Luciano di Samosata indiretto precursore del fantastico?

Premessa. In qualsiasi epoca la crux desperationis posta accanto al binomio realtà/finzione segnalava l’impossibilità di separare nettamente, pure servendosi dell’aiuto del rasoio di Occam, tale formula ambivalente, anche perché questa era la radice stessa del mondo. Ho detto era, ma potrei benissimo dire è.

Sincretismo. La vita di Luciano di Samosata, retore e filosofo del II sec. d. C., è concordemente e tradizionalmente divisa in due periodi, caratterizzati da un risvolto culturale sincretico. Luciano fu prima retore (ovvero, uomo non solo di legge, ma prodromo del grammatico), poi si convertì alla filosofia, pur continuando a esercitare la retorica, che gli forniva il panem (la filosofia, invece, il circen). Trasferitosi da Samosata ad Atene divenne platonico, anche se continuò a manifestare un’indole letteraria piuttosto scettico-cinica. [1] Indole che si manifesta quando, al banchetto degli eroi e dei sapienti nelle Isole dei Beati, proprio Platone è il grande assente:

[…] Solo Platone non c’era, ma si diceva che egli vivesse nella città da lui stesso inventata, usufruendo di quella costituzione e di quelle leggi che aveva scritto. (II, 17)

Storie vere[2]. Il dittico realtà/finzione, o parlandone in termini platonici verità/menzogna, è il cardine di questo breve testo, composto di due libri e narrato in prima persona dallo stesso Luciano, che ne quindi è il protagonista[3]. Il filosofo-retore si troverà a viaggiare verso la luna, poi nel ventre di una balena, fino a giungere nelle Isole dei Beati e da lì di nuovo in Grecia. Un tratto ricorrente in tutti questi viaggi è la guerra: ovunque Luciano e i suoi compagni di avventura si troveranno immischiati in uno scontro. La guerra, o filosoficamente l’agone[4], è un topos che attraversa la letteratura greca da Omero ai filologi alessandrini e oltre. L’irrisione di un topos (la guerra non è il più importante tra questi, lo scettro spetta alle falsità di filosofi, poeti e storici) è peculiare nell’opera di Luciano, tanto più lo è in questa, come si legge all’inizio:

[…] Di fatto non solo l’atipicità dell’argomento e la bellezza dell’intenzione sarà per loro (i letterati, ndt) seducente, né il fatto che abbiamo divulgato svariate forme di menzogna, ma che ciascuna delle cose raccontate allude non senza essere messe in ridicolo a qualcuno degli antichi poeti e storici e filosofi che hanno scritto molte storie mostruose e fantastiche (mitiche), dei quali scriverei anche i nomi, se non ti dovessero apparire evidenti durante la lettura. (I, 2)

[…] Così che almeno su questo (sul modo di esposizione, ndt) sarò veritiero dicendo che mento. (I, 5)

È interessantissimo notare come Luciano nelle sue intenzioni si rivolga a un pubblico di specialisti (filosofi etc.), con lo scopo ben chiaro di ridere di loro e delle loro falsità, e al lettore comune, una vera rarità. Distinguendo, però, due diversi destinatari della sua opera – i primi leggono per conoscenza, i secondi per piacere – Luciano involontariamente (quante cose non sanno o non immaginano che possano accadere, gli scrittori!) dà una prima soluzione alla dicotomia realtà/finzione, per quanto ancora passeggera e non facente parte esplicitamente di una poetica[5].

Prima del fantastico: lo specchio e il pozzo. Leggiamo verso la fine del primo libro delle Storie vere:

E anche un’altra meraviglia ho visto nelle stanze del re (della Luna, ndt): uno specchio grandissimo posto in un pozzo non troppo profondo. Dunque, se qualcuno scende nel pozzo, sente tutto ciò che si dice tra noi sulla terra, ma se alza lo sguardo verso lo specchio vede tutte le città, tutti i popoli come se si trovasse in mezzo a loro; allora io vidi i miei familiari e l’intera mia patria, ma se anche loro mi vedessero, non sono in grado di dirlo con certezza. E chi non crede che queste cose siano vere, se un giorno verrà qui, saprà se dico la verità. (I, 26)

Se per assurdo estrapolassimo queste poche righe e le inserissimo nell’Antologia della letteratura fantastica di Borges, Ocampo e Bioy Casares, privandole dunque di quel sardonico riso che le anima, diremmo che queste sono in tema con le scelte narrative dei due sudamericani. Eppure, il buon senso suggerisce che non possiamo dimenticare quel riso! E, invece, dimentichiamolo! E al diavolo il buon senso! In questo passo ci sono due elementi fondamentali del fantastico: un pozzo (o in senso più ampio un buco) e uno specchio. Chi entra nel buco può sentire le voci dei terrestri, e attraverso lo specchio addirittura guardarli, ma i terrestri non li sentono o non li vedono – non c’è prova almeno che visione e ascolto siano reversibili. Luciano, d’altronde, seguace della verità e insieme della tecnica retorica con la quale raggiungerla, non avrebbe potuto immaginare una possibile reversibilità, se non in un ambito puramente parodistico, come accadrà nei suoi dialoghi, in cui i morti e gli dèi discutono tra loro. Morti (di solito eroi) e dèi, appunto: tutto ciò contro cui si scaglia Platone, i finti per eccellenza. Ma al diavolo anche Platone, mummificato nella sua irreversibilità! Chiediamoci piuttosto se non sono buco e specchio luoghi del fantastico, attraverso i quali il fantastico (ossia, la congiunzione di reale e finto, di vero e menzognero) accade? E che cosa direbbe Luciano se sapesse che molti scrittori hanno accettato il suo invito, hanno viaggiato fino sulla Luna e sono scesi nel pozzo, nel buco, e hanno guardato nello specchio, perché è lì dentro che avvengono le cose mitiche, cioè quelle che vale la pena di conoscere?



[1] Come per molti scrittori dell’antichità il dibattito centrale sulla loro opera si snoda intorno all’attribuzione di titoli, alla verifica o confutazione di questi ultimi etc. Altro cavillo imprescindibile è esperire la fonte, talvolta addirittura il maestro. Nel caso di Luciano, il retore/filosofo s’inventò il proprio maestro (non è comunque un caso unico), il platonico che lo iniziò alla filosofia (alla ricerca della verità, dunque. Un’invenzione per attribuirsi una qualche considerazione nel mondo delle idee?). Lo chiamò Nigrino, semanticamente il contrario di quello che i filologi gli attribuiscono, cioè Albino.
Albin Lesky (ah! Le coincidenze!) tuttavia è d’accordo con Luciano, dimostrando a dispetto di quanto si è sempre detto dei filologi: un notevole senso dell’umorismo.
[2] Di solito intitolata soltanto Storia vera (versione gamma), l’opera nella sua versione beta aveva il titolo al plurale. Le differenti versioni sono tradizionalmente indicate con lettere dell’alfabeto greco, così come oggi alcuni software nella loro versione sperimentale o di prova sono indicati con la seconda lettera dell’alfabeto greco, beta.
[3] Le Storie vere sono, secondo le attuali categorie, autofiction.
[4] La sfida stessa che le Storie vere lanciano riguarda il dittico della premessa.
[5] Per questa bisognerà attendere più di diciotto secoli e la pubblicazione di Finzioni di J. L. Borges.