Erano passati più di vent’anni da quando il lago era stato svuotato per l’ultima volta e il sindaco Mogavero, l’artefice dell’impresa, si era addentrato con troppa passione negli incartamenti per presentarsi adesso alla stampa senza quel tono tremante della voce e gli occhi bassi sulla dichiarazione che pretendeva di leggere pur conoscendola a memoria, parola per parola, tanto ne aveva sudato la stesura:
«…è quindi ormai ufficiale, e lasciate che tenga questo “ormai” come un amico fedele, come un testimone della prudenza che ho imparato a incarnare nei due mandati e mezzo da primo cittadino della nostra città – e qua Mogavero avrebbe voluto sporgersi dal foglio e guardare davanti (così aveva annotato), ma non ce la fece – è ufficiale, dicevo, che il lago verrà prosciugato in data 20 luglio prossimo, e che Trequanda rivedrà la luce centimetro dopo centimetro, ricordo dopo ricordo».
A quel punto Mogavero registrò mentalmente il piccolo boato che esplose, riportando l’ordine con un gesto della mano. Praticamente nessuno rimase seduto: non i giornalisti più vecchi, che avevano preso gusto nel riportare i tira e molla legali, le formule burocratiche, gli annunci e le smentite; non i giornalisti più giovani, che avevano letto gli articoli dei giornalisti più vecchi e avevano tutte le carte in regola per ritenere questa un’impresa quasi miracolosa: vincere gli attriti con l’Autorità di Bacino, stracciare gli interessi della Società Idroelettrica, andare a Roma e convincere delegati e parlamentari a schierarsi dalla propria parte. Non rimasero seduti neppure i cittadini di Trequanda Alta, una decina di ascoltatori accorsi come alla prima di uno spettacolo importante. Rimasero invece seduti (ma solo per via delle artriti) coloro che a Trequanda ci avevano vissuto e che furono costretti a evacuare un giorno del ’47, tre testimoni stanati dall’inquietante possibilità di rivedere i luoghi della propria giovinezza inverditi dall’acqua, il corso con la sua ostinata pendenza incrostato di calcare, le pareti delle botteghe e dei negozi avvolte dalle alghe e dai foraminiferi.
Sarebbe stato un evento epocale. Sui taccuini dei giornalisti fiorirono parole come “biblico” o “epopea”. C’erano anche dei giornalisti stranieri, un paio di tedeschi, un giovane americano – forse più intraprendente che accreditato – e un francese dall’aria distratta che non si alzò né applaudì perché il gesto gli ricordava quando gli italiani applaudono il pilota all’atterraggio dell’aereo.
A questa piccola cordata i rispettivi direttori avevano dato il compito di segnare i punti principali e tracciare la storia che stava accadendo. Per esempio che la diga era stata costruita a partire dal ’48 e che fu terminata nel ’53. Che era inizialmente alta 74 metri e che fu innalzata a 95. Che il lago, risultato del confluire della acque deviate dei fiumi Setra e Venone, sopperiva ai bisogni energetici e irrigui di quasi 3000 persone e che il bacino, a pieno regime, constava di 70 milioni di metri cubi di acqua. Infine, naturalmente, che il paese di Trequanda fu spostato (leggi: ricostruito identico) 15 chilometri più a nord, sopra la valle, e i suoi abitanti spostati di legge nella nuova, ma identica, Trequanda Alta.
Il giorno dopo, sulle civette delle edicole, si leggeva:
L’odiato sindaco Mogavero vince il pugno di ferro con società e organizzazioni
Mogavero come Mosè divide le acque
Quest’ultimo articolo continuava così: “Ma non solo le acque sono divise. I mal di pancia in giunta sono tali che voci di corridoio parlano di scioglimento a breve. Il consiglio, due quarti Popolo della Libertà, un quarto Movimento 5 stelle e un quarto Lista civica: Insieme per Trequanda Alta (la stessa con cui si era candidato 9 anni fa il sindaco ex Alleanza Nazionale), non si riconosce più nella persona di Mario Mogavero. […] Questa di riportare alla luce la città vecchia è diventata di recente una vera e propria ossessione. Anche le altre scelte prese in consiglio lasciano pensare a una deriva a dir poco autoritaria, laddove le questioni sul tavolo parlano di ben altre priorità, per tacere delle case ancora lesionate dal terremoto di quattro anni fa”.
Tra le altre priorità c’era per esempio l’invasione dei lupi nelle aree limitrofe del comune. Il sindaco aveva dato un giro di vite sulle uccisioni non autorizzate e gli allevatori si erano associati contro di lui mentre gli animalisti gioivano in silenzio, aspettando a farne un eroe. In una foto su Facebook Mogavero accarezzava un lupo così grande e mansueto che per settimane se ne parlò come di un fantastico epic fail. La foto era diventata anche un meme virale dove si leggeva:
Il famoso sindaco Mogavero
E a sinistra un tizio che lo accarezza
Lui, in tutta risposta, l’aveva messa come foto profilo.
Altrove l’assessore all’ambiente Palumbo definiva il sindaco “un monomaniaco”.
Solo le penne più sottili videro nel gesto del sindaco Mogavero la gratuità dell’arte e della poesia.
Il quotidiano nazionale Il Foglio, meno attaccato alle questioni cittadine, dedicava due pagine, a ridosso del grande evento, alla sorprendente riscoperta di un uomo grigio e polveroso, sempre rimasto nelle retrovie del partito, che adesso studiava da dadaista. In una foto allegata si vedeva il sindaco con un sorriso da orecchio a orecchio insieme al pescatore che si era incagliato con la barca sul campanile della cattedrale sommersa, mentre lo onorava della cittadinanza adducendo motivazioni oscure, nel mormorio generale. Quella secca particolare aveva fatto mezzo impazzire il pescatore che sotto la sua immagine riflessa aveva visto non i lucci o le alborelle che sperava ma una chiesa, dei tetti e infine un’intera città.
Alcuni giorni prima dello svuotamento, Mogavero fu invitato a una trasmissione di La7 per parlare dell’iniziativa.
«Cose del genere in Cina sono all’ordine del giorno» disse uno degli ospiti.
«Intere città vengono distrutte e ricostruite sotto gli occhi di masse accondiscendenti. In questo benedetto paese il culto del passato sta diventando persino più stucchevole della mancanza di un futuro. Lei, sindaco, dovrebbe occuparsi dei problemi reali della gente, dovrebbe accogliere i richiedenti asilo come molti suoi colleghi stanno già facendo, per dirne una, invece di erigere statue a Donald Trump o far riemergere cadaveri putrescenti per le sue manie di grandezza».
Mogavero, in tv per la prima volta, fissava la telecamera mentre il suo interlocutore gli puntava un enorme indice contro.
Poi il conduttore passò da un lato all’altro dello studio – un segnale per dare diritto di replica ai suoi ospiti.
«La mia mamma,» cominciò allora Mogavero «la mia mamma ha lavorato al telaio meccanico per quasi cinquant’anni. Lo odiava più di quanto ognuno di noi possa mai odiare qualcosa. Ora, mia nipote si è messa in testa di restaurarne uno. Dice che vuole portare avanti la tradizione. Sta piegata giorno e notte su un damascato come se tessesse la trama dell’universo».
«E questo che cavolo c’entra? Mi scusi Floris ma è evidente che il sindaco farnetica, abbiamo di fronte un–»
«Appena una settimana fa,» lo interruppe Mogavero, impassibile «un miliardario cinese è passato in negozio. Sa quanti ne ha ordinati?»
L’ospite si guardò intorno in cerca di complicità, rivolgendo verso l’alto i palmi delle mani.
«Ventiquattro» continuò il sindaco, «ne ha ordinati ventiquattro. Quindi, per favore, non venga a parlare a me della Cina».
I commercianti e la pro loco si fregavano le mani. Stando soltanto alle prime stime basate sulle prenotazioni negli alberghi e sulle email di registrazione che continuavano ad arrivare erano attese migliaia di persone, il che, visto il clima generale, si poteva già considerare un successo.
Alle prime luci dell’alba arrivarono i camion delle tv locali e nazionali e, mentre gli operatori si rollavano le sigarette davanti alle serrande ancora chiuse dei bar, qualcuno guardava sulla pagina dell’evento un video dell’Istituto Luce che era stato postato più volte, un video dove il cronista descriveva con enfasi la nascita dell’invaso e il turbinare delle acque attorno alla “piccola Atlantide, sacrificata perché sgorgasse in Italia un nuovo torrente di energia e di luce”.
Quel torrente, con i suoi 60000 kW, stava per essere spento.
Sui crinali intorno alla valle le persone accampate dalla sera prima strisciarono fuori dalle loro tende con la circospezione di un mollusco trasportato da una marea improvvisa su una riva lontana e potenzialmente ostile.
Verso le dieci, Mogavero si prestò a un piccolo bagno di folla nella piazza principale ed entrando in Comune rispose alle domande di rito dei giornalisti.
Dalla finestra del suo ufficio, dove rimase a decomprimere un po’ fingendo di mettere a posto delle scartoffie, si rese conto che parte della folla erano i soliti contestatori che intonavano dei cori sulle note di un tormentone recente, forse l’ultima canzone che aveva vinto Sanremo. Suo malgrado iniziarono a venirgli in mente le parole e si ritrovò a canticchiare con loro. Uno dei cori lo chiamava con naturalezza “fascista” e lo invitava – ma invitava non è la parola – a trasferirsi a Trequanda, cosa che per un momento lo divertì.
A mezzogiorno l’ingegnere Torma azionò la leva e il sistema di svuotamento della diga (unico nel suo genere in quanto dotato al contempo di uno scarico a paratoia e di scarichi di esaurimento posizionati alla base) riportò l’acqua nel suo letto naturale sotto forma di un muro possente e marrone, una mandria di cavalli impazziti – lo stesso oscillare delle teste\onde – che quasi rubò la scena allo spettacolo dall’altra parte del calcestruzzo.
Per oltre tre ore la rete rimase congestionata a causa dei tantissimi live streaming e non ci fu verso di fare o ricevere telefonate. Solo quando tutta l’acqua fu defluita la gente si rese conto dei pesci che saltavano come virgole nella melma residua.
Prima di sera le tv smontarono e se ne andarono. La folla si dileguò lasciando una distesa infinita di rifiuti non degradabili.
Qualcuno, nei suoi ricordi, avrebbe ridotto quell’evento a poca cosa e la città a un’enorme delusione, nient’altro che dei ruderi consumati dal tempo. Qualcun altro si sarebbe ricordato dello svuotamento ma avrebbe giurato che non c’era nessuna città sul fondo, che tutto era avvenuto soltanto per una normale manutenzione. I giornali, dal canto loro, raccontarono i fatti: il gran successo dell’iniziativa e la faccia sorridente di Mogavero.
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In copertina: Charlton Heston ne “I dieci comandamenti” (1956)