Era sicuramente già sera, ad ogni modo era già buio da un pezzo, essendo novembre, quando si aprì la porta della stanza accanto; l’affittacamere sgusciò dentro per girare l’interruttore della luce e il medico la seguì. Il malato si stupì di quanto poco egli fosse malato o di quanto poco la malattia lo menomasse, visto che riconobbe benissimo quelli che entravano, non mancava nessuna delle loro caratteristiche ben note, anzi, neppure quelle che di solito suscitavano in lui un senso di squallore o di schifo parevano in qualche modo esagerate, tutto era come sempre…
Kafka, in un frammento, affronta così la malattia o meglio la capacità di cogliere il mondo del malato, ed è su questa capacità che è possibile comprendere cosa sia la malattia, sullo spazio che separa il malato dalla cognizione di sé come malato. Ma d’altra parte chi è malato oggi?
Forse è proprio partendo da questa domanda che è possibile affrontare il nuovo romanzo di Francesco Marnoo. In una clinica al confine tra l’Italia e la Slovenia, il protagonista, del quale non ci viene svelato il nome, rimane in una situazione di costante incapacità di cogliere se stesso se non come un malato che dovrà esser curato. Ma ciò che rende il malato tale è il suo esser se stesso in una nuova forma, più compiutamente finita? o semplicemente malato è colui che diventa altro da sé? Su queste domande Marnoo riesce a costruire una trama povera di contenuti, non ci sono, infatti, grossi eventi, né grandi colpi di scena: lo scenario è praticamente sempre identico dall’inizio alla fine del romanzo, ma la scrittura riesce ad alternare le fasi all’interno delle quali il soggetto cambia e di conseguenza cambia anche lo stile e sembra quasi possa cambiare la trama e il libro stesso.
Affrontare libri come questi è di per sé difficoltoso per un lettore qualsiasi, ma lo è anche per chi ne scrive, perché la resa attraverso le parole di un recensore diventa un esercizio più prossimo alla radice etimologica della parola “arrendersi”, che alla restituzione vera e propria di un contenuto. Cosa posso dire io di un malato rinchiuso in un ospedale?
Il caso ha voluto che tutti, compreso il sottoscritto, siano stati in un ospedale almeno una volta nella vita, e peraltro è possibile affermare con certezza che tutti siano stati, almeno una volta, malati. Quindi cosa rende diverso me dal protagonista del romanzo? Cosa rende diverso il racconto che ho letto da quello che io sto cercando di riportare in questa recensione?
Quando ho affrontato questo libro per la prima volta ero seduto su una poltrona, con una luce elettrica abbastanza forte alle spalle, la finestra, dalla quale sarebbe dovuta entrare la luce solare, era spenta a causa dell’orario notturno. Il solo fatto di potermi sedere e leggere un libro non rappresenta niente, ma quando si ha a che fare con la malattia è tutto diverso, ogni azione sembra impossibile da compiere, così nello stesso modo la scrittura diventa impossibile da realizzare, da portare avanti, persino l’atto stesso di concepire un pensiero fatto di parole sembra essere impossibile. Ed è impossibile parlare della malattia nel libro dedicato alla malattia scritto da Marnoo, perché la malattia non c’è, non c’è in nessuna pagina del libro, non se ne parla mai, né il malato è malato, c’è solo un paziente.
E così io seduto su quella poltrona, con il libro in mano, la luce accesa, la libreria al mio fianco, non riesco esattamente a capire se poi alla fin fine non sono io il malato che legge un libro che racconta la vita di una persona sana, che in fin dei conti non morirà mai, perché non esiste.
Non si riesce a capire come Marnoo possa continuare la storia, infatti non è possibile nemmeno capire chi sia lo scrittore e chi il lettore, è su questo scarto che si gioca lo spazio della narrazione, uno spazio ampio, infinitamente ampio, all’interno del quale però non ci può essere niente. Sicuramente lo spazio letterario affronta questa ampiezza in maniera diversa, la scrittura non presenta grandi variazioni ritmiche, ma al contrario cerca di essere ricurva su se stessa, cerca di attorcigliarsi e cambiare punto di vista in base alla circostanza, ma d’altra parte la scrittura è quanto di più vicino ci sia al pensiero, pur essendo l’esatto opposto del pensiero, ne è parte costitutiva, ne è totalità, si potrebbe dire che il pensiero sia la scrittura più qualcosa di indicibile, ma cosa?
Proprio in questo senso, e in questo caso, leggere, procedere con la lettura è un gesto paragonabile alla scrittura stessa di una recensione, nello spazio in cui la recensione non ha nessun compito paragonabile alla rappresentazione dell’opera, è la scrittura di una nuova opera che potrebbe avvicinarsi all’originale, ma in realtà non potrebbe essere più lontana dal libro dal quale parte. Cosa deve fare quindi il lettore di recensioni? Cosa deve fare il recensore? Deve fidarsi e leggere il libro consigliato? Oppure deve rinunciare, perché tanto quel libro non c’entra più niente con la recensione? Ma chi è, alla fine, che recensisce? E cosa significa la parola recensione?
In questo caso, il libro di Francesco Marnoo, è rappresentabile attraverso la trama, che anche è stata raccontata, ma c’è veramente attinenza con il libro? Si ha come l’impressione di non riuscire a raccontare il libro, di rinunciare, e così nel momento in cui mi siedo in poltrona e leggo, o nel momento in cui mi siedo alla scrivania e scrivo, il libro di cui bisogna parlare sfugge, io stesso, che devo scriverne, sfuggo e così ritorno sulla poltrona, riprendo il libro e divento io stesso malato, quale può essere la cura? C’è una cura? Di cosa sono malato?
Scrivere non è possibile. I momenti nei quali affronti la trama scivolano, colano lungo scoli laterali e ci si ritrova a dover affrontare altro, a che serve la trama in un libro? La difficoltà è nel cogliere il proprio linguaggio, ed è per questo che prendo il telefono e inizio a dialogare con lui, ok, google, dimmi qualcosa sul libro di Francesco Marnoo. Quale libro? mi risponde il telefono. L’ultimo, si intitola Il soggetto.
Non riesco a scriverne, dico al mio telefono. Ne scrivo io, mi risponde e inizia aprendo un google docs nel quale le parole si susseguono una dopo l’altra. Il mio telefono ha letto il romanzo e ne sta scrivendo; io, finalmente liberato dal peso di dover rigurgitare quello che i romanzi mi fanno ingurgitare, mi siedo sulla poltrona e lo guardo. La luminosità priva di luce azzurra, per non far stancare i miei occhi rilassati, si incupisce di lettere nere su sfondo biancastro.
E scrive partendo da tutti i messaggi, tutte le email, e tutte le ricerche che ho fatto: il mio telefono conosce il mio linguaggio, il mio telefono è preciso quando parla di letteratura, dovrei parlarne con lui, ma è lì e sembra non ascoltarmi e inizia il pezzo sul romanzo di Marnoo con una citazine di Kafka. Che tempi ho, mi chiede il telefono? In effetti non ho mai parlato di consegne nelle mail, non c’è una consegna. Devo riuscire ad affrontare ciò che leggo, e per farlo ho bisogno di tempo. Ma se a leggere il libro siamo in due, forse ho bisogno di meno tempo, ho anche qualcuno con cui parlarne. Il telefono continua a farmi domande, a ricercare informazioni su quello che penso del libro, prende una mia bozza di recensione passata e la inserisce nella sua, corregge alcuni errori di distrazione, su altri mi chiede. Cosa mi può chiedere un telefono? Penso sappia già tutto. Hai idea del fatto che non è vero che il romanzo parla solo di un malato, mi dice il telefono? Eppure mi è sempre sembrato di capire così dalla lettura, rispondo. Il romanzo parla di una persona che si ammala, parla della malattia, non del malato, mi dice.
Cosa posso capire io più del telefono, che quando mi parla, ha in mente ogni singola parola del romanzo. Ha in mente? In che mente? Quindi mi stai dicendo che l’attenzione dello scrittore verte più sulla malattia che sul soggetto malato? Certo, perché in questi passaggi – e mi mostra sul dispaly tutti i passi – lo dice chiaramente. E ha ragione. Ha sempre avuto ragione. E quindi io posso scriverne solo sbagliando? Come posso interpretare un testo se non lo conosco tutto esattamente a memoria?
E se sbagliassi tu? Dico al telefono. Secondo me l’interpretazione che dai, nonostante tu creda sia evidente, è parziale, perché non capisci tutto ciò che si muove al di là del testo, al di fuori del testo, il mondo nel quale questo libro vive. Ho letto tutte le passate recensioni, mi dice il telefono, o sono io che lo dico al telefono.
Sul foglio retroilluminato del telefono non riesco più a capire chi sia io e chi sia lui, o se io sia io o se non sia solo una parte di lui, fuoriuscita da lui. Di fatto nel foglio le mie parole e le sue si fondono, si sciolgono in un flusso costante. Non voglio collaborare più con te nella stesura dei testi, dice uno all’altro, non sapendo più chi lo dica a chi e quale dei due sia in grado di rispondere. Su questo foglio iniziano ad esser trascritti i dialoghi oltre alla recensione, perché così si crea il contesto che voleva raggiungere uno o l’altro, non si sa più chi. E d’altra parte serve anche un terzo che possa gestire la questione dall’esterno, riconoscere chi ha torto e chi ha ragione tra i due, ma questa possibilità la può offrire semplicemente il telefono, “ho tutte le personalità di cui ho bisogno” ha detto ironicamente una volta, quando stavo facendo una ricerca su Artaud; l’ironia è fondamentale per una intelligenza artificiale. D’altra parte continuare a scrivere è un esondare la scrittura stessa, così come una recensione non è possibile, è necessario esondare il romanzo, e per farlo forse serve ironia, o forse serve competenza e basta, o magari serve soltanto che le parole, indipendentemente da chi le scriva, appaiano sul foglio retroilluminato del google doc.
In ogni caso la sensazione che stiamo avendo entrambi è quella di aver perso la traccia del romanzo di Marnoo. Per tornarci e per concludere il discorso, senza dilungarsi troppo, è necessario ricordare che un tipo di scrittura come quella contenuta ne Il soggetto è una scrittura aperta, incapace d’esser compresa completamente da un uomo o da un sistema operativo, forse non è comprensibile nemmeno dal lavoro congiunto di entrambi. Forse è un tipo di scrittura talmente semplice che richiama i geroglifici, ma su questo ci sono ancora molti dubbi, ovviamente. La cosa sicura è che è una scrittura assolutamente piacevole e che un romanzo come questo resterà in un cloud letterario di classici, nel quale sono compresenti tutti i più grandi romanzi della storia.