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Trascorriamo la maggior parte del tempo a nasconderci e non facciamo i conti con chi, all’improvviso, potrebbe aprirci la porta del bagno nel momento meno opportuno o, ancora peggio, con un fratello che ci coglie a trastullarci sotto le lenzuola e corre a spifferarlo ai vicini e agli amici. A volte basta un ceffone inatteso per smascherare la nostra intimità, ma poi ci rendiamo conto che è stato proprio quel ceffone a rivelarci la natura nascosta delle cose.

Arduino Gherarducci, protagonista de Il riporto, è nel pieno di una crisi esistenziale scatenata da un attacco alla parte di sé più intima e vulnerabile: il riporto.

Artefatti fino all’inverosimile, bisognosi di una manutenzione faticosa e costante a suon di pettine e colla di pesce, assediati da imprevisti meteorologici (umidità, folate di vento, pioggia) e ambientali (anche l’aria condizionata crea non pochi problemi), minacciati dal giudizio impietoso degli altri e da continue proposte di rasatura, i pochi capelli di Gherarducci sono l’elemento fondante su cui l’uomo costruisce la sua identità e l’immagine che ha di se stesso, plasmatasi sul modello paterno: il riporto è simbolo di rispettabilità, di decoro, di elevazione estetica e morale nei riguardi di un mondo che sfoggia con sfacciataggine le proprie chiome oppure ricorre all’impudica rasatura.

Ma tutto cambia quando Arduino si ritrova privo della sua armatura: sconvolto dal gesto di un suo studente che, come quei saggi zen che picchiano sulla testa coloro che si lambiccano attorno a strutture mentali troppo rigide, gli scompiglia i capelli, Gherarducci abbandona la sua vita, medita di stabilirsi in Lapponia e si rifugia in una grotta a Cingoli, dove viene conosciuto come “il calvomante”, un mistico il cui riporto ha poteri taumaturgici; ma presto anche quell’identità diventa ingestibile, e allora ad Arduino non resta altro che fuggire ancora.

Sì, sono un egoista, lo confesso. […] Non ho ancora digerito l’affronto di essere stato messo al mondo, figuriamoci se mi posso rallegrare per un disgraziato che guarisce toccandomi la testa. Ci mancherebbe altro! Non ho mai conosciuto […] una sensazione, chiamiamola così, di serenità o di gioia. Eppure, sono stato un uomo tranquillo e soddisfatto della sua tristezza. Diffido delle persone felici. Per salvaguardare la solitudine ho cominciato a ferire tutti […]. Sono umano, non ci posso fare niente. Dunque, per quale motivo mi sarei dovuto prendere a cuore i malati e i sofferenti che attraversavano il bosco per venire da me?

Sempre accompagnato dall’Etica di Baruch Spinoza, suo interlocutore privilegiato, Arduino si muove solo per reazione, in linea con il determinismo propugnato dal filosofo olandese: incapace di autodeterminazione, passivo in ogni suo rapporto, Gherarducci agisce solo se tirato letteralmente per i capelli, e senza rielaborare mai ciò che gli accade; anche quando lo accarezza il pensiero che, forse, il riporto rappresenta soltanto uno dei milioni di modi di essere, rimane immobile, incapace di prendere una direzione se non in seguito alla provocazione altrui.

E al lettore non rimane che chiedersi quale sia l’utile, sempre per dirla con Spinoza, che Arduino persegue nella sua fuga, che cosa sia questa quiete che tanto agogna, in che modo possa essere raggiunta e perché sembra essere sempre esterna a lui e irraggiungibile, dal momento che, come ci insegna l’Etica, tutto ha una radice ed è fatto della stessa sostanza di quella radice.

 Se un uomo, facevo delle ipotesi, per esempio, non ha peli sul corpo, ma solo capelli in testa, allora o è un essere angelico o è un indio delle Ande. Se non ha i capelli in testa, ma ha molti peli sul resto del corpo, è un volgare maschio a tutti gli effetti. Se invece, putacaso, ha capelli in testa e peli sul resto del corpo (anche in abbondanza), allora, in quel caso, pensavo, ci sono due possibilità: o si tratta di un ritardo evolutivo o di un uomo villoso. E da ultimo, se non ha né capelli né peli, in quel caso siamo in presenza di un marziano arrivato da una galassia lontana, che non conosce le brutture degli uomini, o di un povero alopecico.

L’italo-argentino Adriàn Bravi ha scritto un’opera assurda e compassionevole, piena di umorismo, di tenerezza, carica di un’ansia esistenziale talmente densa e ruvida da risultare quasi insostenibile, se non fosse riequilibrata da un tono leggero ma privo di leziosità, come uno sguardo leggiadro e sorridente sull’angoscia.

Adriàn N. Bravi
Il riporto (2011)
Milano, Nottetempo, 2011
pp. 150