Quando Nichi tornò in camera e alzò le tapparelle, le sembrò di essersi appena addormentata. Le pulsava una tempia e le bruciavano gli stinchi, là dove li aveva grattati per ore usando ogni volta l’opposto tallone. Coprì la testa col piumone e lasciò che l’imbottitura soffocasse i suoi lamenti. Nichi si fermò a fissarla sulla soglia, mentre il gatto disegnava l’infinito tra le sue caviglie.
«È ora», disse. «Muovi il culo.»
«Non puoi andarci da solo?», disse lei. Poi aggiunse: «Per favore.»
«No che non posso», disse lui. «È tua madre.»
«Ma io ho lavorato fino a tardi, ieri notte.»
Dal punto in cui stava lui le parve provenire uno scricchiolio acquoso.
«Per favore», disse lei, e sentì il gatto miagolare.
«Alza il culo, Greta. Piantala di fare storie.»
«Non ce la faccio, Nichi. Non ce la faccio proprio.»
«Guarda che non ci vado senza di te.»
«Ti prego.»
«Per quel che mi riguarda, tua madre può anche morire in stazione.»
«Non sono mica io che l’ho invitata.»
«Alzati», disse lui.
Il corpo sotto il piumone si contrasse.
«Ancora un’ora, Nichi, ti prego. Mi scoppia la testa. Ho bisogno di dormire ancora un’ora.»
Il gatto miagolò più forte.
«Okay. Andrò da solo a prendere tua madre alla stazione, sei contenta? Ma quando sarò di ritorno voglio trovarti in piedi a dare una mano alla vecchia. Che cazzo ti credi, di stare in un albergo?»
Era quello che le aveva detto anche la notte precedente, quando l’aveva accolta nella penombra, vestito solo dei boxer: «Hai scambiato questa casa per un albergo?» – e poi con una spinta l’aveva restituita al pianerottolo.
«Nichi», disse lei da sotto il piumone, «puoi riabbassare le tapparelle, per favore?»
Lui fece uno scatto nervoso in avanti e annusò l’aria. Attese che il gatto uscisse dalla stanza, poi si mosse verso la finestra e impugnò il nastro delle tapparelle, tirandole giù soltanto a metà.
«Grazie», disse lei da sotto le coperte. «Grazie, Nichi, grazie.»
Provò a riaddormentarsi, ma il rumore della televisione la infastidiva. Si alzò rapidamente per chiudere la porta con un calcio e poi si infilò di nuovo sotto le coperte. L’aria era pesante, lei aveva il naso secco e non riusciva a respirare. Si rivoltò qua e là furiosamente e sprimacciò il cuscino ancora umido di bava, infine imprecò e lasciò la sua branda. Nichi era appena uscito. Dall’altro lato della stanza il letto di Nichi aspettava lei per essere rifatto. Si avvicinò, tirò giù il piumone e aprì la finestra per far prendere aria alle lenzuola. Vide che il cielo era giallo e immaginò ci fosse il sole. Passò le dita sul vetro e ci disegnò sopra un cuore, per ingannare l’attesa. Aveva voglia di un caffè ma in cucina c’era la madre di Nichi e non le andava di incontrarla, così prese i vestiti e si chiuse in bagno per farsi una doccia.
Quando Nichi rientrò, gli andò incontro con un asciugamano avvolto attorno alla testa. Alle sue spalle sua madre ciondolava nell’attesa che qualcuno la invitasse a entrare. Greta non si lasciò ingannare dal sorriso e dal tono di voce cordiale, conosceva sua madre, era sempre difficile capire quello che pensava veramente.
La madre di Nichi le andò incontro e le due donne si strinsero la mano.
«Clara», si presentò, «tanto piacere. Finalmente ci incontriamo.»
«Marisa», disse la madre di Greta. «Ti prego, diamoci del tu.»
«Vieni, Marisa, siediti pure», disse la madre di Nichi. «Nichi, cosa aspetti, prendile il cappotto. L’appartamento è piccolo, non c’è molto altro da vedere. E il pranzo è quasi pronto.»
«Che bella tavola», disse Marisa, entrando in cucina. «Spero che Greta abbia dato una mano.»
«Ciao, mamma», disse Greta.
Sua madre l’abbracciò.
«Stai bene?», disse.
«Benissimo, mamma.»
«Perché non ti sei asciugata i capelli?»
«Lo faccio dopo.»
«Ti fa male startene lì con la testa bagnata.»
«Lo faccio subito dopo mangiato.»
«Rimpiangerai questa brutta abitudine, quando avrai la mia età.»
Greta annuì e andò a sedersi al suo posto abituale, accanto a Nichi e davanti alla madre di Nichi, mentre Marisa occupò l’ultimo posto libero.
«Ho preparato il risotto alla milanese con gli ossibuchi», disse Clara, «il piatto preferito del Nichi.»
Greta distolse lo sguardo e sospirò.
«Che meraviglia», disse Marisa, sistemandosi in grembo il tovagliolo. «Hai fatto tutto da sola?»
«Nichi mi ha dato una mano», disse Clara. «Gli piace cucinare la carne.»
«Che bravo ragazzo», disse Marisa. «E Greta cucina?»
«Non ce n’è mica bisogno. Ho sempre preparato il pranzo per Nichi e per me, in tutti questi anni. Una persona in più non fa differenza.»
«Spero solo che i ragazzi non ti stiano arrecando fastidio», disse Marisa.
«Il peggio tocca a loro, poverini, costretti come sono a dividere la casa con una vecchia brontolona. Io, comunque, cerco di lasciarli soli più che posso. Di solito il fine settimana mi trasferisco da mia cognata, e porto pure il gatto.»
«Ma ti pare, Clara, in fondo questa è casa tua.»
Clara si strinse nelle spalle e il golfino color fumo si arricciò in una fisarmonica di pieghe.
«Tu sei ancora giovane, Marisa, e hai un uomo e un’altra figlia a cui pensare. Ma io ho fatto il mio tempo. È ora di lasciare spazio ai giovani.»
«Ma questi giovani sono grandi a sufficienza per cavarsela da soli», disse Marisa. Guardò Nichi che sorseggiava un bicchiere di vino e chiese: «Nichi, come va con l’università?»
«Bene», disse Nichi, battendo un ritmo immaginario sul bordo del piatto con le punte della sua forchetta.
«Potrebbe andare meglio», disse Clara. «Non sostiene più un esame da due anni.»
«È colpa del lavoro», disse Nichi. «Non ho tempo a sufficienza per studiare.»
«Hai forse cambiato lavoro?», disse Marisa.
«No, è sempre lo stesso», disse Nichi.
«E quando Nichi lo ha accettato, mi ha assicurato che gli avrebbe lasciato tutto il tempo necessario per studiare», disse Clara.
«Quando sono a casa non ci sto con la testa, mamma», disse Nichi. «Il lavoro mi risucchia tutte le energie.»
«Come no», disse Clara. «Ti vedo, la mattina, quando ti metti sui libri. Leggi appena due righe e poi inizi a gingillarti col telefonino finché arriva l’ora di andare in ufficio. Li sento, i suoni di tutti i messaggi in arrivo. Chissà a chi avrai tante cose da dire, ora che Greta sta qui con noi.»
Nichi posò la forchetta al lato del piatto.
«Mi sarebbe piaciuto che anche Greta terminasse l’università», disse Marisa. «Magari, se trovasse un lavoro migliore, con orari più umani…»
«Il lavoro al pub non ha niente che non vada, mamma», disse Greta. «Mi piace lavorare di notte.»
«Ne sono sicura. Ma forse, se lavorassi di giorno, la domenica mattina non saresti troppo stanca per andare a prendere tua madre alla stazione», disse Marisa.
«Non sono io che ti ho detto di venire così presto», disse Greta.
«Marisa, vuoi ancora un ossobuco?», disse Clara, porgendole la pentola.
«Volentieri, grazie», disse Marisa. «Ma lasciane qualcuno anche per Nichi.»
«Greta, tu ne vuoi ancora?», disse Clara.
«No, grazie», disse Greta. «Non ho molta fame.»
«Questa ragazza non mangia mai niente», disse Clara.
«È sempre stato difficile farle mandare giù qualcosa», disse Marisa. «Greta, avanti, prendi un ossobuco.»
«Non mi va, mamma.»
«Vuoi qualcos’altro?», disse Clara. «C’è un po’ di formaggio in frigo.»
«No, Clara», disse Marisa. «Sei molto gentile, ma se Greta ha fame mangerà un ossobuco. Altrimenti digiunerà, e peggio per lei.»
Clara rimise il coperchio alla pentola, poi guardò Nichi che si riempiva di nuovo il bicchiere.
«Nichi, non ti sembra di aver già bevuto abbastanza?», disse.
«No, mamma», disse Nichi, e si portò il bicchiere alle labbra, suggendo il vino dal bordo.
Clara lanciò un’occhiata al di là delle tende e disse: «Sei fortunata, Marisa. Hai trovato una bella giornata.»
Marisa non rispose.
«Dopo il caffè potremmo andare tutti a passeggiare lungo il fiume», disse Clara.
«Mi sembra un’ottima idea», disse Marisa, posando il tovagliolo.
Davanti a lei, Greta e Nichi fissavano in silenzio i propri piatti vuoti.
Benché non piovesse da giorni, il terreno era umido e i ragazzi camminavano attraverso le pozzanghere. Avevano lasciato indietro le due donne, che adesso chiacchieravano tra loro e sembravano ignorarli.
«Allora, quando cominci a cercarti un posto dove stare?», disse lui.
«Subito. Domani» disse lei.
Nichi passeggiava con le mani nelle tasche dei calzoni, d’un tratto le cavò fuori e le prese una mano. Non era più in collera, adesso, sembrava solo triste.
«Sai» disse «mi dispiace che le cose non siano andate come volevamo. È il lavoro che non mi lascia il tempo per pensare.»
«Lo so, Nichi.»
«Ti avevo promesso che quella da mia madre sarebbe stata una sistemazione momentanea.»
«Non importa, Nichi, davvero. Non mi costa nulla cercarmi un appartamentino.»
«Avrei voluto farlo io, ma proprio non ci riesco.»
«Non fa niente. Anzi, forse è meglio così. Mi troverò un posto mio e noi due prenderemo le cose con più calma. Ci farà bene.»
«Dici? Pensi che ci farà bene ricominciare a frequentarci come due fidanzatini dopo che abbiamo fatto il grande passo?»
«Abbiamo agito troppo in fretta, bruciando le tappe. Ci siamo sottoposti a troppi cambiamenti, tutti insieme.»
«Mi sembrava che anche tu li volessi.»
«Certo, li volevo tanto quanto li volevi tu. Ma non abbiamo mai vissuto come fidanzati veri, siamo sempre stati in casa di qualcuno, sempre insieme. Separarci per un po’ non può farci del male, vedrai.»
«Sarà. A me sembra l’inizio della fine. L’equivalente del prendersi una pausa.» Pronunciò quelle ultime parole con un sibilo di sprezzo. Stava tornando rabbioso.
«Forse è quello di cui abbiamo bisogno, adesso. Fidati, Nichi. Abbiamo resistito fino a qui e resisteremo ancora.»
«Okay», disse lui, e le strinse più forte la mano con le dita.
Alle tre e mezza tornarono indietro per consentire a Marisa di prendere il treno. Questa volta Greta andò con Nichi alla stazione. Sua madre l’abbracciò sul binario e poi l’ allontanò quel tanto che bastava per guardarla dritto in faccia.
«Sei sicura di non voler tornare a casa?», disse, mentre il fumo della stazione centrale le faceva lacrimare gli occhi. «Basta che me lo dici e ti riporto subito indietro.»
«No, mamma, grazie. Davvero.»
Marisa mosse il capo, su e giù.
«Va bene», disse. «Abbi cura di te e di quel povero ragazzo.»
«Sì, mamma, fai buon viaggio.»
Per tutto il tragitto del ritorno Greta e Nichi ascoltarono la musica in cassetta battendo il ritmo sui rivestimenti in plastica dell’auto. Greta, che osservava il panorama al di là del finestrino, si accorse che Nichi non stava imboccando la strada di casa, ma non disse nulla. Lui diresse l’auto verso i confini del parco e parcheggiò al principio di una stradina sterrata, sotto una duna di sabbia e cemento che nascondeva il tramonto.
«Perché siamo qui?», disse lei.
«Per scopare», disse lui.
«Non potremmo farlo a casa?», disse lei.
«Hai detto che ti sarebbe piaciuto farlo in macchina, una volta tanto. Che farlo sempre alla stessa maniera ti stava annoiando.»
«Sì, è vero.»
«Be’, eccoci qui», disse lui.
Cacciò il capo tra i sedili e cercò di passare nella parte posteriore. Lei dovette aiutarlo spingendolo per le ossa delle natiche, poi rimase a guardarlo mentre si afferrava le gambe e le incastrava negli spazi vuoti. Quando Nichi si fu sistemato, sgusciò dietro a sua volta e si piazzò sopra di lui. Lo aiutò a slacciarsi la lampo e a calarsi un po’ i calzoni. Infine ridiscese e raccolse le ginocchia, sotto il finestrino, su cui aveva scritto il proprio nome con il dito. Nichi si stava massaggiando le cosce per riattivare la circolazione del sangue.
«Non capisco come ti possa piacere», disse. «È terribilmente scomodo.»
«Sì, hai ragione», disse lei.
Lui cercò di ricacciarsi i boxer nei calzoni, poi le rivolse un cenno sbrigativo con la testa.
«Rivestiti,» disse. «Ce ne torniamo a casa.»
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L’immagine di copertina è di alegri.