In un capitolo del suo libro sui Generi cinematografici americani, lo sceneggiatore Stuart M. Kaminsky si interroga sul significato della violenza, che ritorna a ondate nella cinematografia ogni qualvolta la società sia in crisi e necessiti di riflettere sui propri valori o ritrovare un’identità. Pur non schivando la questione scomoda dell’influenza del cinema sulla vita quotidiana, la tesi di Kaminsky è che la violenza o il crimine altro non siano che espressione del tentativo da parte dell’individuo di ridefinire la propria posizione e la propria funzione all’interno della società. Il mito della violenza è il mito di Lucifero, dell’onnipotenza, della ribellione totale contro la società e la morale comune, che sembrano soffocare le possibilità di realizzazione individuale. Se volessimo definire l’etica di Gomorra con una sola frase, potremmo dire che la serie-tv racconta di personaggi antieroici, che optano per la «mala vita» e scelgono di bruciarsi l’esistenza e garantirsi pochi attimi di gloria – e lusso e ricchezza e potere – piuttosto che un’esistenza lunga ma fatta di stenti. È, banalmente, il mito del rock ‘n’ roll ed è il demone profondo della società dello spettacolo.
Ma il problema è che l’etica non può bastare a inquadrare un fenomeno né tantomeno a offrire appigli per il giudizio estetico circa un’opera. La querelle su Gomorra è scoppiata in periodo pre-elettorale, in concomitanza con la rinnovata esplosione del fenomeno delle baby-gang, e ha spinto più di un intellettuale, di un politico o di un magistrato a esprimersi in maniera negativa, sottolineando l’influenza deleteria della serie-tv sulle giovani menti e demandando a essa l’inasprirsi delle tensioni sociali. In sostanza, Gomorra sarebbe carente di modelli positivi e priva di quella catarsi aristotelica finalizzata a decretare il trionfo finale del bene.
L’analisi è fuorviante ed è del tutto banale, eppure ha riscosso enormi consensi, consentendo di semplificare l’interpretazione di alcuni fenomeni e di offrire facili risposte a problemi estremamente complessi. Basterebbe cancellare la messa in onda di Gomorra per risolvere il problema delle baby-gang o ripulire Napoli dalla camorra? No. E siamo davvero sicuri che il crimine non paghi mai? Nemmeno. Il cuore della questione sta proprio qui: viviamo in una società che tende a spettacolarizzare ogni fenomeno, a imporre la visibilità come valore fondante e la ricchezza come suo corollario; veniamo quotidianamente bombardati da notizie di banchieri che hanno raggirato i risparmiatori, ricevendone bonus miliardari grazie ai quali sono riusciti a mettersi al riparo finanche dalla giustizia; di calciatori venduti a cifre astronomiche che vivono nel lusso più estremo; di politici che godono di ogni genere di privilegio. Dall’altro lato, siamo presi in trappola da sale slot o centri scommesse a ogni angolo; da tagli costanti agli stipendi e dall’inesistenza di lavoro equamente retribuito; dalla distruzione dell’istruzione pubblica, dalle scuole all’università. In questo contesto disperato e soffocante, siamo sicuri che le strada della violenza non appaiano allettanti?
Gomorra è un prodotto artistico proprio perché prende di mira la realtà e ne sviscera i risvolti più estremi, i lati più oscuri. La morale espressa da un’opera non può inficiarne il giudizio estetico, né condizionarne l’intima poetica: l’arte non ha alcun obbligo di educare secondo la morale corrente, ma ha l’assoluta necessità di raccontare la verità, la sua verità. E Gomorra dice proprio questo: che non esistono bene e male, ma solo sfumature di opportunismo, in quella lotta cieca che è il capitalismo selvaggio, riapparso in tutto il suo crudele nichilismo dopo decenni di finta pace sociale. Il vero protagonista della serie-tv e di ogni prodotto crime o noir che abbia il coraggio di raccontare la verità, è la cultura della sopraffazione. Non è necessario chiamare in causa Wilde, Dostoevskij o Shakespeare (quanta violenza c’è in Riccardo III o in Macbeth?), né Don Wislow o James Ellroy, né ricordare che, stando ai precetti della necessità di un’arte edificante, non avrebbero avuto modo di esistere serie-tv capolavoro come The Wire – che racconta della violenta e corrotta Baltimora, mostrando l’altro volto del sogno americano – o di The Shield, ambientata in una Los Angeles senza scrupoli.
Se la società odierna è una giungla in cui si combatte per la sopravvivenza e ci si assuefà al potere e alla ricchezza, se la Storia è fatta da pirati o squali che non si fanno scrupoli a corrompere, sfruttare il lavoro altrui, uccidere con dosi tagliate male o con un colpo di pistola, spostare capitali, far fallire banche e risparmiatori, calpestare la cultura e sostituire Dio con il denaro: perché uno dovrebbe raccontarsi la favoletta del bene che trionfa sempre? E perché l’arte, l’unico luogo dove lo si possa ormai fare, dovrebbe tacere e non urlare la più scomoda eppure vera delle verità? Gomorra è una chiave di lettura della nostra società, colta nel suo momento di frattura e nelle sue incongruenze. Ma Napoli non è Gomorra. E la risoluzione dei suoi problemi richiede interventi politici, amministrativi e anche intellettuali di ben diversa fattura.
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