse su cose del genere, ecco. Ma niente. Mi assegnava invece carichi insostenibili di esercizi di tecnica; ovviamente non riuscivo a fare bene tutto, lui lanciava insinuazioni sulla mia inadeguatezza al contesto e alla sua classe. Però… però mi accorsi che pian piano miglioravo, e da questa specie di iniziale nebulosa iniziavano a delinearsi degli obiettivi concreti. E sai cosa ne conclusi? Ne conclusi che quella durezza era solo un modo per saggiare la mia determinazione.
– Altro mito romantico. Un Faust al contrario di fronte a un Mefistofele che rifiuta i suoi segreti.
– Mah. In realtà è ragionevole che chi abbia trovato la chiave della seduzione della musica ci pensi bene, prima di servirla agli altri su un piatto d’argento. Però, una delle ultime sere avemmo una discussione. Lui non voleva che mi presentassi al concerto finale. Insisteva col dire che i brani non erano ancora accettabili: non solo Liszt, che era stato scartato sin dall’inizio, ma anche Beethoven, Chopin, Debussy. Mancavano di carattere, secondo lui. Arrivò a dire che finché fossi stato suo allievo, non avrei suonato una nota in pubblico. Allora mi irritai; gli ribattei che ciò che sosteneva non era in realtà possibile, perché anzi mi sentivo molto più preparato e solido di quando ero arrivato; e non essendo più un ragazzino, bensì un pianista che seguiva un corso di perfezionamento, era impensabile che mancassi del tutto di spirito critico. Lui si ammorbidì subito, mi sorrise, e mi concesse infine di eseguire solo Debussy. Da un lato mi inorgoglii, perché capii che avevo avuto ragione, sul fatto che volesse mettermi alla prova. Cionondimeno, arrivai a ridosso del concerto più confuso che mai.
La sera del ricevimento di congedo, un pullman aveva scaricato allievi e docenti a Diano Marina, sul limitare di una sontuosa palafitta in vetro. O meglio, di un gigantesco loft che si allungava fin sugli scogli; le rocce stesse adattate a tavolini; tutto un sapiente gioco di scambio fra interni ed esterni. Il buffet era al centro. Gli idiomi si intrecciavano festosi, e anche l’eleganza parlava svariate lingue: una ghirlanda di sari, cheongsam e white ties che periodicamente ondulava verso il centro e tornava poi a disperdersi, con contrazioni quasi di medusa.
Fra loro la violinista austriaca Sophie Kellner, che aveva occhi solo per Linda. Si vociferava che fosse giunta a Porto Ibisco per cercare un pianista accompagnatore – il repertorio per violino solo, per cui era stata celebre, esigeva ormai troppo dal suo suono opaco, e dalle dita infiacchite. Zatler le stava al fianco e parlava animatamente: era evidente che intercedeva per lei. Linda si consumava nell’apprensione, poiché intuiva, forse, che la sua rischiava di essere non l’alba di una carriera, ma solo la stria più dorata del tramonto di un’altra. Nagy, all’altro capo della sala, si accorse che era in corso qualcosa di importante e si avvicinò a loro.
Francesco era in preda alla noia e all’emicrania. Attraversò un gruppo di violoncellisti assiepati intorno al loro docente, un milanese garrulo e isterico che li intratteneva con aneddoti svariati. Ogni tanto i risolini esplodevano in coro all’indirizzo di Zatler.
– Io vorrei proprio sapere cos’hanno quelli laggiù da dirsi. Guardalo lì che si avvicina anche Peppone! – (alludeva a Nagy, che oltre a essere corpulento aveva dei baffi neri). – Va a tirar fuori dall’impasse il suo amichetto. E scommetto che pensa: quasi quasi gli condono tutti i debiti, ormai di CD gratis me ne ha fatti abbastanza, adesso qualcuno me lo levi dai piedi!… tu, vieni qui.
E, a Francesco: – Tu, suonerai di nuovo Debussy, domani sera? Sì? Ottimo. Finalmente uno in gamba. Altro che Linda! Se quella ha avuto un merito finora, è stato di portar qui quella sua deliziosa sorellina. – Gli si accostò all’orecchio, con maldestra confidenza: – Senti, perché non vieni a insegnare nella mia scuola privata? Pensaci: te ne stai in Italia, vita comoda, ben pagato. Non perdere del tempo con quelli, non ne vale la pena.
– In realtà, se posso permettermi… – iniziava a replicare Francesco, ma qualcuno alle sue spalle gli gridò: – Ma non ti sei accorto che è ubriaco?
Ed era vero. Il milanese udì, e parve acquistarne coscienza in quel preciso istante. Deplorò la situazione con il barista.
– Triste verità. Ebbene, sono ubriaco. Se mi vedesse la mia polacca! – (sua moglie).
– La sua polacca saprebbe fare di meglio, professore! Venga qui! – e gli versava un’altra vodka. Francesco girovagò per la sala, e presto si ritrovò nel conciliabolo di Sophie Kellner. Nagy lo presentò come una nuova recluta; aggiunse che, fra gli allievi, era l’unico che avesse origini in Liguria. Sophie lo fissò con intensa concentrazione, poi proruppe in esclamazioni assolutamente generiche sulla bellezza della zona, che lei visitava regolarmente in yacht. Solo tre giorni all’anno, ma quanto le erano necessari! Erano come un’iniezione di linfe, di elisir della natura; e dopo succedevano cose incredibili, i divini accordi di Bach sorgevano da soli sul violino, e il paesaggio rispondeva alla musica con le sue enigmatiche vibrazioni… insomma succedeva che lei, Sophie Kellner, diveniva elemento coordinante fra il mistero della natura e il Genio, un telecomando dell’armonia cosmica.
Un’ora più tardi Francesco riusciva a staccarsi e raggiungeva Bruno, che addossato all’angolo di una balaustra sciorinava, a beneficio di due giapponesi, la novella della sua lunga passione per la musica francese.
– Posso sedermi qui? Santo cielo, quella non mi mollava più.
– Ma chi? – Girò intorno un’occhiata distratta. – Ah, la Kellner? E le dai pure retta? Sai, mio padre diceva…
Francesco sentiva i nervi a pezzi. Avrebbe voluto avvicinare l’unica mosca bianca in quel sofisticato villaggio vacanze. Ma Eva fingeva di non notarlo, ed era pure comprensibile. Simile a un fiore gualcito di organza, presenziava laddove si contrattava l’avvenire della sorella, con viso terribilmente serio. E a ben vedere, salvo Sophie che effondeva i suoi discorsi alla deriva, tutti in quel gruppo sembravano scuri in volto.
Rimase seduto a lungo. Il paesaggio umano continuava a farsi, disfarsi, riformarsi intorno a lui. Fissava quei filamenti azzurro cupo, laggiù all’orizzonte, su cui s’infrangeva la luna.
– Questo mare sembra davvero fatto di musica – sussurrò una voce maschile alle sue spalle. Eccone un altro, pensò Francesco. Si voltò, e vide che era Zatler. Guardava nel vuoto; aveva un’espressione enigmatica, che teneva dietro a chissà quali pensieri.
– Purtroppo, però, non è sufficiente guardarlo – rispose Francesco, sarcastico suo malgrado. – Maestro, io mi domandavo se lei vorrebbe accettarmi fra i suoi allievi regolari.
Zatler gli rispose che non aveva allievi regolari. Chi voleva, poteva tornare l’anno dopo.
– Con rispetto, credo che nel mio caso non funzionerà. Ha visto anche lei quanto lavoro c’è da fare. Con Liszt, ad esempio! Il corso ora è finito, come faccio a interrompere tutto così?
– Non è ancora finito: c’è il concerto di domani. Come fai a sapere che c’è del lavoro da fare, se non ti sei ancora esibito? Solo dopo un concerto l’allievo capisce se è giunto a una maturità. Prima, è impossibile.
Diceva sul serio? Francesco era esterrefatto.
– Impossibile capirlo – andava ripetendo. – E poi non è detto che io sia il maestro adatto per te. Non lo sai nemmeno tu, finché non rifletti su quali siano le tue convinzioni. –
Quell’imprevisto cambio di bandiera aveva l’aria di un capriccio passeggero. Ma Zatler lo guardava serio, sembrava voler rovistare nei suoi pensieri. Gli disse molte altre cose, che Francesco non ricordava: parlavano tutte di indipendenza, di affermazione di sé. Il suo molle accento russo era insolitamente carezzevole.
Cessata la musica di sottofondo, dall’interno della sala giungevano i lievi scalpitii dei tacchi, i saluti giulivi di fine serata.
– Ah, Agnieszka, Agnieszka, mi dispiace! – si udiva in background, dal finestrino di un taxi che spariva in lontananza.
A questo punto la memoria andava in tilt, o meglio, i ricordi si accatastavano in un solo cumulo, e nessuno riusciva a cogliere quell’istante, nudo, immediato; ma piuttosto l’aspettativa di quell’istante, o l’imminenza di quell’istante, o il ripensamento di quell’istante; erano tutti ricordi di secondo grado, riflessi e imprigionati dalla lieve ma predace ragnatela del tempo. I baffi di Nagy in prima fila, il fiato sospeso dei giornalisti. La tensione dell’attesa che si sfilacciava in torpore, in una vacua inerzia. E d’un tratto i mormorii nel vestibolo, la calca, il grumo disordinato degli allievi, e poi? I semi di quell’umanità eletta si gettava sul lido della notorietà, a uno a uno, sputati da dietro le improvvisate quinte dell’oratorio-teatro. Francesco era fra loro. Sedette sullo sgabello, le dita morsero la tastiera, lasciavano cadere le terzine di Liszt, Mephisto-Walzer n.4.
~
Il sano e antico viluppo degli olivi si contorceva nell’aria serena. La destinazione era vicina.
– Quella sera, al ricevimento, mi aveva sfidato. Vede che circolo vizioso? Per guadagnare la sua stima dovevo disobbedirgli; ma allo stesso tempo oppormi alla sua autorità equivaleva a suicidarmi, artisticamente s’intende. Insomma, avevo avuto ragione a pensare che fossimo simili; ma quando due persone sono simili nell’orgoglio, possono nascere le vicende più strane.
Virgilio sembrava pensoso. – La domanda è: tutto questo, per cosa?
– Non deve esserci necessariamente una causa per tutto! – Ma Francesco si rimangiò quell’accenno di stizza. – In effetti, hai ragione. Viene da domandarselo: tutto ciò, per cosa? Guarda adesso: il festival, non c’è più. Zatler, nemmeno. E Nagy si gode il suo declino.
L’altro annuì col capo, e i due tacquero. Francesco si crogiolò nel senso di liberazione. Virgilio, che per tutto il racconto aveva mantenuto un sorriso fra il comprensivo e il pensoso, sembrò ora lavorare più intensamente i suoi pensieri. Pareva concentrato su qualcosa in particolare.
Il treno era ormai arrivato a Porto Ibisco. Attraverso il vetro se ne distingueva il disegno, la piccola piramide a strapiombo sul mare.
– Ormai non credo tu abbia più bisogno di fermarti qui. Aspetta ancora un po’, scendiamo insieme a Imperia.
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Francesco provava una leggera vertigine. Accanto al suo ‘se stesso’ noto e consapevole ne era comparso un altro: il frutto della tegola di un’alternativa, cascata d’improvviso su un passato lungamente razionalizzato. – È solo un’ipotesi –, ci teneva a precisare Virgilio; – ma un’ipotesi calata su un vuoto di ambiguità ha la forza di un assioma.
A ben pensare, aveva esordito Virgilio, si poteva trovare una ragione per tutta quella rigogliosa mitografia che fioriva intorno a Zatler; ed era la sua debolezza di carattere. – Un uomo alla mercé delle circostanze, influenzabile, uno di quelli che finiscono per essere sempre in mezzo a tutto. –
E, allo stesso modo in cui Nagy gli estorceva (sia pure con qualche ricatto; ma del resto, aggiungeva Virgilio, quale geniale imprenditore non fa così?) l’esclusiva sulle incisioni, anche la sua carriera di insegnante era in potere a qualcun altro.
– Da anni durava questa sua simbiosi con Linda. Lei lo influenzava, e pian piano gli aveva fatto rinunciare agli allievi regolari. Te l’ho detto, era una tigre. Magari considerava Zatler alla stregua di un trampolino di lancio, e nulla più: ma ci teneva al suo ruolo da first lady.
In questo contesto, di punto in bianco si era aggiunta Eva. Eva era bella, Francesco aveva detto bene; e certo non era stato il solo ad accorgersene. E nemmeno a dirlo, pareva quasi nell’ordine naturale delle cose che Zatler finisse invischiato anche in quest’altra tela.
– Che fossero subito diventati amanti ce ne accorgemmo tutti, quasi tutti. Ciò che è successo dopo lo ricostruisco solo ora, dal tuo racconto.
E Virgilio deduceva i fatti seguenti a colpi di logica.
Linda, dunque, doveva essersi irritata; vedeva pericolare il suo ascendente sul maestro, e per di più in favore della sua stessa sorella. Allora le erano bastate poche, abili mosse, nascoste sotto il velo del suo candore. – Avrà dato l’imbeccata a Zatler, gli avrà insinuato il sospetto che Eva fosse infedele. Dopodiché gli ha lasciato campo libero. Nel frattempo, la presentava a te. Per inciso, la scelta non mi sembra casuale: eccoti la lusinga che volevi!
Virgilio proseguiva confessando, un po’ a malincuore, che sì, era vera l’avversione di Nagy per Liszt. (“Tutti hanno le loro debolezze…”, si affrettava a chiosare). E Zatler, nel momento in cui faceva eseguire Liszt a un allievo del festival, sotto gli occhi di Nagy (sì, d’accordo, non è che glielo avesse imposto, piuttosto l’aveva indotto a farlo, ma a pensarci, non è lo stesso?), ecco, sapeva bene che la carriera dell’allievo era finita. Quanto a lui, poteva disimpegnarsi facilmente, accampando come scusa la disobbedienza dell’allievo. Quadrava tutto, in un personaggio debole: la gelosia, il rancore, il lasciarsi manipolare con così tanta leggerezza…
A corollario di tutto ciò Virgilio disseppelliva un vecchio ricordo: Zatler, quell’estate, di punto in bianco aveva voluto cambiare alloggio. Al posto della solita suite a cinque stelle aveva chiesto una stanza con vista sulla piazza, sull’albergo femminile. Guarda caso, ciò era accaduto negli ultimi giorni, proprio quando Eva era stata vista in giro con Francesco.
– È solo un’ipotesi – ribadiva. Era forse pentito di aver privilegiato l’amore dell’esattezza all’eventualità di squarciare un’illusione. – Forse mi sbaglio. Fossi in te, però, ci penserei.
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Meglio un Faust al contrario, o un Faust che impara anche ciò che non vorrebbe sapere? si domandò Francesco. Era rimasto solo a Imperia.
Ma lasciò cadere subito la domanda; si sentiva incredibilmente riposato, ogni tensione afflosciata. Poco importava chi fosse l’autore ultimo di quella rete di inganni da maestro. Ciò che contava, è che erano svaniti gli schemi sulla realtà. Non era più necessario che i ricordi superassero l’esame di abilitazione da parte della coscienza, di una coscienza tutta tesa all’ideale. Cosa c’era di più confortante, di più definitivo?
Steso su una panchina del lungomare, si abbandonava al sonno. Una tresca di figurine oniriche gli danzava intorno su un tempo indiavolato. Erano tutte le persone che aveva conosciuto, le possibilità che aveva scartato. Francesco non sapeva se unirsi a loro, o semplicemente lasciarsi andare alla gioia, godersi il brivido della vita che lo rigenerava.
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