Ringraziamo l’editore “L’arcolaio” per averci concesso di pubblicare il racconto “Il sacrificio” di Matteo Zattoni, contenuto nel libro “Deviati (Nove racconti)” (2018).
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Io lavoro coi ratti. Sono loro, in un certo senso, i miei colleghi. Anche se poi finisco per ucciderli. A dire il vero non è tanto una casualità, quanto lo scopo principale della mia occupazione: uccidere uno a uno i miei colleghi. Dovrei sentirmi un assassino per questo, eppure no, non mi sento niente. Ho smesso di sentire.
Il ratto è un modello sperimentale.
Ne esistono tantissimi a questo mondo, oltre all’impiego delle linee cellulari. L’uomo è un modello sperimentale; anche il cane e la scimmia vanno benone. Io uso una linea cellulare che si chiama HepG2, epatomi umani, cioè cellule epatiche tumorali umane ricavate da un adolescente maschio di origine caucasica.
Se vuoi testare un farmaco che ha un effetto antitumorale, l’iter è sempre lo stesso. Prima provi la molecola sulla linea cellulare che – ahimè – si discosta maggiormente dalla realtà, parlo di un tessuto in coltura. Nient’altro che un insieme di cellule dello stesso tipo, cresciute su un supporto di plastica sterile, usa e getta e di forma circolare, detto piastra. Dopo che hai avuto risultati positivi dalla coltura cellulare “in vitro”, puoi passare al modello sperimentale “in vivo”: che è la cavia.
Ed è qui che entro in scena io.
Se anche la mia cavia offre indicazioni confortanti per il glorioso cammino della Scienza, si procede alla sperimentazione sugli esseri umani. Noi siamo l’ultimo stadio. È sempre così: prima il tessuto, poi l’animale, infine l’uomo.
Ma torniamo ai ratti.
Forse per voi che li scacciate dalle vostre case, li temete quando andate in cantina o semplicemente ne provate schifo, i ratti sono tutti uguali. Mammiferi di roditori dal corpo allungato, con pelo breve e folto, zampe anteriori più corte delle posteriori, muso aguzzo, coda lunga ricoperta di squame. Squittiscono e voi saltate sulle sedie o correte a prendere la boccetta del veleno. Spiacente di contraddirvi, ma è come per le persone: ci sono ratti e ratti.
I miei colleghi appartengono alla specie assai comune del Rattus norvegicus, il cui nome rimane un mistero, poiché tali ratti pare siano originari della Cina. Il naturalista che li identificò – buon’anima – li vide per la prima volta sulle navi norvegesi che lo portavano in Inghilterra. Da lì la bella idea di catalogarlo come ratto norvegese nel suo libro Profili della storia naturale della Gran Bretagna. La razza che usiamo per gli esperimenti è la Wistar Kyoto, ma esistono incroci o razze geneticamente modificate al fine di sviluppare determinate patologie.
Ad esempio i ratti SHR, ottenuti attraverso varie e accurate selezioni, producono spontaneamente l’ipertensione e, col passare del tempo, un’ipertrofia cardiaca. L’esperimento per testare un farmaco anti-ipertensione si svolge più o meno così. Prendi 20 ratti SHR: 10 li tratti col tuo farmaco e 10 no. In questo modo sei in grado di confrontare la tua condizione sperimentale con il gruppo che non riceve il farmaco, denominato “gruppo di controllo”. Al termine del trattamento, che può durare da poche ore a svariate settimane, la cosa più semplice è verificare la pressione arteriosa dei due gruppi. In pratica si tratta di applicare alla coda del ratto uno sfigmomanometro e rilevare la pressione sanguigna minima e quella massima.
Come per gli uomini, appunto.
Anche lo stadio di sviluppo è importante. Io ho esperienza con i neonatali come coi ratti adulti, anche se ultimamente mi dedico solo ai primi: sono così teneri! Neonatale è inteso come da 1 a 4 giorni di vita. A seconda che l’animale sia adulto o appena nato cambia il metodo di sacrificio, così si chiama l’uccisione dell’animale.
«Martedì si sacrifica» diciamo nell’ambiente.
Quel giorno arrivo sempre in anticipo nel laboratorio. Così ho il tempo di finire la mia sigaretta, e schiacciarla con forza sotto la suola, davanti alla porta d’ingresso automatica. Quindi io e gli altri operatori adottiamo i normali dispositivi di sicurezza individuale, come prescrive il cartello giallo negli spogliatoi. Indosso il camice, gli occhiali protettivi trasparenti, lunghi fino ai lati della testa, gli zoccoli e, soprattutto, i guanti di protezione in lattice.
Finalmente faccio il mio ingresso nello Stabulario, che – come suggerisce l’etimo “stalla” – è la stanza in cui sono stivate le cavie. Io lo chiamo anche Animalario, visto l’odore insopportabile che emanano gli escrementi degli animali, i sacchi di mangime sparsi qua e là, i box e i castelli di gabbie, spesso sovraffollate.
Nel caso dei ratti neonatali, questi vengono partoriti direttamente nella gabbia dello Stabulario. La ditta ti spedisce la madre che partorirà nel giro di qualche giorno. Per comodità nostra, la ratta gravida arriva il primo giovedì di ogni mese, partorisce nel weekend e noi sacrifichiamo i figli il martedì.
Per ogni sacrificio ci facciamo inviare dalla ditta circa cinque o sei ratte gravide. E ognuna fa, in media, una decina di figli. Tenendo conto che lavoro in questo laboratorio da venticinque anni, nella mia carriera avrò sacrificato circa 18mila esemplari di Rattus norvegicus. Ogni volta mi prende una strana sudorazione alle mani e il ritmo del respiro si fa irregolare. Negli anni ho individuato due motivi scatenanti: il primo è puramente economico, perché gli animali costano al Dipartimento e devi far bene il tuo lavoro. La seconda ragione, invece, è più profonda e ha a che fare con l’infliggere la morte…
Spesso i novellini che vengono nel mio laboratorio – tesisti in cerca di ispirazione o neolaureati assunti come cocopro – mi dicono: “ma non è giusto”, “non lo trovo eticamente corretto” e tutte queste cose così. Io gli rispondo sempre: «Se voi avete dei ratti per casa non mettete forse il veleno? Lo sapete come agiscono i veleni moderni?» Aspetto finché non vedo scuotere le loro testoline. «Emorragia interna» dico senza muovere un muscolo.
A questo punto creo una lunga pausa a effetto e poi riattacco: «Dunque cos’è più eticamente corretto per voi? Sopprimere un ratto neonatale ancora privo dei sensi oppure un ratto adulto, che muore fra i rantoli nel vostro soggiorno?»
Tanti occhi acquosi mi fissano come serpenti ipnotizzati. Ed è allora che, voltando loro le spalle, metto la ciliegina al mio capolavoro: «Senza dimenticare che noi uccidiamo in nome della Ricerca scientifica, per studiare e curare le malattie. E questa non è vivisezione!»
Devo avere un’espressione convincente, sotto le mie rughe da volpe, visto che nessuno dei miei allievi è mai tornato sull’argomento.
In realtà, da parte mia, si tratta solo dell’eccitazione di uccidere.
La fase più pietosa non è – come si pensa – l’uccisione vera e propria. Il primo passo, che è anche il più difficile, è prelevare i figli dalla madre.
Il ratto neonatale è grande quanto il pollice di un uomo, privo di pelo e dal colorito roseo. Ha ancora gli occhi chiusi, un po’ come i gattini appena nati. Si muove alla cieca, come dentro una pasta molle.
Quando ti avvicini alla gabbia, la madre capisce tutto, Dio sa come!, e ne prende uno o due in bocca per la cute dorsale. Di fronte a tanto senso materno, tu operatore, che puoi fare? O aspetti che li molli, ma ogni secondo sono soldi per il Dipartimento. Oppure prendi la madre per la coda e la scuoti un po’.
Durante la manipolazione bisogna stare attenti al rischio di morsi o graffi accidentali, con cui possono essere veicolati agenti patogeni.
In tal caso la procedura prevede: disinfezione della ferita, controllo medico, segnalazione del caso al Servizio di igiene pubblica della USSL, che a sua volta lo trasmette al Servizio veterinario competente per territorio, e infine controllo dell’animale morsicatore (vivo o morto).
Tra le malattie trasmissibili all’uomo, le più pericolose sono: la leptospirosi e la febbre da morso del ratto che determina la suppurazione dei linfonodi.
Ora che hai prelevato la cavia, l’azione si sposta dai castelli delle gabbie a un ambiente di lavoro confinato: la cappa a flusso laminare.
Vi descriverò com’è fatta una cappa. Assomiglia a una scatola con una parete in fondo e due ai lati. Proprio davanti all’operatore è presente un vetro e, nella parte sottostante al vetro, un unico spazio vuoto dove inserire le braccia. Dall’alto agisce un getto d’aria unidirezionale (“il flusso”), depurata attraverso un filtro HEPA che è in grado di trattenere particelle del diametro di circa 0,30 micron. Sul ripiano immediatamente di fronte all’operatore dei bocchettoni aspirano l’aria.
entra anche solo un granello di impurità all’interno della cappa, si può formare una muffa o un batterio che ti contamina tutto. I risultati dell’esperimento diventano inservibili e la cavia è sacrificata invano. Questo è stato il grande limite, in passato, alla ricerca nel campo delle colture cellulari. Nonostante l’azione dei filtri, è bene utilizzare anche altri accorgimenti: l’operatore deve sempre toccare provette e piastre solo nella parte esterna, in modo da non inquinare il contenuto…
Qui avviene l’uccisione dell’animale.
Tecnicamente il sacrificio si esegue così: con la mano sinistra afferri l’animale e tieni ferme le zampine anteriori. Con la destra impugni un paio di forbici sterili a punta lunga e introduci le due lame aperte tra le scapole e il cranio del ratto. Esegui la decapitazione con un colpo secco, veloce e deciso. Stando bene attento a non tagliarti un dito!
Ridete, ridete pure… Vi sembra una battuta? Non lo è, cari i miei tesisti e neolaureati. Durante le prime decapitazioni è assai comune che vi tremi la mano con cui tenete la cavia penzolante. Inoltre, al momento del taglio, è quasi inevitabile chiudere gli occhi. E voilà: il gioco è fatto! Vi troverete con un dito sanguinante e la cavia che scorrazza liberamente per la cappa.
«Un colpo secco, veloce e deciso» ripeto ai miei allievi, un attimo prima. «Così la cavia non soffre.» E a chi mi chiede perché, rigiro la domanda.
«Scusi, lei preferirebbe morire decapitato con una lenta sega da falegname che le rode i nervi del collo oppure nel lampo della ghigliottina?»
Questa sì che è umanità.
Appena decapitato, sia la testa sia il corpo si muovono ancora. E continuano per una buona manciata di secondi; penso che ciò sia dovuto a contrazioni post mortem. Talvolta il corpo decapitato parte a camminare in avanti, a quattro zampe proprio! Mentre la testa boccheggia sul fondo della cappa, come se cercasse di respirare. Come un pesce, insomma.
Una nota di colore: nella decapitazione sono più brave le donne degli uomini. Una specie di senso materno al contrario. Agli uomini trema molto di più la mano…
A questo punto viene inciso il busto dell’animale e l’organo di interesse prelevato. Può trattarsi del cuore, il fegato, il polmone, ecc. A seconda del tipo di organo da prelevare, il metodo cambia sensibilmente.
Porterò l’esempio del cuore.
Tra il pollice e l’indice della mano, afferri la cute dorsale dell’animale, facendogli aprire le zampine anteriori. Dopodiché con un paio di forbici a punta curva, tipo quelle da toilette – le forbicine per baffi – fai un’incisione sotto ascellare da zampa a zampa lungo tutto il torace. Infine stringi maggiormente la cute dorsale per far uscire i polmoni: PLOP! Il cuore si troverà in mezzo ad essi.
Il cuore è poco più piccolo di un chicco di riso ed è di un rosso scuro e sanguigno. A vista non riesci a distinguere atri e ventricoli. Se il cuore esce subito, la procedura non è dissacrante: fai questo taglio da cui escono i polmoni e il cuore e stop. Capita, però, che il cuore non esca. Allora devi iniziare con delle profonde incisioni toraciche per trovare il cuore. E non è un’operazione così agevole, perché il cuore in un ratto neonatale è – come detto – un organo minuscolo.
Perciò alcuni scelgono di sacrificare, piuttosto che asportare. Perché il sezionamento dell’animale dà una forte idea di dissacrazione del corpo, come in quelle stampe dove Achille trascina col carro la salma di Ettore. Cosa che invece non dà l’atto della decapitazione. Altre persone invece – e sono la maggioranza – preferiscono sezionare l’animale, perché già morto. Così non si sentono responsabili dell’uccisione.
Questione di gusti. Io passo con estrema naturalezza dall’uno all’altro. Quando c’è da fare un sacrificio, sacrìfico; seziono quando c’è da sezionare. In tutta la mia carriera ho trovato solo un ratto senza cuore.
Estratto l’organo, i cadaveri vengono raccolti e avvolti in due strati, uno di carta e uno di stagnola, e poi congelati (se no, vanno in decomposizione e puzzano!). Per conservarli a -18 o -20 gradi centigradi, si utilizzano dei freezer speciali che si trovano nello Stabulario. All’interno puoi trovare delle gran carcasse di ratti, anche adulti, che qualcuno non ha insacchettato bene: una specie di frigo degli orrori. Lì i cadaveri insacchettati rimangono fino al ritiro e successivo smaltimento da parte di una ditta specializzata in ritiro/trasporto/smaltimento di rifiuti biologici.
In pratica, a metà mese, arriva un camioncino che preleva dal freezer, in un blocco unico, tutti quanti gli esemplari che si sono così volenterosamente donati alla Scienza.
I ratti adulti sono più vivaci.
Nella razza Wistar Kyoto, l’adulto è lungo circa 40 centimetri (compresa la coda), ha pelo bianco e occhi rossi. Un tipetto decisamente aristocratico. Niente pantegane di Brooklyn, per capirci. Perciò gli si riserva una procedura ad hoc.
Innanzi tutto, a differenza dei neonatali i cui organi sensoriali non sono ancora sviluppati, i ratti adulti necessitano di anestesia. L’anestesia è intesa come perdita di coscienza, più simile a un’anestesia totale insomma… E ciò si ottiene facendo respirare dell’etere dietilico, anche detto etere etilico. La sua formula è:
CH3-CH2-O-CH2-CH3
in cui -O- indica il gruppo dell’etere e CH2-CH3 il gruppo etile, ovviamente ripetuto due volte. Da ciò deriva il nome “di-etilico”.
Data la sfuggevolezza del soggetto, la respirazione non avviene come nei film polizieschi, mettendo un panno davanti al muso.
La cavia viene posta in un cilindro di plexiglas alto poco più di mezzo metro sul cui fondo si trova un panno riccamente imbevuto di etere. Di solito il ratto adulto non è molto propenso a entrare dentro questo cilindro, tant’è che le sue zampine anteriori si àncorano al bordo; un po’ come fanno i gatti quando vuoi introdurli dentro una vasca da bagno ricolma d’acqua.
Siccome però, tra i due, tu sei l’animale più intelligente, riesci a ficcarlo dentro.
In questa fase si chiude l’ingresso in alto con un ripiano, per evitare la fuga di vapori che ostacolerebbe lo stordimento del ratto, favorendo quello dell’operatore.
Per i primi 10 secondi l’animale rimane tranquillo. Dopodiché si assiste a un repentino cambiamento d’umore nel ratto: si agita come un forsennato per i successivi 20 secondi e cerca in tutti i modi di scappare, arrampicandosi su per il cilindro. Sfortunatamente per lui, le pareti del cilindro sono lisce e senz’appigli.
Per cui il suo estremo tentativo fallisce miseramente.
Alcuni ratti, particolarmente intraprendenti, si scagliano contro le pareti del cilindro, nella speranza di farlo rovesciare. Grazie a Dio, il cilindro ha una base sufficientemente ampia da impedire ogni oscillazione. Solo una volta ho avuto a che fare con un ratto talmente ipertrofico che riusciva a far traballare la struttura a furia di panciate. Poco male: è stato sufficiente tenere ferma con la mano l’estremità superiore…
Gli ultimi 20 secondi il ratto ha un tipico comportamento da ubriaco: non riesce a stare né a quattro zampe né in piedi aggrappato alla parete, barcolla.
Quando il ratto è completamente immobile, aspettiamo altri 20 secondi per sicurezza e poi lo estraiamo, richiudendo rapidamente il cilindro in modo che le esalazioni di etere non si diffondano nell’ambiente.
La cavia, ormai priva di conoscenza, viene tirata su per la coda e sacrificata, sempre per decapitazione. Ma qui si palesa un’altra importante differenza rispetto ai ratti neonatali: per uccidere un adulto non si usano forbici, ma una vera e propria ghigliottina, anche se modificata rispetto al modello del dr. Guillotin.
Questa è costituita da due lame a “V” contrapposte, invece che dalla lama unica tradizionale. La lama alta è mobile e si alza e si abbassa con una leva, mentre quella bassa è fissa; entrambe sono assai taglienti…
Giù la leva!
Decapitato il ratto, lo prendiamo sempre per la coda e si ha il taglio e l’asportazione della pelliccia, trattandosi di un esemplare adulto. Successivamente non occorre stringere la cute dorsale, come avveniva coi neonatali, per far emergere gli organi. Si procede come in una normale autopsia.
In che stato d’animo esco?
Molti miei colleghi, dopo un bel sacrificio, si sentono entusiasti per aver contribuito col proprio lavoro all’incremento del patrimonio di conoscenze scientifiche. Si danno pacche sulle spalle e, magari, vanno a farsi una bevuta insieme. Al contrario, altri escono demoralizzati perché hanno causato la morte anche di sessanta animali in un solo giorno. Anzi, poche ore. Così si chiudono in casa e non mettono il naso fuori per tutto il weekend, rimuginando sulle loro nefandezze.
Io non sono né esaltato né depresso. Sono sempre l’ultimo a uscire dallo spogliatoio, ascolto i miei passi avanzare nel corridoio, netti e inesorabili. Riservo un largo sorriso al custode che mi conosce bene e saluta. Da piccolo uccidevo le mosche con le mani, incantonandole negli angoli della porta a vetri. Oggi uccido indossando i guanti. Continuo a fare il mio lavoro.
Solo che spesso, sempre più spesso, viene a visitarmi uno strano sogno dove tutti parlano in una lingua che non conosco. Direi il tedesco dall’asprezza dei suoni. Non ho una grande memoria per i sogni, ma questo si ripete sempre uguale. Un tecnico grida: «ARBEIT MACHT FREI!» quindi scoppia a ridere e sparisce.
Nel laboratorio sono rimasto solo io e decine di ratti, in camice bianco, vengono fuori dappertutto come un fiume, dalla porta e dalle gabbie dello Stabulario; rompono tutto e si avvicinano a me e mi bloccano mani e gambe e mi trascinano in fretta verso un cilindro a grandezza d’uomo, che non ho mai visto prima. I ratti si rimandano tra loro suoni barbarici e parole incomprensibili fatte di “chs”. Il ratto che comanda le operazioni ha i baffi bianchi, grandi occhiali trasparenti e un copricapo con un’aquila lucida dal becco adunco.
Io nel cilindro non ci voglio entrare, scalcio e mi dimeno, ma quelli mi spingono a forza, sono migliaia, milioni e io non riesco a oppormi. Una volta dentro comincia a mancarmi il respiro, dai fori sopra il coperchio introducono getti di gas denso. Guardo quei milioni di occhietti che mi fissano gelidi, ma attenti a cogliere ogni mio minimo gesto. Poi si alza una coltre fittissima, non vedo più nulla, soffoco, spingo contro i bordi del cilindro, barcollo e…
A quel punto di solito mi sveglio con un sussulto.
Guardo fuori dalla finestra del mio appartamento al secondo piano, dove vivo da solo da più di vent’anni: i fumi escono dalle ciminiere. I lager li hanno spostati in altri continenti. La ricerca continua, i corpi si ammucchiano. Noi in fondo non facciamo nulla di male. Eseguiamo solo degli ordini.
Per riaddormentarmi mi ripeto mentalmente l’inizio di una favola:
“C’era una volta, nella città di Hamelin, un Pifferaio Variopinto che diceva di poter liberare la città da tutti i topi e i ratti…”
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In copertina: Il pifferaio magico, Dimitri Corradini