Passano le settimane, e nessuno ha ancora capito se la Carla guarda il grattacielo o il mare. Sta seduta lì, sulla panchina vicino al bancomat. Arriva in anticipo tutti i giorni; mentre aspetta, batte con le nocche delle mani una contro l’altra. Non ha bisogno di sigarette, la Carla, delle parole crociate, del telefonino. Solo le nocche delle mani. E gli occhi sempre dritti sul grattacielo, laggiù. O sul mare. O su tutti e due.
«Puntualissima, Carla…», dice Loris Braghittoni, il mio capo, appena sceso dalla sua Volkswagen Touran.
Braghittoni è uno che sorride sempre, ma sotto c’ha un nervoso che gli mangia lo stomaco. Non sopporta che la Carla arrivi prima di lui, al mattino; gli vien la sudarella, gli si blocca la digestione del cappuccino. La Carla, invece, gli sorride in faccia, come per dire “sì, sono proprio io, sono già qui”.
Braghittoni infila la chiave e apre. Entriamo. Si comincia.
Cassaforte. Combinazione. Via al temporizzatore. Cinquantanove secondi. Cinquantotto secondi. Bussole antirapina accese. Controllo del metallo attivo. Computer avviato con la punta della scarpa. Password. Lettore assegni acceso.
Un respiro lungo come una galleria…
«Buongiorno, prego», dico.
La Carla viene avanti; ha addosso una sottana di stoffa, spiegazzata, che striscia per terra. Nei piedi, due sandali che scricchiolano da matti. Un foulard le fa i capelli come un confetto, e finisce annodato sotto il mento. Gli occhiali, con la cordicella, le oscillano sui seni. Il bello della Carla è che spruzza colore sul grigio della banca; è una cosa speciale vederla qui dentro, vedere il contrasto, per me. Dieci miliardi di rughe, una faccia tutta aggrovigliata nella vecchiaia.
«Aspetta», mi dice, «to’, guarda se è arrivata la pensione».
Schiaccio sulla tastiera i soliti tre tasti. Qui è così: o impari a correre veloce, con le dita e col cervello, o il mio capo, gran visir Loris Braghittoni, ti si pianta dietro e ti bombarda di “muoviti!” fino a sera; è un mastino, certe volte me lo ritrovo sopra che snasa, invelenito. Braghittoni dice sempre che “coi vecchi è tutta beneficenza, la banca non è mica la Caritas”, e si ringalluzzisce tutto, quando lo dice.
La Carla legge l’importo del saldo sul libretto, seicento e rotti, poi fa:
«Tolgo un po’ di soldini per domenica, che devo far la spesa».
«Quanto vuole prelevare?», le chiedo io.
«Duecento, tutti in pezzi da cinquanta. Questa domenica vengono a mangiare i miei nipoti, a mezzogiorno».
Digito l’importo e scelgo il taglio. Il dispensatore di banconote ne sputa fuori una alla volta, a linguate. Le conto, lentamente, a voce alta, la faccio firmare e l’operazione è finita. La Carla infila i soldi nel portafoglio, poi lo chiude e lo mette nella tasca della borsa, dove può riprenderlo a memoria. Ma non ha ancora finito, non va mica via. La mia fretta si schianta contro la sua calma.
«Sta’ a sentire me», mi dice, «noi altri, quand’ero piccola io, eravamo in ventinove in casa. La roba da mangiare finiva subito. Adesso invece è cambiato tutto, ai giovani non gli va bene neanche il pane, non gli va bene. Io, a diciott’anni, lavoravo già nel campo del mio babbo, in campagna».
E intanto, dietro, qualcuno sbuffa e batte i piedi.
«Perché i giovani son già stanchi, quando si svegliano la mattina», dice la Carla.
Poi chiude la borsetta e tira la cerniera. Non dice più niente, solo un’occhiata, due occhi che hanno una patina di malinteso.
Se ne va. Io chiamo:
«Il prossimo».
E quelli là si guardano sull’attenti. Uno si gratta la barba, l’altro è a braccia conserte.
«Mi scusi, c’ero prima io», dice uno.
«Guardi, faccio in un attimo», dice l’altro.
E uno lascia perdere, e l’altro viene avanti.
Versamento. Trecento euro. Contabile di cassa. Estratto conto. Assegno, controllo la girata, altro assegno. Bonifico. Beneficiario. Importo. Causale.
Il prossimo.
Il prossimo.
Passano le settimane.
«Quant’è vera la madonna… Se una figa del genere me la dà a me, boia se non accoppo la mia mamma!», dice Loris Braghittoni.
Occhi azzurri, faccia farinosa, capelli sottili, neri, tirati a spazzola con la brillantina: questo è Braghittoni. Tiene i piedi sulla scrivania e una mano in tasca, a bordo patta, ad arpeggiarsi l’uccello, e l’altra che stringe il cellulare. Sta guardando la foto di una su Facebook, sui trentacinque, mezza nuda.
«Visto che gnocca?», mi dice, poi si mette composto sulla sedia e: «Basta, basta! Lavoriamo», scatta sulle pratiche di fido e prende il Sole 24 Ore che si porta dietro per far scena, e ammucchia fogli su altri fogli.
Sui vetri è venuta la luce della sera. Di fuori un camion salta sul dosso, poi passano una bicicletta e una mamma col passeggino; ma anche quello che c’è fuori, sui vetri, appartiene della banca, mi sembra, se lo vedo da dentro la banca.
Braghittoni adesso è al telefono, dice:
«Mia moglie sa fare le uova fritte in tre modi diversi…», e io ho la sensazione di non aver fatto niente che sia stato per me, da dieci ore a questa parte. Penso che sto guadagnando dei soldi. Ma il tempo? Come si guadagna il tempo? Anche quando esco o sto a casa, la banca va avanti per conto suo, e si prende anche il tempo libero; possibile? Passano le settimane e le giornate vanno via senza niente, un sentimento, un qualcosa, un qualcosa che serva a me. Ce l’ho messa tutta per imparare questo lavoro, come dire, dovevo farlo. Ma tutti quei gesti, quelle maniere, mi si sono appiccicati addosso. Allora provo a strapparmeli via, adesso, a sollevarli. È inutile, domani mi saranno di nuovo tra le mani.
E poi la gente dice che è un buon lavoro, la banca. Non la sentono, loro, la voce di quella testolina coltivata a brillantina, di là, al telefono…
Ripenso alla Carla, e la vedo lì, nella sua cucina, che stende la spoglia per domenica. Scommetto che i nipoti non la chiamano mai al telefono, non la guardano neanche in faccia. È così. Ma lei non si lamenta. È la loro giovinezza che la tiene su. Lo sa, lei, cosa gli frulla nella testa a loro, lo sa. Loro vogliono fare gli uomini. E va bene così.
La differenza tra me e la Carla, io penso, è che io cercherei di frenare, cadendo dal grattacielo; la Carla invece no, si lascerebbe cadere senza stramazzare, senza fare una piega.
Quante persone ci sono che dicono “questo lavoro non fa per me”? Come fanno a saperlo? O è tutta ignoranza, o il massimo dell’esperienza; ma il massimo dell’esperienza, qui dalle mie parti, non ce l’ha nessuno.
Sentirsi inadeguati fa bene, quando si lavora. Ti arriva qualcosa da dove non hai mai cercato. E chi se ne frega se bisogna stare male per adeguarsi. Tutti stanno male, alcuni non lo sanno, ma tutti stanno male. Bisogna tener duro e non chiedere aiuto a nessuno. Lo stipendio è importante.
Per un po’ di tempo voglio essere un ometto in camicia bravo coi numeri. E razzolare felicemente nella merda per ritrovare un’antica versione della vita. Penso a mia mamma, a quando dice che bisogna imparare a stare al mondo. Intende questo: stare al gioco, imparare a perdere.
«Usciamo? Hai quadrato la cassa?», mi fa Braghittoni. «Io vado in spiaggia a giocare a racchettoni».
È così che si diventa dopo le promozioni, gli scatti in busta paga ogni tre anni? È la strada per l’oblio, questa, o l’oblio ce l’ho io, che non ci so stare in mezzo alla gente.
«E dopo i racchettoni cosa fai?», gli chiedo.
«Cosa vuoi che faccio», dice lui, «mi faccio la doccia là, dal bagnino, così guadagno tempo. Poi vado a casa».
Sul conto di Braghittoni ci sono centonovantamila euro, senza contare i titoli di borsa, e senza la Volkswagen Touran parcheggiata fuori. Su quello della Carla ce ne sono quattromila. Sul mio circa uguale, però io sono più giovane. Eppure a me sembra che la Carla sia in vantaggio su tutti, su di me e anche su Braghittoni; quando aspetta lì, di mattina, seduta, con le nocche delle mani che sbattono, ha una calma…
Comunque, caro Braghittoni, il tempo non si può guadagnare. Lo puoi solo perdere il tempo, va avanti sempre, non si ferma, non lo puoi superare. Come fai a guadagnarlo, non ha senso. Allora spengo il computer, chiudo la cassaforte, prendo la chiave, vado nel suo ufficio, e lui dice:
«A domani. Oh, mi raccomando, puntuale».
E tutte le mattine così: la sveglia e la banca, e poi la Carla. Puntuali. E passano le settimane, e dopo il lavoro, prima di andare a casa, la sera, mi siedo un minuto sulla panchina, vicino al bancomat. Guardo verso il grattacielo, laggiù, o verso il mare. O verso tutti e due.