Postfazione a Kronos (Witold Gombrowicz, Il Saggiatore, 2018) a cura di Francesco M. Cataluccio. Le immagini provengono dalla stessa pubblicazione. Ringraziamo l’editore per averci concesso di riprodurre il testo.
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«Kismet è una tagliente parola turca (che significa: Destino).» La scrisse, come un sigillo sul senso di tutta una vita, Witold Gombrowicz, sette mesi prima di morire: «In generale si è mangiato abbastanza bene, vita tranquilla, finché… Kismet». Questa sorta di bilancio inedito si può leggere in Kronos, il suo diario segreto, che la moglie, Rita Labrosse, per molti anni ha gelosamente (e prudentemente) tenuto nel cassetto: riteneva, giustamente, che questo materiale potesse essere accessibile e apprezzabile, nella giusta misura, soltanto quando, come avviene oggi, l’opera di Gombrowicz fosse ben conosciuta, in patria e nel mondo, e la morale sessuale finalmente un po’ più aperta.
Kronos è una sorta di diario parallelo rispetto al Dziennik (Diario 1953-1969) che molti considerano il suo capolavoro filosofico-letterario. Fino al 2013, ufficialmente, si sapeva che Witold Gombrowicz aveva scritto, per quindici anni, un Diario sul mensile polacco dell’emigrazione Kultura, pubblicato a Parigi a partire dal 1953, affrontando con grande acutezza e sarcasmo temi cruciali come quelli della doppiezza, dell’immaturità («l’umanità mi appariva divisa in due inconciliabili patrie biologiche: gioventù e adulti»), della patria, dell’identità.
Questo «altro diario» invece non era destinato alla pubblicazione e non doveva finire «in mani estranee», come Rita Gombrowicz spiega nella bella introduzione al volume, intitolata In caso d’incendio. Sulla cartellina color rosa salmone, che conteneva questi fogli, c’era scritto a lettere maiuscole il titolo: KRONOS. Crono come il dio del Tempo che divorò i propri figli (per i romani altri non era che Saturno). Un titolo in assonanza con l’ultimo romanzo di Gombrowicz, una sorta di «giallo filosofico»: Kosmos (Cosmo). L’Ordine e il Tempo, due elementi centrali della nostra esistenza: sfuggenti, assai indefinibili, spesso in antitesi. Il diario (sia quello pubblico sia quello privato) è un tentativo di mettere a posto il Tempo: di dare un Ordine al Caos.
Nell’aprile del 1952, il suo convivente e amico intimo, il filosofo argentino Alejandro Rússovich (Russo), prestò a Gombrowicz un libro che lo appassionò: il Journal (1887-1949) di André Gide, che lo indusse a riflettere sul significato del diario come genere letterario e lo portò a scoprire un nuovo mezzo di espressione artistica (dopo il racconto, il romanzo e il teatro): «Penso di essere uno che ha la vocazione per scrivere il suo Diario. Non è esattamente che il Diario di Gide mi abbia ispirato, mi ha piuttosto mostrato la possibilità di aggirare una difficoltà essenziale (avevo sempre creduto che un diario dovesse essere privato, e lui mi ha mostrato la possibilità di un diario pubblico e privato)».
Del resto, Gombrowicz amava, fin da ragazzo, i diari e gli alberi genealogici. Il primo nel quale si imbatté fu quello di un suo antenato, quando all’età di sedici anni, smanioso di dare una forma alle sue radici, si mise a scartabellare l’archivio di famiglia e iniziò a scriverne la storia. Di quest’opera ci rimangono soltanto alcune pagine: Illustrissimae Familiae Gombrovici (1920). Lo scrittore polacco, nel 1958, confessava: «Sono un appassionato lettore di diari, mi attira la tana della vita altrui, non importa se abbellita o anche falsata – comunque la si metta – il diario è sempre un brodo con il sapore della realtà» (1958).
Nell’estate 1952 Gombrowicz iniziò a scrivere un diario – che doveva inizialmente intitolarsi non Dziennik ma, alla latina, Diariusz (Diarietto) – per ragionare in pubblico e anche, come maliziosamente disse il suo amico e sostenitore Konstanty (Kot) Jeleński, per «autopromuoversi». Ma si rese subito conto che questa operazione non era soltanto letteraria: «In questo piccolo diario vorrei tentare apertamente di costruirmi un talento […] Perché apertamente? Perché desidero rivelarmi, smettere di essere per voi un enigma troppo facile da risolvere. Introducendovi dietro le quinte del mio essere, mi costringo ad arretrare in recessi ancor più profondi». Per poter far questo dovette, appunto, smettere di essere un «enigma per se stesso», ripercorrere il suo passato e ritrovare i fili del suo caotico presente: uno scrittore polacco, senza lingua, scaraventato dall’altra parte dell’oceano, disorientato e solo in un mondo fantasmagorico come quello argentino. Questo è il motivo per cui, nel 1953, iniziò ad andare indietro con la memoria – inanellando un susseguirsi di nomi, dati, cifre, frasi telegrafiche – fino agli anni venti, per l’esattezza al maggio 1922, quando, diciottenne, dette l’esame di maturità. Ed è significativo che lo scrittore che si è occupato lucidamente del tema dell’«immaturità» (l’amico scrittore Bruno Schulz, lo definì «un manager dell’immaturità») abbia iniziato a prendere i suoi appunti privati a partire dall’esame di maturità (dove l’unica materia dove brillò fu la lingua polacca)… In un appunto riepilogativo delle prime date della sua vita (riprodotto anastaticamente a p. 36 di questa edizione), Gombrowicz addirittura scrive la data «xii 1903», che riteneva fosse quella del suo concepimento. Il fatto che egli cercasse di mettere ordine nel suo passato, filtrandolo attraverso i ricordi più lontani, era anche un modo per tenere sotto controllo il proprio presente, o almeno aver l’illusione di poterlo fare.
Il pretesto per iniziare a pubblicare il suo Diario gli fu offerto da Jerzy Giedroyc, il burbero e intelligente direttore della rivista dell’emigrazione polacca a Parigi, Kultura, che gli propose di scrivere, sotto compenso, dei feuilletons mensili. Quando Gombrowicz dette alla stampe il primo volume del Dziennik (Diario 1953-1956), che raccoglieva, con qualche omissione e aggiunta, i primi tre anni dei suoi Frammenti di un diario, appose un’avvertenza che era già una confessione dell’esistenza di «qualche altra cosa»: «Questo volume comprende il testo del diario pubblicato su Kultura con in più alcuni frammenti inediti. Avrei ancora qualcosa da parte, ma si tratta di argomenti privati che per il momento preferisco non dare alle stampe. Non voglio crearmi difficoltà. Chissà, magari in seguito…».
Il suo Diario «pubblico» consta di oltre mille pagine, scritte in prima persona, con l’introduzione, saltuaria, di una «seconda voce», in corsivo, a partire dalla fine del 1958, in seguito così motivata:
«Per ora l’unica cosa che aveva saputo escogitare fu l’introduzione nel Diario di una “seconda voce” – la voce del commentatore e del biografo – che gli consentiva di parlare di se stesso come di “Gombrowicz”. L’invenzione gli era parsa importante, accresceva sensibilmente il freddo artificio delle sue confessioni, e gli consentiva di conseguenza maggiore sincerità e fervore. […] Gli sbalzi dall’“io” al “Gombrowicz” mi consentivano di lodare e smascherare me stesso, contemporaneamente» (1959).
Questo è uno dei tanti eccentrici, ma non puramente formali, artifici di un diario per modo di dire, dove le date e i giorni sono messi a caso e l’autore inserisce, di tanto in tanto, nomi e luoghi quasi per confondere le idee al lettore e per spezzare la «pesantezza» di certe sue riflessioni. Ma dove pare dominare l’improvvisazione e la pura occasionalità, trionfa in realtà un sistematico disordine che lascia trasparire un disegno, una trama che si sviluppa pagina dopo pagina.
La forma del diario sembra poter fornire a Gombrowicz un’organizzazione che gli permette di raccontare e comunicare un materiale altrimenti inesprimibile: «Vorrei che un po’ alla volta tutta la storia della mia vita fosse conosciuta. Secondo la mia interpretazione. Se si potesse avere una storia senza interpretazione, la fornirei in crudo: solo nudi fatti. Ma del resto bisogna operare una scelta, separare ciò che è importante, creativo, dall’inutile e sterile – e soprattutto per il fatto che non sono ancor morto, che vivo e il futuro mi sta davanti, che devo costruirmi un passato, perché lei mi assegni un futuro…».
Il Diario di Gombrowicz è il compimento di un percorso intellettuale ed esistenziale profondo e doloroso. In esso lo scrittore polacco esprime compiutamente la sua filosofia nell’unico modo che gli è possibile, sviluppando e precisando i temi contenuti nei suoi romanzi come Ferdydurke, Pornografia e Cosmo. Con il Diario egli rivendica a sé un sapere specifico: il sapere del molteplice, che è irriducibile a una dimensione filosofica nel senso classico, a un sistema compiuto. Un sapere che è il risultato di uno stile di pensiero non sistematico, fatto di brevi illuminazioni, di intuizioni mai tematizzate (secondo l’insegnamento dei tre filosofi a lui più cari: Nietzsche, Schopenhauer, Heidegger): «Le idee mi interessano sempre di meno, ciò a cui tengo soprattutto è l’atteggiamento dell’uomo verso un’idea. L’idea è, e sempre sarà, un paravento dietro al quale accadono cose diverse e più importanti. L’idea è un pretesto. L’idea è un accessorio; il pensiero, maestoso e sublime se astratto dalla realtà umana, si trasforma invece in un odioso schiamazzo, se distribuito tra la massa di esseri bramosi e incapaci» (1953). Un’opera quindi provocatoria, dalle forti connotazioni filosofiche, in cui si insiste su temi come l’inautenticità e l’incompletezza dell’uomo; la morte (la presenza del Nulla nella vita dell’uomo); la forza interumana che «crea» le persone (il nostro essere legati allo «sguardo» degli altri).
L’Io è il protagonista di ogni diario che si rispetti e di ogni opera letteraria in cui l’autore lavori su se stesso. Non si può non pensare ai Saggi (1580) di Michel de Montaigne, nei quali si legge: «Così lettore, sono io stesso la materia del mio libro…». Il Diario (1953-1969), che fu pubblicato secondo le precise indicazioni di Gombrowicz, è proprio un «tentativo» (questo è il significato del titolo dell’opera di Montaigne e così venne tradotto in polacco, nel 1917, da Tadeusz Boy-Żeleński: Próby). Tentativo di dare un ordine ai fatti e alla vita a partire dall’autore stesso. Un’opera filosofico-letteraria che è una costruzione dell’Io. Gombrowicz porta questo assunto fino al paradosso, iniziando il suo Diario in questo modo: «Lunedì. Io. / Martedì. Io. / Mercoledì. Io…».
Nonostante sia una costruzione che ruota intorno a un Io fragile e smarrito, esso viene però viene cocciutamente esaltato e identificato come protagonista forte: «Il termine io è talmente fondamentale e primordiale, è a tal punto riempito di realtà palpabile, e di conseguenza la più onesta, è talmente infallibile in quanto guida, e severo, in quanto criterio, che invece di disprezzarlo, dovremmo gettarci in ginocchio davanti a esso. […] Io costituisco il mio problema più importante e forse, l’unico: l’unico tra tutti i miei eroi, a cui tengo veramente. Incominciare a cercare se stesso e fare di Gombrowicz una figura come Amleto o come Don Chisciotte?!» (1954).
Il Diario è un’opera ambiziosa – dotata di una singolare unitarietà e coerenza di temi e sentimenti, che coprono l’arco di quindici anni, come se fosse stata concepita tutta insieme e nello stesso tempo –, camuffata come fosse una grande burla, o, peggio ancora, lo sfogo di un «folle narcisista frustrato». Una delle più profonde riflessioni sulla condizione dell’uomo nel xx secolo, volutamente spacciata per «fatto privato». Tanto che, a un lettore che aveva protestato perché nelle pagine di una rivista politicamente impegnata come Kultura erano state pubblicate alcune pagine di Gombrowicz riguardo a una cena e all’acquisto di un paio di scarpe, egli risponde: «Dovreste salutare con grida di giubilo e con il rullio di tamburi che grazie a me sia stato annunciato urbi et orbi un fatto privo di importanza per le grandi masse, ma ricco di significato per me, e per me soltanto».
Come ha giustamente scritto Rita Gombrowicz, nella sua introduzione, «si può leggere il Diario senza Kronos, ma non viceversa». Kronos è certamente il completamento segreto, privato, del Diario di Witold Gombrowicz. È probabile che siano stati scritti contemporaneamente su due diversi piani. Kronos è una raccolta di appunti di pensieri e di lavoro, ma soprattutto una scarna ricapitolazione degli avvenimenti della sua vita, non destinata alla pubblicazione perché «troppo privata». Per la parte antecedente al 1953 (che comprende la giovinezza in Polonia e i primi anni a Buenos Aires, dopo lo sbarco nell’agosto del 1939), la scrittura coincide con il tentativo di fissare una serie di paletti nel terreno scuro e paludoso della propria storia passata, avendo come unica bussola la flebile luce della memoria, viziata da inevitabili amnesie e rimozioni. Si tratta di un materiale talmente scarno e lontano che sarebbe impossibile leggerlo se non con l’aiuto di altre opere di Gombrowicz, dei ricordi dei suoi amici (e anche dei nemici), delle lettere ai familiari, e del paziente lavoro di ricerca di Rita Gombrowicz e dei suoi collaboratori. Queste fonti, riportate in un ricco apparato di note, danno la possibilità di comprendere il «diario parallelo».
Se il Diario di Gombrowicz è una sorta di autocreazione artistica, Kronos ci fa conoscere la materia prima sulla quale si basò quell’autocreazione. In Kronos l’autore mostra davvero se stesso. Ed è interessante confrontare in parallelo, per gli stessi anni, i fatti raccontati nel Diario e in Kronos, perché si coglie bene lo scarto tra la descrizione secca di fatti e sentimenti e la potente macchina letteraria messa in atto (nel Diario) per dare di sé una rappresentazione «adeguata alle sue aspirazioni».
Il valore di questo inedito – pubblicato 43 anni, 9 mesi e 28 giorni dopo la sua morte – sta nel fatto che ci permette di conoscere un Gombrowicz non «in posa», privo delle numerose maschere che amava indossare per provocare e pavoneggiarsi davanti ai lettori. Eppure, anche in questo caso, lo scrittore polacco riesce a sorprendere e non risultare mai banale o scontato. La sua sincerità e il suo stile sono sempre eleganti e ironici, anche quando racconta delle sue scorribande per la Plaza Retiro di Buenos Aires in cerca di avventure erotiche con «giovinetti del popolo curiosi», operai, militari, marinai e anche «ballerine pelose» e altre persone incontrate occasionalmente. E poi, il 26 ottobre del 1964, annota: «Fatto all’amore con una donna dopo almeno 20 anni. […] Strano cambiamento, una conversione, Rita, ma a doppio taglio».
Come la registrazione di un flusso di coscienza, spesso disordinato, scorrono lungo le pagine annotazioni di fatti privati e pubblici, mescolati assieme, come quando la nostra mente saltella di palo in frasca e la memoria provoca bizzarri cortocircuiti. 1939: «Arrivo a Buenos Aires. Notizia del patto russo-tedesco. […] Marchesa dall’Orso. Visita al giardino zoologico. – Fiera del bestiame»; 1952: «Scrivo una commedia musicale. […] Avventura con un poliziotto. Il marinaio Carlos. […] Capodanno in solitudine a Plaza Retiro»; 1955: «Ci si trastulla ancora con la rivoluzione. La prostata meglio, ma il dente mi fa male»; 1956: «Gomułka in Polonia. Rivoluzione in Ungheria. Sabato con Raúl […] a Plaza Retiro. Interesse per la politica. Invasione di Suez. Giedroyc mi propone di pubblicare un diario»; 1957: «Lettere: dalla Polonia e un brano di un programma della radio di Varsavia. “Orgoglio della nazione.” Ne sono entusiasta e scrivo meno»; 1961: «Salute: non pessima, respiro male, la morte si fa sempre più vicina…»; 1964: «Prof. von Kres: operazione alle tonsille. (Morte.) (Morte.) […] Dio, Dio mio, non sono mai stato così male, così senza alcuna speranza! […] Comincio a stuzzicare Rita […] Erotismo. […] All’improvviso passeggiate al sole, di pomeriggio, bellissimo…».
Kronos è un «diario privato» non destinato a essere pubblicato e anche uno strumento mediante il quale Gombrowicz dette una struttura al suo Io, ritrovando le radici della sua storia e fissando, via via che, dal 1953, gli anni passavano, i fatti salienti della sua esistenza, il crescente successo in Polonia e nel mondo e insieme il doloroso avanzare della malattia e l’avvicinarsi della morte (con la comparsa provvidenziale, negli ultimi anni, della giovane compagna, e poi moglie, la canadese Rita). Ma questo aspetto «privato» di Kronos, punteggiato da appunti di lavoro, ogni tanto si incrina: è come se Witold si confidasse a un amico in una lunga interminabile lettera. Ci sono cambiamenti di tono e commenti abbastanza strani, quasi confidenziali (es. «Lettera di Janusz: la mamma è morta», agosto 1959; «(Morte.) (Morte.) Stranamente mi sto abituando all’idea del suicidio.», febbraio e aprile 1965; «Sono andato via da Buenos Aires per morire…», novembre 1965; «Ho dimenticato di scrivere…», febbraio 1967.
In tutto questo caos di avvenimenti ed emozioni, soltanto tre volte Gombrowicz si lascia andare a espressioni di grande entusiasmo:
1) quando riesce a comprare un grammofono e può ascoltare la musica (1959: «Ho messo in moto il Ken Brown: Hammer, quartetti, sonate. Un crescendo di entusiasmo»);
2) quando si manifesta l’erotismo;
3) quando parla di Rita (anche se non è abituato a convivere con qualcuno, annota scrupolosamente tutti i piaceri domestici: le cene, i giochi con il cane, le piccole attenzioni, le gite in macchina e le passeggiate, le visite degli amici; ma anche i litigi, le incomprensioni, le crisi). Solo una volta, a proposito della sua giovane compagna, usa, quasi con timidezza, la parola amore.
Dell’amore Gombrowicz disse che era qualcosa che, per colpa della madre, gli «era stato tolto per sempre» e per il quale non «sapeva trovare una forma» (Testamento. Conversazioni con Dominique de Roux, 1968). A Gombrowicz piacevano gli uomini, ma soprattutto la «giovinezza». E questa è la chiave per capire la sua «sfrenatezza sessuale», che costella tutto Kronos, dalle giovanili «prime prove pederastiche» a poco prima dell’aggravarsi della malattia. Già in Polonia Gombrowicz poteva contare sulla sua bellezza fisica, dai tratti delicati quasi femminili, e sul fascino un po’ snob, che esercitava sui «giovinetti del popolo», sulle grasse cuoche e sulle servette con le gambe orlate dalle vene varicose (come nello scandaloso racconto Sulla scala di servizio, 1929). Questo aspetto trovò un facile sbocco nell’anonimato dell’Argentina degli anni quaranta e cinquanta, dove l’omosessualità «attiva» non era considerata così negativamente come in altre culture. Gombrowicz, povero e solo, ma non per questo privo della sua aristocratica eleganza (esaltata anche dai vestiti che gli donava il direttore della banca dove faceva finta di lavorare), sopravvisse psicologicamente, anche grazie alle occasionali e facili «scorribande sessuali» prima tra i popolani – che gli attaccarono alcune malattie veneree, mensilmente descritte, senza reticenze, in Kronos – e poi tra i giovinetti che lo adoravano come un Maestro, e pendevano dalle sue labbra nelle ore passate ai tavolini dei caffè.
In Kronos, Gombrowicz, ragionando per se stesso, tocca il tema della sua sessualità in totale libertà e con una certa leggerezza. Del resto, già il Diario era molto esplicito a tal proposito, tanto da non giustificare affatto la «stroncatura postuma» che gli fece Pier Paolo Pasolini («La sventura di non conoscere né Freud né Marx», in Il Tempo, 24 dicembre 1972): «Questo di Gombrowicz non è per nulla un diario esistenziale: è piuttosto uno zibaldone di esperienze di intellettuale, fatte, da farsi, rientrate o appena accennate, come preziosi conati […] La figura dell’autore che ne viene fuori è quella di un uomo sbagliato, non solo poco colto, ma anche poco intelligente: una specie di sgraziato buffone senza corte che crede sia difficile capire la verità e soprattutto che sia obbligatorio dirla, che l’inopportunità possa essere programmata, che la sgradevolezza sia un elemento del genio e che ghignare sia segno di superiorità». Pasolini però si entusiasmava per i capitoli del Diario relativi al 1958, sul soggiorno di Gombrowicz a Santiago del Estero, sull’amicizia con il sedicenne Gige, sulla bellezza dei changos, i piccoli servi sottoproletari di origine indiana. Se avesse potuto leggere Kronos avrebbe capito meglio il punto di vista e i comportamenti di Gombrowicz.
Tutta la vita di Gombrowicz trova infatti nelle pagine di Kronos una sorta di grande ricapitolazione all’insegna della numerologia (una delle sue grandi manie). Tutto ciò che viene annotato ha, per Gombrowicz, un senso all’interno della combinazione dei numeri: il suo «anno fatale», il 1964, ha somma 20 e Rita, che conobbe proprio allora, è simboleggiata dal 22…
Dal 1939 in poi i fatti sono elencati mese per mese con una sorta di riepilogo-bilancio finale dell’anno trascorso. La mania delle liste di avvenimenti, ricorrenze, denaro (contabilità dei soldi ricevuti ma anche la generosa «borsa» passata mensilmente al giovane studente Mariano Betelú o i soldi inviati ai parenti in Polonia), lavori e letture, malattie e medicine, amanti, anniversari (tragicomico è quello, ogni anno puntualmente segnalato, delle dimissioni dalla banca dove aveva infelicemente lavorato) è – al di là di una certa scrupolosità da «ragioniere» (dovuta alla cronica povertà e, a partire dagli anni sessanta, a un piccolo e sempre crescente benessere) e di un’apparente propensione alla superstizione – il chiaro segno del desiderio di tenere tutto sotto controllo, di non distrarsi e perdere il filo di un fragile ordine continuamente perso e riconquistato a fatica.
Di tutti i pignoli elenchi che Gombrowicz fa, quello che prende piede prepotentemente in Kronos, a partire dalla fine degli anni cinquanta, è la citazione dei dischi di musica classica che egli acquista: Gombrowicz enumera tutti i musicisti e loro opere.
La musica ha sempre avuto una grandissima importanza per Gombrowicz. Nel 1959, uscito un po’ dalle ristrettezze economiche e dal completo isolamento, la riscoprì. Nel Diario, pubblicato su Kultura, scrisse: «Da anni mancavo dal mondo della musica. Ne avevo perso la consuetudine. Da giovane, come tutti allora, mi dilettavo a divorare Beethoven – ma poi, cosa volete, egli si era eccessivamente accasato nel mio orecchio e venne il momento in cui la “frase” mi era parsa vicina alla fraseologia […]. Alcuni mesi fa, tuttavia, ascoltai il Quartetto in fa minore, l’undicesimo – non so se quel giorno fossi stato particolarmente avido di musica o mi avesse conquistato la ricchezza polifonica del quartetto, quell’insieme di archi sempre inesauribile… comunque l’indomani comprai i dischi con i quartetti… e mi smarrii».
Beethoven, del quale più di tutti Gombrowicz acquista i dischi, «consumandone i Quartetti» a forza di ascoltarli, era stato, a suo parere, l’unico che era riuscito a dominare una forma che ormai andava in pezzi, il vertice della composizione musicale: «l’unica musica che è veramente riuscita all’umanità e che affascina…».
Tutto il Diario è pervaso dalla musica: al suo interno c’è addirittura uno straordinario «raccontino assai dodecafonico», come lo definì Gombrowicz stesso (fine del 1961), e una giornata è introdotta persino da un singolare «Andante scherzo, quasi allegretto» (1960). La struttura del Diario, lo si capisce ancor meglio con l’aiuto di Kronos, rivela un sapiente dosaggio di ritmi, temi che, come fiumi sotterranei, rizampillano fuori a distanza di decine di pagine, e di anni, riprendendo il punto esattamente da dove era stato lasciato.
Nel «caotico» Kronos, gli elenchi dei musicisti e dei brani musicali funzionano come una sorta di ossatura alla quale si aggrappano tutte le altre notizie (in primo luogo quelle della scrittura e delle pubblicazioni dei suoi libri). Si capisce così meglio che la musica fu una delle poche belle certezze nella sua esistenza: un’àncora di salvataggio e l’occasione di riflessioni e studi. La sua amica Maria Paczowska una volta, a Parigi, mi mostrò i disegni che Gombrowicz faceva ascoltando i dischi: complicati ghirigori e diagrammi con i quali tentava di dare un personalissimo ordine grafico alle emozioni che la musica gli trasmetteva.
Kronos è pertanto il diario più vero e diretto di Gombrowicz: quello non filtrato dalla letteratura (come è il Diario che scrisse e pubblicò quando era in vita), quasi un messaggio abbandonato in una bottiglia che ci arriva in una forma non lavorata, essenziale. Il messaggio di uno scrittore geniale, a lungo non riconosciuto per il suo valore, tormentato dalle malattie e dalle ristrettezze, in lotta con il tempo che bruciava troppo rapidamente la sua vita sciupandone il desiderio dell’eterna giovinezza e frustrando le sue esuberanze; uno scrittore che seppe però trovare, oltre la disperazione, gli appigli per non affondare, regalandoci, anche con questo «diario privato», un bizzarro lascito e una testimonianza, dal profondo, della vita che ribolle e poi si spegne.
Budapest, 31 dicembre 2017.
Francesco M. Cataluccio