Il miglior amico del poeta, oggi, è il neurobiologo – al punto che si può dire siano la stessa cosa, se non proprio la stessa persona. Io stesso lo sospettavo da tempo, e ieri, assistendo a una conferenza del neurobiologo Samir Zukki, ne ho avuto conferma incontrovertibile. A chi insinua siano solo dicerie, riferite pure quanto segue.
Qualche giorno fa, imboscato in una mensa universitaria – ero travestito da studente fuoricorso di biologia – mi sono messo a origliare i discorsi di un gruppo di dottorandi in fisica teorica. La vastità della loro ambizione era a tal punto intrappolata in costrizioni teoriche a priori che questo gruppo di giovani – così freschi, così forti – si trovava, nei momenti di ozio, a suonare heavy metal e leggere, ad alta voce, interminabili discorsi indiretti liberi tratti dalle Cronache del ghiaccio e del fuoco.
Mi è subito venuta in mente la storia di quel poeta inglese che, dal momento in cui scoprì le tre Critiche di Kant, nell’affanno di studiare e capire, smise di scrivere – perse cioè l’ispirazione. L’ispirazione: è in questo punto che il neurobiologo ci si presenta davanti per liberarci dalle tare millenarie del linguaggio e della fede. La metonimia – ci dice per prima cosa il premuroso scienziato – quella capacità di operare associazioni originali, quella cosa che abbiamo chiamato, nei secoli, intuizione, entusiasmo, estasi mistica et cetera et cetera, quella capacità di meraviglia è prima di tutto legata a un certo tipo di attività cerebrale: quella cioè in cui le aree esecutive della scatola cranica si trovano in uno stato di attività blanda, lasciando spazio ad altre aree di operare a pieno carico – le altre aree più interne, e più antiche dal punto di vista evolutivo. Mi viene in mente la disciplina ascetica: l’insieme delle norme di costrizione del corpo – la meditazione, ad esempio – per zittire con la forza e l’impaccio le aree esecutive del cervello e lasciare spazio alle altre. Mi sorprendo, qui, ad associare monaco buddista e neurobiologo – mi sorprendo, ma dovrei semplicemente rallegrarmi.
Disciplina e metonimia. Prendiamo ad esempio la scienza moderna: la sua fierezza è il metodo sperimentale – l’arma più elastica e ubiqua mai concepita dal ventre dell’uomo. E tuttavia molti tra i grandi sconvolgimenti della scienza moderna, dalle equazioni di Maxwell ai principi della meccanica quantistica, passando per la relatività generale, sono venuti fuori attraverso manipolazioni matematiche così speculative e distanti dall’osservazione e dall’esperienza, che il laboratorio, quest’occhio sintetico dello scienziato, per anni si è rifiutato non solo di vedere – non c’era niente da vedere – ma di ammettere la necessità di dischiudere le palpebre e guardare. Quegli sconvolgimenti sono stati guidati da associazioni d’idee, metonimie. Queste metonimie erano numeri. Erano operazioni matematiche ad alto tasso speculativo il cui unico fondamento era l’assunto che tra numero e natura ci fosse una relazione privilegiata. Il numero, come la parola, nominerebbe il mondo là fuori, la natura o come altro si chiama. (Non c’è dubbio che questa corrispondenza biunivoca numero-mondo sia un equivoco – un equivoco utile, quasi una tautologia, chiamatelo come volete, non è questo il momento per giocare a nome, cosa e verità.)
Sempre il nostro neurobiologo, premuroso e totalizzante come un guru, per fare il solletico sotto le ascelle di Kant – le cui opere impedirono, secoli fa, al poeta inglese di continuare a poetare – ci dice che non è lo spazio a essere una qualità essenziale delle cose, ma che la scatoletta dell’uomo ha una sua peculiare predilezione per la ricostruzione simmetrica, geometrica di ciò che è la fuori; ci dice, inoltre, che calcolo e linguaggio interessano le stesse aree della materia grigia;che il legame è stretto sia dal punto di vista tassonomico che evolutivo: numero e parola sono la stessa arma – la stessa tara.
Ecco. Io stesso sospettavo da tempo che queste due categorie, scienza e letteratura, così distanti, antitetiche a detta di molti, proprio oggi, alla luce degli sfondamenti operati in entrambe le discipline, andassero invece pensate insieme – ma esitavo ad affermarlo per paura di essere preso per un new hippie, un rincoglionito o un alcolizzato. Di recente invece ne ho avuto conferma inconfutabile. Come ho detto, proprio ieri ho assistito, a Ginevra, alla conferenza di Samir Zukki, dal titolo Étant donnés. Alla mezz’ora ogni dubbio era estinto. Sul finale, il nostro – neurobiologo e poeta, ora posso dirlo senza remore – ha citato a memoria i versi di Parmenide:
«infatti in tutti gli uomini e in ogni cosa la natura delle parti è la cosa stessa la quale propriamente pensa»
In quel momento si è fatta ulteriore luce sulla questione. Non solo neurobiologo e poeta sono oggi la stessa cosa, ma lo sono sempre stati.
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L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione