All’ippodromo di Napoli io prendevo le scommesse. Significa che i giocatori mi passavano i soldi, io li contavo, controllavo che non fossero falsi, registravo su un borderò le puntate (sul foglio ufficiale quelle fino ai 100 euro; su un foglietto che tenevo nascosto in mano quelle grosse: 500, 1000, 2000, 3000) e li mettevo in cassa.
Prendere le scommesse è un lavoro che dura tre minuti. Tre minuti per otto volte: una per ogni corsa. Bisogna fare questo: non ascoltare le urla, non intimorirsi per la gente che sgomita e si scavalca e allunga le braccia perché tu prenda la sua puntata e se non lo fai si fionda con tutto il corpo dentro il picchetto che è il tuo posto di lavoro; non voltarti verso i “Bellaaa!” di quelli che ti chiamano e ti toccano per passarti i soldi; allungare la mano solo verso le puntate che l’allibratore ha accettato, quindi guardare e ascoltare solo dove guarda e ascolta l’allibratore; controllare che il suo biglietto di ricevuta vada nelle mani del tizio che ti ha pagato e non di qualcun altro; che il suo biglietto di ricevuta porti scritta la cifra corrispondente ai soldi che hai in mano e non altro; che lui non stacchi insieme al biglietto di ricevuta anche quello seguente vuoto, perché se finisce nelle mani di qualcuno a fine corsa sei costretta a pagare qualsiasi somma ci sia scritta sopra. E poi prendersi cura dei soldi veri, che non si riconoscono grazie alla filigrana o al colore o mettendoli in controluce, ma solo toccandoli. Come le persone care.
Ogni giorno io aspettavo Gennaro. Gennaro era figlio di Merluzziello, ma Merluzziello era in galera e Gennaro lavorava al posto suo. Un po’ faceva il galoppino (giocava per conto di altri), un po’ giocava i soldi suoi, della banda, della famiglia, degli amici, seguendo i consigli di chi sapeva cos’era successo dietro le scuderie. Aveva la mia età, diciotto anni, e due fratellini: una bambina di sei anni e un bambino di tre. Diceva sempre che li doveva far mangiare. Non era vero, solo una maniera retorica di farsi uomo davanti alla vita: la madre a casa ce l’avevano e qualche soldo il sistema glielo passava, ma lui ci credeva così tanto che il giorno della Befana era sempre più nervoso del solito, strattonava la gente per farsi largo verso il picchetto e ottenere la quota migliore, perché doveva “fa’ ’e cazette ’e creatur”.
Ero l’unica donna carina dell’ippodromo. Ancora acerba, ma carina. I giocatori erano tutti uomini. Le donne e i bambini si vedevano solo nei fine settimana, soprattutto quelli estivi, quando la gestione organizzava concerti e spettacoli nei giardini alle spalle delle gradinate. D’estate sembrava quasi di andare a lavorare in un villaggio turistico: le corse finivano a mezzanotte come un’uscita serale, e noi tutti eravamo più spogliati, e abbronzati, e mangiavamo ghiaccioli nelle pause tra una corsa e l’altra. D’inverno il freddo era insopportabile, perché i picchetti erano all’aperto e proprio di fronte alle piste che disegnavano la valle circondata da piccoli crateri sulfurei. Un’umidità che le mie ossa ancora non dimenticano, come se le avessi lasciate per troppo tempo a bagno in una grossa conca d’acqua.
Gennaro mi piaceva. Non osavo dirlo, ma mi piaceva. Ero fidanzata con uno studente che come me lavorava lì solo come altri della nostra età facevano i camerieri – ma mi piaceva Gennaro. Mi piaceva la sua sfrontatezza, la capacità che aveva di portarsi dietro un soprannome ridicolo – Merluzziellino – eppure incutere timore, la cerimoniosa dimostrazione del suo senso di responsabilità verso i piccoli, la galanteria machista (“Fate piano, ché la ragazza ha le mani delicate”), gli occhi marroni che non abbassava mai. Mi piaceva il suo odore di doccia appena fatta, guardarlo compiere gesti qualunque: posare il motorino all’ombra perché il sole non scottasse la sella, indossare un paio di scarpe nuove, firmate (guardate ’cca!). Sapevo di non dover accettare niente da lui come da nessun altro (Signorì ’o vulit ’o café?, No grazie) sapevo che i suoi modi affettati potevano trasformarsi in violenza da un momento all’altro. Sapevo che il risultato della corsa era l’unica cosa che contasse: vincita: sorriso; perdita: bestemmie; perdita grossa: pericolo.
Quando suo padre uscì di prigione e tornò all’ippodromo si frantumò ogni tipo di equilibrio. Quei patti segreti per cui gli allibratori sapevano quando e a chi gonfiare la quota e i giocatori accettavano di non prevaricare sempre, di stare alle regole del gioco. Le risse aumentarono a dismisura, alcuni picchetti non bancavano la corsa per protesta, gli scommettitori più quieti preferivano puntare nella sala del totalizzatore: le quote erano peggiori ma ci si poteva preservare dai casini. Merluzziello era uscito più galvanizzato che mai, come se rinchiudendolo in carcere gli avessero fatto perdere del tempo: picchiava i passanti solo perché gli stavano davanti e non dietro, minacciava al vento perché la minaccia colpisse tutti, tirava coca, s’infilava nei bagni con la contrabbandiera di sigarette.
Durò poco: fu di nuovo arrestato per rapina a mano armata e tornò in galera, ma fece in tempo ad avere un ultimo colpo di testa, a tirarsi dietro l’incazzatura di qualcuno che per vendetta se la prese con il parente a piede libero, e così Gennaro morì. Gli spararono alle spalle mentre entrava all’ippodromo accompagnato mano nella mano dai fratelli piccoli, la femmina a sinistra e il maschio a destra. Io lo seppi dal mio fidanzato. Avevo la febbre alta ed ero rimasta a casa a pensare che non vedevo Gennaro già da una settimana.
Gomorra – la serie è un eccellente prodotto narrativo e quando sento dire che potrebbe arrecare danni alla società per colpa del fascino che infonde nell’immaginario della gente, mi viene sempre da sorridere. Mi viene da sorridere anche quando sento la tesi contraria, e cioè che le persone per bene sono immuni da questo fascino, e che gli unici a cui può toccare l’argomento sono quelli che già hanno scelto di stare dalla parte sbagliata.
Il fascino del male esiste eccome. Esistono gli occhi marroni di Gennaro, esiste il colpo di pistola che l’ha ucciso a diciotto anni ed esiste una ragazza di buona famiglia che forse non si era del tutto innamorata, ma certo in quel momento provò un intenso sentimento di lutto e che ancora oggi, a ripensarci, vorrebbe aver accettato almeno una volta di fare un giro in motorino con lui, mostrargli qualcosa di diverso, una visione presuntuosamente dall’alto, fosse anche solo di sé stessa.
Che questo sia giusto o sbagliato non importa. La narrazione sta lì a raccontare le cose del mondo. Come siamo fatti, come stiamo tra di noi, cosa ci porta da una parte o dall’altra, cosa sono questa parte e quell’altra, in che misura esistono e quando e come e perché. Non ascoltare le storie non farà mai di noi delle persone migliori così come ascoltarle non ci salverà.